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mercoledì 2 novembre 2011

Deliri modernisti di un catechista della setta eretica Neocatecumenale...

I cattivi amici sono più pericolosi dei demoni

Don Dolindo Ruotolo sui nemici dell'anima.

La vita dell'uomo sopra questa terra, è una battaglia ha detto il santo Giobbe; non tanto materiale, per le croci e per le preoccupazioni della vita, quanto spirituale, per gli assalti che continuamente subisce la nostra anima. E necessario che noi non ci troviamo impreparati, nella terribile lotta che deve glorificare Dio nei nostri cuori e che deve formare il nostro merito nel Cielo. [...] Il demonio non è il solo a tentarci; si è associato nella lotta quello che è suo, e spesso è più pericolosa la lotta che viene dai suoi affiliati. Il mondo, con le sue seduzioni e con le sue menzogne, la carne con le sue pretese e con la sua sete di desideri materiali e di piaceri, sono nemici ugualmente pericolosi. Temiamo anzi di più i demoni visibili e viventi, perché essi ci fanno minore spavento e più facilmente ci seducono. Le occasioni pericolose, i cattivi amici, quelli che ci lusingano con un falso amore, quelli che c'ingannano con false dottrine, quelli che ci strappano dalla fede della Chiesa, sotto pretesto di darci un regno pieno di gloria e di felicità, sono tutti demoni peggiori di quelli dell'abisso infernale! Quante volte i cattivi non ci ripetono: Ti darò ogni bene, se cadendo mi adorerai? Lo ripete il libertino alla povera fanciulla imprudente, lo ripete la donna all'uomo inesperto, lo ripetono i settari, i massoni, i socialisti, gli anticlericali a quelli che vogliono ingannare!...

[...] non dobbiamo credere che il demonio per tentarci debba comparirci sensibilmente. Quei desideri perfidi, quei fantasmi impuri, quelle illusioni pericolose, sono suggestioni diaboliche che bisogna cacciare da noi prontamente; non diamo spazio da parte nostra, a miserie, turbando lo spirito con i romanzi, con i teatri, con gli spettacoli, con i balli, con le conversazioni licenziose; desideriamo solo Dio, amiamo solo Dio, serviamo a Lui solo fedelmente e la nostra vittoria sarà sicura e degna della corona immortale!

[Don Dolindo Ruotolo, “Vita di N. S. Gesù Cristo”, Apostolato Stampa]

 Questo è un delirante commento di tale Pasquale T., catechista della setta eretica Neocatecumenale: oltre che osannare il modernista conciliabolo Vaticano II, costui dà una sua lettura, naturalmente eretica visto la sua appartenenza a tale setta, sulla "libertà di coscienza" attribuendo tale tesi adirittura a San Tommaso:
Modernisti, predicatori di eresie...

ll CONCILIO Vaticano II ha posto particolare enfasi sulla coscienza personale. La coscienza, si legge nella Gaudium et Spes, è "il nucleo più segreto dell'uomo, il santuario dove egli è solo con Dio, e dove la sua voce è ascoltata. "E 'attraverso la coscienza che Dio ci guida. Il CONCILIO adotta la teologia classica di San Tommaso che la vita morale è guidata dalla coscienza e che si deve obbedire alla coscienza, anche se falsa. Saremo giudicati dalla fedeltà alla nostra coscienza.

Questa teologia della coscienza ha due importanti conseguenze. In primo luogo, la Chiesa cattolica non disprezza più la maggior parte dei cristiani dissidenti come eretici e li rispetta perché sono fedeli alla loro coscienza. Nel formare la loro coscienza con la lettura della Bibbia e l'ascolto della tradizione cristiana, i cristiani giungono a posizioni diverse da quelle del magistero cattolico, e sono obbligati a seguire la propria coscienza. Nella dichiarazione conciliare sulla libertà religiosa, il CONCILIO riconosce che l'essere umano ha diritto di fare un cammino spirituale seguendo la sua coscienza, ed è un diritto che la società deve rispettare. La teologia della coscienza permette alla Chiesa di rispettare i seguaci delle grandi religioni che, secondo la loro coscienza, la compassione pratica, amano il prossimo e si aprono alla sfera spirituale.

