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giovedì 9 settembre 2010

A proposito della conferenza tenuta da Mons. Pozzo a Wigratzbad il 2 luglio 2010...


Qualche considerazione (I)


Questa conferenza di Mons. Pozzo si è svolta in un periodo dell’anno che vede ridotte di parecchio le attività dei Dicasteri vaticani, periodo che molte volte viene riservato ad interventi particolari, quasi per mimetizzarli o per farli risaltare in tanta bonaccia.

Il Rev.mo Mons. Guido Pozzo è stato nominato, l’anno scorso, Segretario della Pontificia Commissione Ecclesia Dei, nel quadro della riorganizzazione della stessa, voluta dal Santo Padre anche in vista dell’inizio dei “colloqui dottrinali” con la Fraternità San Pio X.
Mons. Pozzo, infatti, fa parte del gruppo dei cinque esperti che, a nome della Santa Sede, si incontrano e discutono con i quattro esperti della Fraternità.

Dati il periodo e il contesto nei quali si è svolta questa conferenza, non è azzardato pensare che essa rappresenti una sorta di messa a punto relativa proprio a questi colloqui, e questo anche al di là della volontà di Mons. Pozzo.
È risaputo che lo svolgimento di questi colloqui e la loro portata sono di enorme importanza per la vita della Chiesa, se non altro perché rappresentano una novità ufficiale che sembra segnare una svolta nell’atteggiamento della Gerarchia rispetto a quella che da quarant’anni è nota come “la questione tradizionale”.

È in questa ottica che ci accingiamo a mettere nero su bianco alcune considerazioni, tenuto conto che non è nostra intenzione produrci in saggi da “teologia dilettantistica”, per i quali, peraltro, non siamo qualificati, né esibirci in composizioni pubblicistiche di bassa lega (neanche di questo siamo capaci), com’è d’uso nell’ambito cattolico post conciliare e come Mons. Pozzo ha ricordato così puntualmente.

Le nostre sono considerazioni da semplice fedele cattolico, da uomo della strada che arranca per cercare di vivere e di praticare la Fede, ben conscio dei propri limiti, ma altrettanto vigile sui pericoli di una deriva acattolica che rischia di investire le future generazioni cattoliche come ha investito e travolto quelle immediatamente precedenti la nostra.
Una riflessione senza pretese, ad uso proprio e di qualche amico che soffre le medesime difficoltà in pari semplicità.


Divideremo in più parti queste considerazioni,
e qui presentiamo la prima parte.



La premessa della conferenza di Mons. Pozzo


di Giovanni Servodio

Nella prima parte della conferenza, Mons. Pozzo indica subito l’oggetto della sua esposizione.
«È davvero difficile concepire un contrasto maggiore di quello esistente tra i documenti ufficiali del Concilio Vaticano II, del Magistero pontificio posteriore, degli interventi della Congregazione per la Dottrina della Fede da un parte, e, dall’altra parte, le tante idee o le affermazioni ambigue, discutibili e spesso contrarie alla retta dottrina cattolica, che si sono moltiplicate negli ambienti cattolici e in genere nell’opinione pubblica.»
E dopo aver indicato come chiave di lettura, per una corretta comprensione del fenomeno presentato, il famoso discorso alla Curia di Papa Benedetto XVI, del 22 dicembre 2005, precisa:
«…ciò significa che la questione cruciale o il punto veramente determinante all’origine del travaglio, del disorientamento e della confusione che hanno caratterizzato e ancora caratterizzano in parte i nostri tempi non è il Concilio Vaticano II come tale, non è l’insegnamento oggettivo contenuto nei suoi Documenti, ma è l’interpretazione di tale insegnamento.»

Il ragionamento sembra essere ineccepibile, e in questi ultimi cinque anni è stato ripetuto così tante volte, in maniera diretta e in maniera indiretta, che ormai sembra essere entrato nella categoria delle cose scontate. La cosa appare ormai così ovvia, che si parte quasi sempre da lì per sviluppare un qualche ragionamento sulla crisi che vive la Chiesa da ormai quarant’anni, crisi che, sembra accertato anche questo, non ha precedenti nella storia della Chiesa.
Diciamo sembra, perché, a ben riflettere, le cose non stanno esattamente come indicato da Mons. Pozzo. E quindi, per certi aspetti, neanche come indicato dal Santo Padre in quel suo famoso discorso.
Qui ci limiteremo a considerare il testo di questa conferenza, tralasciando, nello specifico, il richiamato testo del discorso alla Curia. Anche perché le considerazioni che faremo vertono sull’essenziale di entrambi.