Questa teologia della coscienza ha un'altra conseguenza pratica: tende a liberare la coscienza cattolica. Come cattolici siamo costretti a formare la nostra coscienza attraverso l'ascolto del magistero, ma che cosa facciamo quando non siamo convinti ? Obbedire alla posizione ufficiale senza essere convinti - e quindi in grado di integrarla nella nostra coscienza - è moralmente problematico. Andare contro coscienza non è una scelta accettabile. Se non si riesce ad essere persuasi dalla posizione del magistero, la cosa da fare è seguire la propria coscienza. Questa è l'unica scelta morale.

Viva il CONCILIO!!! 


Ora per illuminare questa mente traviata dalla predicazione Kikiana e modernista conciliare e post conciliare mettiamo in risalto l'ultimo scritto di Don Curzio Nitoglia su San Tommaso:


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Attualità del tomismo
●Nell’attuale disordine ed instabilità degli spiriti la dottrina tomistica, che eleva a scienza filosofica i princìpi insegnati dal senso comune ad ogni uomo, conserva tutte quelle verità immutabili ed ordinate senza le quali è impossibile conoscere la realtà che ci circonda, la natura dell’uomo e la spiritualità della sua anima, l’esistenza di Dio e qualcosa della sua essenza, l’arte di vivere bene in ordine al Fine ultimo. Se non esistono nozioni immutabili, crolla la stabilità dei giudizi razionali e dei dogmi soprannaturali della religione cristiana. Il giudizio (p. es. ‘l’anima è immortale’) è un’affermazione che unisce due concetti o nozioni. Se le nozioni (‘anima’ e ‘spirituale’) non sono precise, definite ed immutabili, il giudizio sarebbe infondato a sua volta e il ragionamento (concatenazione di due giudizi dai quali si trae una conclusione) non giungerebbe a nessuna conoscenza certa, ma sarebbe sconclusionato e porterebbe disordine e sconclusionamento in ogni sfera dell’essere ed agire umano.

●Dal punto di vista del realismo della conoscenza, secondo cui “la verità è la conformità del pensiero alla realtà oggettiva” e per il principio di non-contraddizione, due sistemi filosofico-teologici che si oppongono non possono essere veri entrambi; l’uno è vero, l’altro è falso. Invece dal punto di vista dell’immanentismo moderno, secondo cui “la verità è la conformità del pensiero alle esigenze della vita”, la verità muta incessantemente col cambiare dei bisogni soggettivi dell’uomo. Quindi la verità non esiste, ma diviene o si fa incessantemente. Assieme alla definizione della verità di ordine naturale cambia anche il dogma e la verità della religione rivelata, che - essendo costantemente mutevole - cessa di essere vera. Allora non vi è più verità e non-contraddizione, ma tutto è relativo, soggettivo e contraddittorio. La Fede cattolica viene rimpiazzata dal sentimentalismo soggettivistico e diventa un’esperienza di vita religiosa, che evolve costantemente secondo gli umori dell’uomo. L’attualità e la necessità urgente del ritorno al tomismo consistono nel porre rimedio al disordine intellettuale, morale e spirituale, che scaturisce dalla instabilità o moto perpetuo degli spiriti. San Pio X diceva che “il male di cui soffre il mondo moderno è soprattutto un male dell’intelligenza: l’agnosticismo” (Pascendi, 1907). Dall’agnosticismo si passa al relativismo e al soggettivismo assoluti. È per questo che il magistero della Chiesa da Leone XIII (Aeterni Patris, 1879) sino a Giovanni Paolo II (CIC, 1983; Fides et ratio, 14/9/2011) ha ribadito la necessità di conoscere la dottrina del Dottore Comune o ufficiale della Chiesa ed aderirvi. San Pio X ha insistito nel corso del suo pontificato, dalla Pascendi sino al Giuramento anti-modernista, nell’insegnare che “allontanarsi dalla metafisica tomistica comporta un grave detrimento e pericolo”. La vita può essere considerata realisticamente come oggettivamente fondata nella realtà. In tal caso l’azione è vera e buona se ordinata realmente e oggettivamente al fine ultimo. Questo può essere giudicato come vero solo se corrispondente al reale e non ai bisogni soggettivi di ogni uomo, che cambiano continuamente. Quindi anche in questo caso si ritorna alla definizione classica di verità e si abbandona quella pragmatistica ed immanentistica di Maurice Blondel e dei modernisti. L’azione vera e buona si ridefinisce in rapporto al vero Fine ultimo (S. Th., I-II, q. 19, a. 3, ad 2) e non viceversa, come vorrebbe Blondel, altrimenti resteremmo impantanati nell’agnosticismo relativistico e soggettivistico.
●L’immutabilità dell’essere, come atto ultimo di ogni essenza, fonda l’immutabilità e stabilità dei giudizi filosofici e delle formule dogmatiche. Se l’essere mutasse continuamente secondo le esigenze della vita dell’uomo, i giudizi razionali e le definizioni dogmatiche sarebbero fragili ed in constante evoluzione. Il verbo essere, che è l’anima, il gancio o il ponte che unisce un soggetto a un predicato, deve dare immutabilità ad un giudizio. Ora se l’essere muta continuamente, se anche le nozioni (predicato e soggetto) cambiano costantemente, i giudizi, i ragionamenti razionali e le definizioni dogmatiche o di Fede cambierebbero costantemente e continuamente, nulla sarebbe più vero e stabile sia nell’ordine della ragione che in quello della Fede. Per fare un esempio sarebbe come se si tentasse di tenere immobilmente unite le onde del mare mediante un gancio elasticizzato che è in continuo movimento come le onde stesse. Invece una nave può essere fissata sulle onde del mare mediante un’ancora reale e salda, che si aggancia sul fondale di terra, sotto il fluire delle onde. Questa è la differenza che intercorre tra la “filosofia” moderna del divenire e quella classica e scolastica dell’essere. Perciò la verità si deve definire in rapporto all’essere, come fa la metafisica dell’esse ut actus e il conseguente realismo della conoscenza (agere et cognoscere sequuntur esse). La filosofia dell’azione e del divenire non dà nessuna certezza e stabilità, ma pone solo dubbi, agitazioni e squilibri intellettuali e morali. Così tutti i surrogati di filosofia che si allontanano dall’essere (scotismo e suarezismo), pur non cadendo esplicitamente negli eccessi dell’errore soggettivistico, sono ‘armi spuntate’ con cui non si riesce a debellare l’errore e il pervertimento dell’agire umano e la degenerazione dell’eresia modernistica.
●L’attuale confusione dell’intelletto, dello spirito e della morale, che è penetrata sin dentro il Santuario, richiede da parte dell’uomo la necessità di tornare al tomismo e da parte di Dio un’azione enormemente prodigiosa come quella del diluvio universale: “A mali estremi, estremi rimedi”. Senza quest’intervento straordinario di Dio l’uomo non potrebbe uscire dal “pozzo dell’abisso” di cui parla l’Apocalisse e che venne già citato ad esempio della gravità dell’errore del cattolicesimo liberale da Gregorio XVI nella sua enciclica Mirari vos del 1832.
●Siccome la modernità a partire da Cartesio ha soppresso la relazione essenziale della ragione con l’essere extramentale o reale, l’intelletto umano non può più conoscere con certezza nulla di oggettivo, non riesce a fondare un’etica naturale e non giunge ad elevarsi dalle creature al Creatore. Il cogito moderno-cartesiano parte dall’ego e si ripiega ‘ego-isticamente’ su se stesso per avviarsi verso un’esistenza disperata, che al contrario della grazia è avangusto delle pene dell’inferno. L’esistenzialismo disperato della filosofia nichilistica contemporanea e post-moderna è l’esatto ribaltamento della dottrina ascetica e mistica, la quale conduce l’anima all’unione con Dio, tramite lo sviluppo della grazia, che è semen gloriae aeternae o avangusto della vita eterna. L’uomo non vive più per Dio, ma per se stesso (idealismo) o per il nulla (nichilismo) e si avvia verso l’autismo scisso dalla realtà o l’auto-distruzione. Il tomismo corrisponde ai bisogni profondi e veri del mondo attuale, poiché restituisce l’amore della verità, senza la quale non si può ottenere la carità soprannaturale e l’unione con Dio “Luce intellettual piena d’amore” (Dante), che solo può dare la pace all’animo umano, il quale è aperto all’infinito e “non trova requie se non in Dio” (S. Agostino) conosciuto, amato e servito.
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I principi fondamentali del tomismo
1°) Il tomismo è la metafisica che considera ogni cosa in rapporto o alla luce dell’essere come atto ultimo e non in rapporto al movimento, all’io, all’azione.