È vero che c’è un inconcepibile contrasto tra i documenti ufficiali del Concilio Vaticano II e tutto quello che si dice stia dall’altra parte, ma è meno vero che quest’altra parte sia composta da idee e affermazioni magari contrarie alla retta dottrina.
Messa così la cosa, sembrerebbe che da un lato, quello del Concilio, ci sia tutta le Chiesa, mentre dall’altro ci siano degli occasionali scapestrati.
In verità, in questi quarant’anni, non sono circolate solo idee ed affermazioni, ma comportamenti, predicazioni, catechesi, governi pastorali, opere ecclesiali, convegni nazionali e internazionali, magisteri episcopali e papali, sia pure ordinari, che hanno talmente informato l’intera vita della Chiesa da potersi dire che in tante occasioni è come se ci si fosse trovati a vivere in “un’altra Chiesa”. E le cose sono state spinte fino al punto che la rappresentazione proposta da Mons. Pozzo ancora oggi si presenta, nella realtà, esattamente capovolta.
“Tutta la Chiesa” ha dato l’impressione di muoversi in senso contrario alla retta dottrina cattolica, da una parte, e un ridotto numero di uomini di Chiesa, chierici e laici, dall’altra, ha continuato a sforzarsi per rimanere fedele ai documenti ufficiali della Chiesa, ai documenti e agli insegnamenti di duemila anni e … anche a qualche documento del pastorale Concilio Vaticano II.

Per tutti, basti l’esempio della riforma liturgica del dopo Concilio, sia nella sua formulazione sia nella sua applicazione.
Questa, pur fondandosi sulla Sacrosanctum Concilium, fu evidente a tutti che rappresentava un’interpretazione del documento, e una “libera” interpretazione, che per di più dava la formale libertà di applicazione, ad libidum, a chiunque, dai vescovi, ai celebranti, ai laici, questi ultimi nella loro veste di componenti dei consigli pastorali parrocchiali e diocesani e di iniziatori dei più eclettici “movimenti ecclesiali”: tutti si sono confezionata una liturgia ad hoc.
Il ridotto numero di uomini di Chiesa, chierici e laici, che hanno resistito in nome della continuità con la bimillenaria liturgia della Chiesa, per ciò stesso sono diventati perfino dei sospetti eresiarchi o, nella migliore delle ipotesi, dei fomentatori di scismi, e per questo osteggiati e condannati.
 
Ma questa operazione macroscopica, che, com’era inevitabile e facilmente prevedibile, ha toccato tutta la vita della Chiesa, non è stata portata avanti da un gruppo di scapestrati occasionali o di avventizi preti d’assalto, bensì dal Papa Paolo VI e dai vescovi, quegli stessi vescovi, peraltro, che avevano redatto i documenti del Concilio.
Non v’è dubbio che tutta l’operazione fu condotta sulla base, non della lettera della Sacrosanctum Concilium e della sua mens, che pure avrebbe dovuto essere ben chiara nella testa dei responsabili, anche per una semplice questione temporale: il Concilio era finito appena allora; ma sulla base dell’interpretazione della Sacrosanctum Concilium accompagnata della diffusa e condivisa percezione, di non poco conto, che la mens, la vera mens del Concilio, imponeva un cambiamento “radicale”, una rottura. Ed una rottura col passato che non doveva riguardare solo certi aspetti liturgici e teologici, ma doveva arrivare a colpire l’immaginario collettivo dei fedeli, chierici e laici, così da produrre una “nuova coscienza ecclesiale”, come più volte è stato affermato.
Come dire che la Sacrosanctum Concilium, per essere applicata, con l’assenso e l’approvazione pontificie, non doveva essere letta e dedotta, ma doveva essere interpretata al di là, e se necessario nonostante, la stessa Sacrosanctum Concilium, sia dal punto di vista del contenuto liturgico, sia dal punto di vista della disciplina liturgica, sia e soprattutto dal punto di vista della pratica della Fede.

Ora, tutto questo sarà forse stato corretto o forse sarà stato scorretto, sarà forse stato opportuno o forse sarà stato inopportuno, sarà forse stato ortodosso o forse sarà stato eterodosso, fatto sta che è stato sostenuto, approvato e applicato dal Papa e dai vescovi. Da tutta la Chiesa.
Ed abbiamo fatto l’esempio della riforma liturgica e della sua applicazione proprio perché “la liturgia è il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, insieme, la fonte da cui promana tutto il suo vigore”, come dice il Concilio Vaticano II (SC, 10). Era quindi chiaro, nella mente dei riformatori, che toccando la liturgia si sarebbe toccata tutta la vita della Chiesa, dottrina e catechesi compresa; e che toccandola in un modo piuttosto che in un altro era possibile muovere l’intera vita della Chiesa in una direzione o in un’altra: in termini di continuità o in termini di rottura con la Tradizione. Non è un caso che la “Costituzione sulla Sacra Liturgia”, per mezzo della quale si è poi realizzata la riforma liturgica, sia stato il primo documento approvato dal Concilio.

In queste condizioni, non crediamo sia esatto parlare di interpretazione, poiché, se una tale interpretazione è facilmente riconducibile a quasi tutta la Gerarchia, e lo è, è inevitabile concludere che non di “una interpretazione” si trattò, ma “della interpretazione”, e si potrebbe dire “dell’interpretazione della Chiesa”, se non fosse che in questa occasione la Chiesa, quella vera, invece che essere soggetto, è divenuta oggetto, tanto da subire questo processo suo malgrado.

Ora, quando si parla di interpretazione del Concilio, è scontato che si dovrebbe avere in mente il rapporto che inevitabilmente si viene a stabilire tra una formulazione teorica e la sua successiva applicazione pratica. In un tale rapporto entrano in giuoco, com’è umano, diversi fattori pratici, contingenti e di opportunità, fattori che, tenuto fermo l’impianto teorico, aiutino a giungere ad una coerente trasposizione pratica, nella realtà ordinaria, dello stesso impianto teorico.
È questo che è accaduto con l’applicazione del Concilio?
A seguire il ragionamento circa l’“interpretazione”, sembrerebbe di no.
In effetti, e questo è il secondo elemento controverso di questa problematica interpretativa: non sarebbe possibile parlare di “interpretazione da rottura” se non ci trovassimo al cospetto di un fenomeno diffuso e permeante tutta la vita della Chiesa, perché, se si fosse trattato e si trattasse di un fenomeno marginale o episodico, non sarebbe neanche il caso di perderci del tempo.
Non v’è dubbio, allora, che quando lo stesso Pontefice sente il bisogno di mettere in chiaro una problematica del genere, presentandola addirittura come una sorta di “programma pastorale” per l’intero suo futuro pontificato, ciò di cui tratta deve avere delle connotazioni universali, dev’essere di una portata universale, deve presentare delle implicazioni che toccano tutto il corpo e tutta la vita della Chiesa.
E, in effetti, le cose stanno così.
L’interpretazione da rottura col passato ha così permeato tutta la vita della Chiesa da richiedere una energica correzione di rotta: non si tratta quindi di qualcuno o di certuni che hanno male interpretato, ma di una cattiva interpretazione generalizzata che comprende quasi tutti gli uomini di Chiesa.

Ma, a questo punto, ci si deve chiedere, inevitabilmente: come si è potuto giungere a tanto?

Da un lato vi sono i documenti del Concilio e, come elenca Mons. Pozzo, quelli del Magistero pontificio posteriore e gli interventi della Congregazione per la Dottrina della Fede, dall’altro ci sarebbe una interpretazione erronea degli stessi.
A noi sembra che un paradigma del genere non sia correttamente sostenibile.

Intanto, l’eventuale cattiva interpretazione potrebbe essere relativa solo ai documenti del Concilio, poiché i documenti del Magistero e gli interventi della Congregazione potevano, e dovevano, solo servire a correggere tale cattiva interpretazione. Ma se dopo quarant’anni, si è costretti a parlare di “correzione di rotta”, è lecito dedurne che Magistero e Congregazione in questo lasso di tempo non abbiano lavorato in tal senso o, quanto meno, non siano riusciti nel lodevole intento.
Orbene, anche una cosa del genere non è sostenibile, se non a condizione di ammettere che da un lato c’è stato il Magistero e la Congregazione e dall’altro “tutto il resto della Chiesa”: una situazione invero paradossale, che finisce col fare a pugni con tutto il ragionamento.
Tranne che non si pensi che perfino i documenti del Magistero e gli interventi della Congregazione abbiano subito la stessa sorte interpretativa. Tornando così al problema di prima.