2°) Esso risolve tutti i grandi problemi mediante la distinzione di materia/forma, potenza/atto, essenza/essere dando il primato alla forma, all’atto e soprattutto all’essere, perfezione ultima di ogni altra perfezione. L’essenza creata e finita (anche quella angelica) non è il suo atto di essere, ma lo riceve e lo partecipa, essendo realmente distinta da esso. Solo Dio è l’Essere per sua essenza; ogni altro ente per partecipazione riceve ab Alio l’essere nella sua essenza creata e finita. S. Tommaso insegna esplicitamente che “l’essere è la realtà più perfetta, […] l’attualità di tutte le cose e delle forme stesse” (S. Th., I, q. 4, a. 1, ad 3).
3°) Distingue nettamente essere come atto ultimo, che perfeziona anche le essenze, dall’esistenza, che è il prodotto o l’effetto dell’essere attuante un’essenza dando così luogo al fatto o effetto o prodotto di ex-sistere dell’ente; ossia l’ente esce fuori dal nulla essendo causato efficientemente dall’essere, che perfeziona l’essenza e la rende ente esistente in atto e realmente.
4°) È essenzialmente teocentrico, poiché afferma il primato dell’atto sulla potenza e Dio è Atto puro da ogni potenzialità; inoltre afferma il primato dell’essere su ogni essenza e Dio è l’Essere per essenza. Siccome l’uomo è composto di materia e forma, di potenza e atto, di essenza ed essere, egli è essenzialmente distinto da Dio, assolutamente semplice e privo di ogni composizione, e perciò l’unico centro e fine è Dio (“Rex et Centrum omnium cordium”) e non l’uomo, che è solo un mezzo ordinato al fine e sottomesso a lui. Solo il tomismo, a differenza dello scotismo e del suarezismo “scarsamente reattivi verso le tesi più arrischiate e sovversive” (Reginaldo Garrigou-Lagrange, Essenza e attualità del tomismo, Brescia, La Scuola, 1947, p. 32) riesce a confutare ogni forma, sia pur soltanto tendenziale, di panteismo ed ogni tentativo di far coincidere teo e antropo/centrismo, tentativo riportato in auge dall’insegnamento pastorale del concilio Vaticano II (cfr. Giovanni Paolo II, 1980, “Dives in misericordia” n.° 1[1]), che su questo punto è in contraddizione con la sana ragione, la Tradizione apostolica e il magistero costante della Chiesa.
5°) L’essere per il tomismo non è univoco (come dicono Scoto e Suarez), ma analogo. Se l’essere fosse univoco, si ricadrebbe nell’errore del monismo di Parmenide (ripreso da Spinoza e dall’immanentismo moderno) già risolto da Aristotele nella Metafisica con la dottrina della distinzione reale tra potenza ed atto. Infatti ciò che è univoco viene diversificato solo da differenze estrinseche a lui. Ora al di fuori dell’essere non c’è nulla. Quindi tutto sarebbe una sola cosa: mondo e Dio. Da questa divergenza tra tomismo e scolastica decadente (scotismo e suarezismo), che si trova all’inizio della metafisica o della definizione della natura dell’essere, che pian piano ci fa scendere all’Essere stesso sussistente, si giunge alla divergenza, che si situa al vertice della metafisica o teologia naturale: per S. Tommaso solo in Dio l’essenza e l’essere sono la stessa cosa (S. Th., I, q. 3, a. 4), mentre per scotismo e suarezismo anche nelle creature essenza ed essere non sono realmente distinti, ma solo logicamente. Perciò con la loro teoria filosofica come si può confutare il panteismo di Baruch Spinoza e di tutta la filosofia immanentistica, secondo cui l’essere appartiene per natura alla sostanza creata e quindi esiste una sola sostanza ed un solo essere, che sarebbero Dio e il mondo?
6°) Per S. Tommaso solo Dio, l’Atto puro, è il suo proprio essere per essenza. Quindi l’Essere divino non è ricevuto in nessuna potenza o essenza ed è illimitato ed infinito (S. Th., I, q. 3 a. 4; ivi, q. 7, a. 1). L’essere è l’ultima attualità o perfezione di ogni altra perfezione. L’Angelico trascende Platone ed Aristotele, che si son fermati all’idea ed all’essenza senza risalire all’essere che le ultima.