In realtà, l’unica riflessione possibile, circa la cattiva interpretazione, è che essa sia fondata su elementi di ineluttabilità. Cioè che, per molti aspetti, l’interpretazione erronea dei documenti del Concilio – e di rimando di quelli del Magistero e degli interventi della Congregazione – è fondata sui documenti stessi. Non nel senso generico che una qualsiasi interpretazione è inevitabile che parta dall’elemento da interpretare, ma nel senso specifico che tali documenti portano in sé i presupposti della cattiva interpretazione.
L’immagine dei “documenti ufficiali” che sarebbero come limpidi e immacolati è una pura ipotesi di lavoro, una lodevole, ma insostenibile, supposizione strumentale. Diversamente, si dovrebbe pensare ad una colpevole omissione da parte dell’Autorità, per aver mancato di esercitare il necessario e giusto intervento correttivo risolutorio, a fronte di cotanta sfrontatezza dei cattivi interpreti.
Se cattiva interpretazione c’è stata è perché i “documenti ufficiali” si presentano ricchi di spunti e di suggerimenti che portano alla cattiva interpretazione stessa.
Per non parlare dell’attenzione critica che bisognerebbe rivolgere a questi documenti avendo in vista la possibilità che siano stati formulati in maniera tanto equivoca proprio per favorire una interpretazione che, oggi, viene definita “erronea”, ma che nell’intenzione dei “formulatori” era del tutto legittima e auspicabile.

Se poi dopo quarant’anni ci si è accorti che si è trattato di un percorso illegittimo e deplorevole, bene, ci si accinga a correggerlo, ma non si può partire col piede sbagliato, auto-convincendosi che da un lato ci sono i documenti, “illibati”, e dall’altro i cattivoni e i marpioni che è ora, finalmente, di ridimensionare e di mettere a tacere.
Eludendo il problema centrale, e cioè la problematicità dei documenti del Concilio, nel contenuto e nella formulazione, la soluzione non si intravedrà mai, esattamente com’è accaduto in questi ultimi quarant’anni. E tra quarant’anni saremo ancora qui a discutere dell’interpretazione e dell’interpretazione dell’interpretazione e così via interpretando.

Tutte queste considerazioni conducono ad una riflessione che non potremo approfondire in questa sede, ma a cui pensiamo sia opportuno accennare per completare il nostro ragionamento.

Non è pensabile che sia potuto accedere tutto questo solo sulla base di qualche svista, di qualche malinteso, di qualche mala volontà e del concorso di circostanze sfavorevoli; senza un diffuso  e profondo convincimento, fondato su una visione complessiva della Chiesa e della Fede, non potevano prodursi documenti equivoci e interpretazioni eterodosse. Alla base di tutto questo c’è stato, e c’è ancora, una concezione del mondo e della Chiesa che si è allontanata parecchio dai principi autenticamente cattolici.

Senza arrivare a parlare di una sopraggiunta perdita della Fede, è facile considerare che si è trattato di un eccessivo adattamento alla mentalità del mondo, il quale, per sua stessa natura, è avverso alla Fede e, in ultima analisi, a Dio stesso. Adattamento che, come riconosce lo stesso Mons. Pozzo, non nasce col Concilio, ma ha radici ben più profonde e ben più lontane. Adattamento che è il fisiologico sbocco dell’affermarsi nella Chiesa di quelle tendenze già bollate a fuoco dai papi, dall’Ottocento a metà del Novecento, ma che, ciò nonostante, hanno finito per allignare, come zizzania, all’interno del corpo ecclesiale, il quale, quasi sprovvisto di anticorpi, non è riuscito a debellare o a frenare il male crescente e sempre più invasivo.