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L’essere come vertice della filosofia di tomistica e l’essenzialismo aristotelico
S. Tommaso, perciò, è il filosofo dell’essere come atto ultimo di ogni essenza, forma e perfezione. Per essenzialismo (o formalismo) si vuol intendere la filosofia aristotelica, che si ferma all’essenza o alla forma e non giunge all’atto ultimo di ogni essenza, forma e perfezione, che è l’atto di essere. Attenzione! Il tomismo verace, che non si ferma all’essenzialismo o studio dell’essenze, ma lo trascende arrivando all’essere, il quale è la perfezione dell’essenza, non significa neppure ‘esistenzialismo contemporaneo’ o studio dell’esistenza concreta del singolo individuo con i suoi problemi esistenziali, ma neanche ‘esistenzialismo classico-antico’, che viene da ex-sistere ossia uscir fuori dal nulla e dalla propria causa e si ferma allo studio del fatto di esistere degli enti finiti. Il tomismo genuino non nega la positività ontologica dell’essenza o forma dei vari enti e neppure la necessità di studiare l’esistenza positiva e reale dell’ente creato che è il fatto di esistere, il quale è il semplice risultato della presenza reale e positiva dell’ente nella realtà e non va confuso con l’atto di essere, che è l’ultima perfezione metafisica di ogni forma o essenza, termine della metafisica tomistica, la quale trascende Platone ed Aristotele. Tra essere come atto ultimo ed esistere come prodotto dell’essere informante un’essenza passa la stessa differenza che tra causa ed effetto. Ora la causa non è l’effetto e quindi l’essere non è l’esistenza. Purtroppo questa verità fondamentale del tomismo è stata trascurata dalla terza scolastica e padre Cornelio Fabro[2] ne ha fatto il suo cavallo di battaglia.
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L’atto d’essere
L’Angelico insegna che «l’essenza, prima di avere l’atto di essere, non esiste ancora» (De Pot., q. 3, a. 5, ad 2) e che «è necessario che l’atto stesso di essere stia all’essenza, la quale è realmente distinta da esso, come l’atto alla potenza» (S. Th., I, q. 3, a. 4. Cf. De spir. Creat., a. 1). L’ente è composizione fra essere partecipato (atto) ed essenza (potenza). Ne proviene che l’autentico atto di essere (esse) non va mai confuso col fatto dell’esistenza (ex-sistere), la quale è il semplice risultato, prodotto o ‘effetto’ della presenza dell’ente nella realtà, che non può assurgere alla dignità di atto metafisico, il quale è causa di esistenza. Ossia l’essenza che riceve l’essere come suo atto ultimo produce o dà luogo all’ente, il quale è realmente esistente nella realtà (ex-sistit, esce dal nulla ed entra nella realtà), grazie all’essere che attua ultimamente un’essenza. Il semplice fatto dell’esistenza o di essere presente nella realtà si può predicare anche dei difetti, delle malattie, della morte e dei peccati: tutti danni o deficienze degli enti, esistenti, ma non certo perfezione di enti o ‘enti in senso proprio’. Analogamente il poter fare il male è soltanto segno o difetto di libertà, la quale consiste essenzialmente nel poter fare il bene. Quindi il peccato o male morale è difetto o deficienza di vera libertà, come la malattia è difetto di salute, ma anche segno di presenza nella realtà o esistenza dell’ente ammalato (essentia) e non ancora morto (habens esse). Al contrario, la possibilità di peccare è il più grave limite della nostra libertà. Si pensi, per esempio, alla possibilità di un ingegnere di uccidere i cittadini, sbagliando i calcoli del cemento. L’ingegnere perfetto, invece, è colui che non sbaglia i calcoli e fa vivere tranquilli i cittadini, così l’uomo perfetto è colui che non pecca o non agisce moralmente male e fa il bene.
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Dall’ente ultimato dall’essere a Dio
È pertanto chiaro che la partecipazione degli enti all’essere (“l’ente è un’essenza avente o partecipante l’essere”) può farci risalire a Dio, secondo l’insegnamento di S. Tommaso: «Alla struttura metafisica di ogni ente per partecipazione consegue la sua dipendenza causale, o creaturale, dall’Altro» (Cf. S. Th., I, q. 44, a. 1, ad 1; ivi, ad 2). Ossia l’ente per partecipazione dipende e riceve l’essere dall’Ente per essenza o Dio. Appunto su tale partecipazione si fonda la “quarta via” tomistica nella quale Dio è qualificato come “causa dell’essere”, ovvero Creatore, di tutti gli enti (S. Th., I, q. 2, a. 3). Questo atto di essere, trascende ogni essenza e forma, per cui si deve parlare del supremo atto metafisico di essere. Il termine “ente” esprime anzitutto e soprattutto l’essenza partecipante l’atto di essere (Cfr. In I Sent., d. 8, q. 4, a. 2; De Ver., q. 1, a. 1, ad 3). Ed è perciò stesso che l’ente per partecipazione, costituito dall’essere partecipato e dall’essenza, fonda il primo collegamento della dipendenza causale, o creaturale, di ogni ente finito dall’Essere infinito. Così il vero essere da San Tommaso è riconosciuto come il costitutivo metafisico proprio di Dio (“Ego sum qui sum”; “Javeh”); il Quale, appunto per questo, è la Causa dell’essere, e dunque il Creatore, di tutti gli enti. Non è difficile, allora, vedere che l’onnipresenza creatrice di Dio negli enti presuppone ed esige la sua infinita trascendenza su di essi tutti (Cf. S. Th., I, q. 4, a. 2, ad 3; ivi, I, q. 11, a. 4, ivi, I, q. 8, aa. 1-4; ivi, I, q. 105, a. 5).
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Analogia di attribuzione e di proporzionalità
Questa trascendenza di Dio sul creato fonda anche l’analogia delle creature con il Creatore: «somiglianza dissomigliante» e «dissomiglianza somigliante». Infatti ogni creatura è più o meno simile a Dio in virtù del suo atto di essere partecipato; ed è più o meno dissimile a Dio in séguito alla sua essenza. Di qui la distinzione tra l’analogia di attribuzione intrinseca rispetto a quella di proporzionalità. L’analogia di proporzionalità (il sasso, l’albero l’animale, l’uomo e l’angelo, sono analoghi a Dio relativamente al fatto di esistere) accentua specialmente l’infinita distanza metafisica degli enti da Dio (infatti le loro essenze sono infinitamente lontane da quella divina). Invece l’analogia di attribuzione (l’essere appartiene essenzialmente a Dio e solo per partecipazione alle creature anche se realmente e formalmente o intrinsecamente) accentua primariamente la dipendenza causale, o creaturale, degli enti da Dio (Cf. S. Th., I, q.3, a. 7, ad 1; ivi, I, q. 13, a. 5; Comp. Th., c. 130, n. 261). Non bisogna perciò contrapporre i due concetti di analogia, ma servirsene secondo i loro rispettivi compiti e scopi (primo: accentuare l’infinita distanza metafisica degli enti da Dio; secondo: sottolineare la dipendenza causale degli enti da Dio).
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S. Tommaso, Platone e Aristotele
S. Tommaso trascende Platone, giunto soltanto all’essenzialismo dell’‘idea’, come pure Aristotele, fermatosi all’essenzialismo della ‘forma’ e della ‘sostanza’, da entrambi presentate senza il riferimento al vero essere, che le perfeziona ed ultima. È S. Tommaso che trascende questi due filosofi elevando al vertice dell’essere come atto che perfeziona idea e sostanza quanto c’è di valido in entrambi gli indirizzi (Cf. De Subst. sep.,c. 3). Si dovrebbe dunque distinguere il tomismo genuino dall’essenzialismo del platonismo e dell’aristotelismo per farlo emergere nella sua genialità originale di atto di essere, perfezione ultima di ogni forma.
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Intelletto e volontà
La volontà è una tendenza, un desiderio o un appetito razionale, il quale segue la conoscenza intellettuale ed è specificata dall’oggetto conosciuto dall’intelletto e presentatole come buono, anche se in realtà non lo è (bene apparente, male reale). Infatti l’oggetto della volontà è il bene anche solo apparente e non può essere il male in quanto male, perché ciò sarebbe contrario alla natura della volontà. Ma un oggetto, prima di ‘essere buono’, deve ‘essere o esistere’. Quindi in questo senso la volontà dipende dall’intelligenza: l’intelletto conosce l’essere o la natura intima e vera del suo oggetto, mentre la volontà tende all’essere buono o presentatole come tale. Ora ontologicamente l’essere è anteriore all’essere buono. Perciò in senso assoluto l’intelletto precede la volontà.