Ci riferiamo a quella mentalità modernista e progressista ripetutamente condannata dalla Chiesa proprio in relazione alla sua diffusione negli stessi ambienti ecclesiali.
Una mentalità che concepiva la Chiesa molto più terrena che divina; che pensava alla Redenzione avendo in vista il benessere terreno dell’uomo; che parlava dei dogmi come di strumenti legati al tempo e alla sensibilità attuale e quindi destinati ad essere “aggiornati”; che approfondiva la dottrina sulla base della filosofia umana, richiedendo inevitabilmente la sua continua riformulazione; che considerava il culto cattolico una sorta di parto dei sentimenti umani, e quindi tale da doversi conformare ai gusti e ai tempi; che considerava l’unicità della Chiesa di Cristo un modo di dire, da mediare con tutti gli altri sedicenti cristiani fuori dalla Chiesa stessa; che vedeva nelle false religioni altrettante rivelazioni particolari parimenti degne di rispetto; che considerava la vita della Chiesa al pari di quella di una qualsiasi società laica; che, in definitiva, guardava alla Tradizione come fosse folklore, inventandosi il controverso neologismo di “tradizione vivente”.

Una mentalità complessiva che, come un cancro, aveva invaso collegi e seminari, conventi e curie, e che salutò come un’occasione da non perdere l’inaspettata convocazione del Concilio Ecumenico Vaticano II.
Una mentalità di cui si può cogliere un esempio importante nel famoso inno all’uomo che proruppe dal più profondo del cuore di Paolo VI, il Papa del Concilio, in occasione dello sbarco sulla luna:
«Un grido di meraviglia vorrebbe esprimersi in un canto di pienezza spirituale. […]
L’uomo, questo atomo dell’universo, di che cosa è capace! Onore all’uomo! Onore al pensiero! Onore alla scienza! Onore alla tecnica! Onore al lavoro! Onore all’ardimento umano! Onore alla sintesi dell’attività scientifica e organizzativa dell’uomo, che, a differenza di ogni altro animale, sa dare strumenti di conquista alla sua mente e alla sua mano. Onore all’uomo, re della terra ed ora anche principe del cielo. Onore all’essere vivente, che noi siamo, il quale in sé rispecchia il volto di Dio, e dominando le cose obbedisce all’ordine biblico: cresci e domina. Da secoli l’uomo sta meditando il suo enigma: conosci te stesso. Oggi egli progredisce, sì, nella scoperta di se stesso: egli è il «figlio che cresce» come dice la Bibbia (Gen. 49, 22). L’uomo vede in sé rispecchiato il suo invisibile mistero, lo spirito immortale, e sperimenta il suo premente destino naturale: progredire. (Angelus, 7 febbraio 1971).

Se questo è un discorso cattolico?!
Se questo è un discorso del successore di Pietro, Vicario di Cristo?!
Mah!

Sono questi i presupposti del Concilio Vaticano II e di ciò che ne è derivato, a cui bisogna aggiungere una loro logica conseguenza, già autorevolmente operante al tempo del Concilio: quell’emblematico superottimismo, quasi da sprovveduti, con il quale è stato indetto, aperto e condotto il Concilio stesso:
«Non c’è nessun tempo in cui la Chiesa non si sia opposta a questi errori; spesso li ha anche condannati, e talvolta con la massima severità. Quanto al tempo presente, la Sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia invece di imbracciare le armi del rigore; pensa che si debba andare incontro alle necessità odierne, esponendo più chiaramente il valore del suo insegnamento piuttosto che condannando».
Un programma che, al di là della ingenua e surreale supposizione presentata da Giovanni XXIII in questo discorso di apertura del Concilio (11 ottobre 1962), poneva un punto fermo che, col linguaggio odierno di cui ci stiamo occupando, si potrebbe definire da “volontà di rottura”:
«mai [in nessun tempo e in nessuna circostanza] la Chiesa è venuta meno al suo dovere di condannare gli errori – dice Giovanni XXIII – oggi però [che ci sono io?] la Sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia.»
In questo surreale programma è contenuta una delle radici, fra le più vigorose, di tutta la problematica di cui stiamo trattando: a) rottura col passato (in nessun tempo… oggi però); scelta sentimentale con oblio dell’ossequio alla consuetudine della Chiesa e alla legge di Dio (oggi… preferisce usare); concezione accomodante col mondo (si debba andare incontro alle necessità odierne [del mondo]); desistenza dell’Autorità (piuttosto che condannando); ripiego sulla sola testimonianza e messa a lato dell’evangelizzazione (esponendo più chiaramente [nei termini del mondo]).

E con queste premesse non stupiscono più le parole di Paolo VI, che riportiamo con nostre sottolineature: quasi una sorta di “riassunto” dell’appena concluso Concilio:
«Ma non possiamo trascurare un’osservazione capitale nell’esame del significato religioso di questo Concilio: esso è stato vivamente interessato dallo studio del mondo moderno. Non mai forse come in questa occasione la Chiesa ha sentito il bisogno di conoscere, di avvicinare, di comprendere, di penetrare, di servire, di evangelizzare la società circostante, e di coglierla, quasi di rincorrerla nel suo rapido e continuo mutamento
[…]
«L’umanesimo laico profano alla fine è apparso nella terribile statura ed ha, in un certo senso, sfidato il Concilio. La religione del Dio che si è fatto Uomo s’è incontrata con la religione (perché tale è) dell’uomo che si fa Dio. Che cosa è avvenuto? uno scontro, una lotta, un anatema? poteva essere; ma non è avvenuto. L’antica storia del Samaritano è stata il paradigma della spiritualità del Concilio. Una simpatia immensa lo ha tutto pervaso. La scoperta dei bisogni umani (e tanto maggiori sono, quanto più grande si fa il figlio della terra) ha assorbito l’attenzione del nostro Sinodo. Dategli merito di questo almeno, voi umanisti moderni, rinunciatari alla trascendenza delle cose supreme, e riconoscerete il nostro nuovo umanesimo: anche noi, noi più di tutti, siamo i cultori dell’uomo.
[…]
«Ma bisogna riconoscere che questo Concilio, postosi a giudizio dell’uomo, si è soffermato ben più a questa faccia felice dell’uomo, che non a quella infelice. Il suo atteggiamento è stato molto e volutamente ottimista. Una corrente di affetto e di ammirazione si è riversata dal Concilio sul mondo umano moderno. Riprovati gli errori, sì; perché ciò esige la carità, non meno che la verità; ma per le persone solo richiamo, rispetto ed amore. Invece di deprimenti diagnosi, incoraggianti rimedi; invece di funesti presagi, messaggi di fiducia sono partiti dal Concilio verso il mondo contemporaneo: i suoi valori sono stati non solo rispettati, ma onorati, i suoi sforzi sostenuti, le sue aspirazioni purificate e benedette.
[…]
«Tutto questo e tutto quello che potremmo dire sul valore umano del Concilio ha forse deviato la mente della Chiesa in Concilio verso la direzione antropocentrica della cultura moderna? Deviato no, rivolto sì

E chiudiamo questa lunga citazione con una frase che si adatta perfettamente a quanto è accaduto nel post Concilio:
«Troppo brevemente noi ora parliamo delle moltissime e amplissime questioni, relative al benessere umano, delle quali il Concilio s’è occupato; né esso ha inteso risolvere tutti i problemi urgenti della vita moderna; alcuni di questi sono stati riservati all’ulteriore studio che la Chiesa intende farne, molti di essi sono stati presentati in termini molto ristretti e generali, suscettibili perciò di successivi approfondimenti e di diverse applicazioni. »

Ci scusiamo per la lunghezza della citazione, tratta dal discorso di chiusura del Concilio, pronunciato da Paolo VI  il 7 dicembre del 1965, ma ci sembra che queste parole illustrino a sufficienza quella che è stata la vera intenzione del Concilio.

Per ultimo, riportiamo ancora le parole di Paolo VI, pronunciate nel corso dell’omelia della S. Messa per il IX anniversario della sua incoronazione, il 29 giugno 1972.
È sorprendente come a sette anni dalla chiusura del Concilio questo Papa si esprima in termini che chiaramente capovolgono quello che abbiamo appena letto. Sette anni, solo sette anni per dichiarare amaramente che il post Concilio è fallito e, diciamo noi, con esso il Concilio stesso, sia nelle opere sia nelle intenzioni.
[non possiamo mettere le virgolette, perché siamo in possesso solo del resoconto di questa omelia, come pubblicata nel sito del Vaticano]
il Santo Padre afferma di avere la sensazione che «da qualche fessura sia entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio». C’è il dubbio, l’incertezza, la problematica, l’inquietudine, l’insoddisfazione, il confronto. Non ci si fida più della Chiesa; … È entrato il dubbio nelle nostre coscienze, ed è entrato per finestre che invece dovevano essere aperte alla luce. … Anche nella Chiesa regna questo stato di incertezza. Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta, di buio, di ricerca, di incertezza. … Come è avvenuto questo? Il Papa confida ai presenti un suo pensiero: che ci sia stato l’intervento di un potere avverso. Il suo nome è il diavolo, questo misterioso essere cui si fa allusione anche nella Lettera di S. Pietro. Tante volte, d’altra parte, nel Vangelo, sulle labbra stesse di Cristo, ritorna la menzione di questo nemico degli uomini. «Crediamo - osserva il Santo Padre - in qualcosa di preternaturale venuto nel mondo proprio per turbare, per soffocare i frutti del Concilio Ecumenico, e per impedire che la Chiesa prorompesse nell’inno della gioia di aver riavuto in pienezza la coscienza di sé.