Tuttavia quando l’oggetto (per esempio Dio) è più nobile dell’anima umana in cui risiedono l’intelligenza e la volontà, allora - in rapporto a questo oggetto - la volontà è superiore all’intelligenza. Infatti, l’atto intellettivo di conoscere “attira” a sé gli oggetti conosciuti perché la loro rappresentazione entra psicologicamente o logicamente (non fisicamente) nell’intelletto. Perciò Dio è conosciuto secondo le capacità finite e limitate dell’intelletto umano, ossia è rimpicciolito al livello delle nostre idee o concetti intellettuali. La ragione umana può conoscere con certezza l’esistenza di Dio, mediante un sillogismo che parte dagli effetti (creature) per risalire alla Causa prima incausata (Creatore); può giungere a conoscere anche qualche proprietà, nome o attributo di Dio (Essere, Bene, Vero…), ma non tutta la sua Natura, che, essendo infinita, sorpassa illimitatamente le capacità conoscitive dell’intelletto umano ed è infinitamente sproporzionata alla finitezza del concetto intellettuale. L’uomo non può formarsi un’idea adeguata di Dio, altrimenti coglierebbe la sua Essenza infinita e il suo intelletto dovrebbe essere infinito, come vogliono gli ontologisti, ma ciò è evidentemente falso. Solo in Paradiso i Beati vedono Dio faccia a faccia nella sua Essenza come è, ma grazie al Lumen gloriae, che è dato da Dio all’intelletto del Beato e lo sopraeleva soprannaturalmente alla capacità di cogliere intellettualmente e intuitivamente la Natura infinita di Dio (Visione beatifica). L’atto della volontà, che è una tendenza verso un oggetto presentatole come buono, esce, invece, fuori di essa per unirsi all’oggetto conosciuto e amato come buono e possederlo o fruire della sua bontà. Perciò già in terra, quando la volontà ama o desidera Dio, è perfezionata, cresce di grado, poiché esce da sé tende e aderisce ad un oggetto infinitamente più nobile di sé.
Tuttavia bisogna fare attenzione: intelletto e volontà non si possono considerare come due agenti separati, ma sono due facoltà di un solo uomo, facoltà distinte ma non separate, che invece di contrapporsi devono collaborare intimamente (come l’analogia di proporzionalità e quella di attribuzione). Intelletto e volontà sono intimamente legate nella medesima azione: «l’intelletto sa che la volontà vuole e la volontà vuole che l’intelletto conosca» (S. Th., I, q. 82, a. 4, ad 1). Esse sono legate nella libera scelta di un fine, che già Aristotele chiamava “intellezione appetitiva e appetito intellettivo” (Etica Nicomachea, IV, 2). Cronologicamente l’intelletto precede. Infatti la volontà è un appetito o una tendenza razionale, che segue cioè la conoscenza dell’intelletto. Negli scritti di San Tommaso d’Aquino si trova una certa evoluzione o precisazione del suo pensiero. Sino al 1270 (Somma Teologica e De Veritate) l’Angelico attribuisce alla volontà la causalità efficiente e all’intelletto la causalità finale. Invece con la questione De Malo (q. 6, articolo unico) del 1271 san Tommaso specifica[3]: alla volontà spetta la causalità efficiente e finalizzante; all’intelletto spetta la causalità specificante e formale, estrinseca o esemplare, con la quale l’intelletto presenta alla volontà, specificandola, un oggetto conosciuto come bene, un esemplare, un modello o un esempio da volere, il quale è condizione essenziale affinché il bene eserciti la sua attrazione (quale modello) sulla volontà e la volontà eserciti la sua causalità finale e tenda a volere il fine o bene propostole come modello dall’intelletto. Ora il bene è il fine, ma il bene è oggetto della volontà e non dell’intelletto. Infatti ogni bene conosciuto finitamente dall’intelletto (fosse anche Dio) non esercita un’attrazione determinante sulla volontà, che resta indifferente e libera ed è lei a scegliere un bene o un altro bene (reale o apparente) come suo fine. Cajetanus scrive: “voluntas ex se sola flectit judicium quo vult” (In Primam partem, q. 82, a. 4). Quindi il bene, anche se prima è stato presentato