Posto che è stupefacente che un papa si accorga a posteriori che esiste il diavolo, dobbiamo confessare che a noi sembra che queste parole, più che uno sfogo, esprimano un terribile turbamento, ed è facile immaginare lo stato d’animo di Paolo VI a sette anni dalla chiusura del Concilio, dopo che abbiamo letto ciò che aveva detto nel discorso di chiusura dello stesso. Leggendo queste parole si ha l’impressione che tale turbamento abbia influito parecchio sulla capacità di giudizio del Papa, non si spiega diversamente, infatti, la frase conclusiva, ove si parla di soffocamento dei frutti del Concilio e di impedimento dell’esultanza per la riacquisita piena coscienza di sé della Chiesa. Non possiamo credere che il Papa parlasse in piena coscienza di sé.

È vero che è da sempre che il diavolo fa di tutto per impedire all’uomo di vivere secondo la volontà di Dio, ma è altrettanto vero che per far questo si serve degli uomini, non usa la bacchetta magica. E per secoli i papi hanno sempre parlato di questo, in relazione agli uomini del mondo e in relazione agli uomini di Chiesa, e Paolo VI avrebbe dovuto saperlo meglio di chiunque altro, non nel 1972, ma già fin dal tempo del Concilio e prima ancora: bastava agire e predicare di conseguenza, invece di comportarsi come se il mondo moderno, con il suo rifiuto di Dio, fosse propedeutico all’acquisizione della Fede.

È stato sempre questo il mestiere del diavolo, il mentitore: convincere gli uomini della bontà dei suoi suggerimenti menzogneri.

Sarebbe fin troppo facile ricordare che chi è causa del suo mal… e non lo facciamo per carità cristiana.
Ci interessa di più considerare che quando si parla di cattive interpretazioni e di interventi magisteriali ad esse relative, bisognerebbe sempre tenere presenti queste parole pronunciate dal Papa nel 1972. Il discorso alla Curia di Benedetto XVI è del 22 dicembre 2005, quasi 32 anni e mezzo dopo. Come giudicare il comportamento della Gerarchia in questi 32 anni, dopo il grido di dolore lanciato da Paolo VI? Potremmo dire che tutti hanno fatto finta di niente o potremmo dire che a tutti andava bene la piega che le cose avevano preso e viepiù prendevano, ma… non lo diciamo, ci limitiamo a considerare che è difficile, molto difficile, troppo difficile seguire il ragionamento dell’interpretazione e della sua possibile correzione, date le premesse.

Solo un miracolo del Signore potrà porre rimedio a tutta questa incredibile confusione.
Preghiamo per questo.

2 commenti:

  1. EBBENE, CHE C'E' DA RISPONDERE AD UNA ANALISI LOGICA COME QUESTA? QUALI SOFISMI ED ARZIGOGOLATURE ALLA "POST-CONCILIO", O MEGLIO ALLA "NEOCATECUMENA" SI POSSONO OFFRIRE A QUALCHE MENTE DESIDEROSA DI OTTIMISMO AD OLTRANZA PER ILLUDERE LA SUA COSCIENZA?
    OTTIMA ANALISI,A PARER MIO....

    RispondiElimina
  2. Mons Pozzo e chi gli sta sopra: il famigerato "cerchiobottismo", ovvero cercare di far quadrare il cerchio che non può schiacciarsi e menare un colpo al cerchio ed uno alla botte per assestare la botte ormai storta che si sta sfasciando. Pervicacia nel non voler vedere gli errori evidenti perduranti da 40 anni e che continuano a produrre guasti sempre peggiori.....

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