dall’intelletto come esempio, esercita una causalità finale solo dopo che è stato scelto liberamente dalla volontà. La proposta o l’illuminazione (come quella di un faro), che rende possibile o occasiona la scelta del bene, viene dall’intelletto, però la scelta o il rifiuto (il movimento avanti o indietro, come quello del motore) vengono dalla volontà, non ciecamente, ma razionalmente poiché la scelta è libera e volontaria, ma valutata e deliberata dall’intelletto: prendo o scelgo con la volontà ciò che con l’intelletto ho valutato come bene per me. Perciò è l’intelletto - nell’ordine statico - che illumina la volontà come causa formale estrinseca o esemplare, che specifica la volontà, presentandole il suo oggetto: l’essere conosciuto come buono, anche se in realtà è cattivo (S. Th., q. 9, a. 1), ma non bisogna misconoscere che la volontà - nell’ordine dinamico o attivo - muove l’intelletto come causa efficiente e finale (S. Th., I, q. 82, a. 4; De Veritate, q. 22, a. 12) sia applicandolo a questo oggetto (matematica) o a quest’altro (filosofia) sia facendogli ponderare il lato buono di un bene finito oppure quello cattivo, poiché l’ente-bene finito è sempre un bonum mixtum malo. L’intelletto offre alla volontà i princìpi o le conoscenze (l’esempio o il modello) per poter tendere verso qualcosa (“niente è voluto se prima non è conosciuto”), le presenta l’essere conosciuto come buono, ma tale presentazione è solo ‘conditio sine qua non’ affinché il bene possa attrarre la volontà. Perciò ogni atto di volontà procede - cronologicamente innanzitutto e materialmente - da un atto dell’intelletto; tuttavia è la volontà che tende poi - formalmente ed efficacemente - all’atto finale dell’intelletto, che è la beatitudine, e in questo senso l’atto di volontà è superiore a quello d’intelletto (S. Th., I-II, q. 4, a. 4, ad 2; Ivi, q. 99, a. 1, ad 3). Perciò la volontà realizza ultimamente l’uomo intero offrendogli il suo fine, che è il bene e la felicità (causalità finale); essa è principio di ogni agire (causalità efficiente) e in questo senso la volontà muove l’intelletto (S. Th., I-II, q. 9, a. 1, ad 3), ma la volontà tende all’atto finale dell’intelletto, che è la beatitudine (S. Th., I-II, q. 4, a. 4, ad 2).
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La vera libertà
Nella produzione dell’atto libero vi è un influsso reciproco tra intelletto e volontà. Ambedue sono facoltà di un unico uomo e sarebbe falso ipostatizzare intelletto e volontà come due soggetti agenti per se sussistenti, di cui l’uno propone e l’altro dispone separatamente. Invece il soggetto che razionalmente propone e liberamente dispone è l’uomo. L’uomo sceglie il fine o bene e per mezzo del suo intelletto e della sua volontà muove l’intelletto come causa efficiente a conoscere un oggetto piuttosto che un altro e infine spinge l’intelletto ad emettere l’ultimo giudizio pratico. La scelta deliberata e consapevole (volizione o elezione) costituisce l’atto libero con cui un uomo accetta (o respinge) un determinato bene finito come in concreto per lui fine buono e ultimo, in cui trovare la felicità. La fase decisiva della produzione dell’atto libero è una scelta che è dovuta all’uomo, il quale si serve assieme dell’intelletto e della volontà: «la scelta è o un’intellezione appetitiva o, meglio, un appetito intellettuale, e il principio che opera tale scelta è l’uomo» (Aristotele, Etica Nicomachea, VI, 2). La scelta è un atto di giudizio voluto o di volizione ragionata. Il giudizio o valutazione è atto dell’intelletto. Per giungere alla scelta libera, che è atto di volontà, bisogna arrivare dal ‘giudizio speculativo’, che mi presenta un oggetto (“ricchezza”) come felicità/bene/fine in maniera assolutamente astratta, universale, valida per tutti o teorica, a quello ‘speculativo-pratico-prossimo’, ove la volontà spinge l’intelletto a ‘deliberare’ (decidere, interrogarsi o stabilire) quale mezzo prendere (“lavorare o rubare”) considerando (valutando o giudicando) se l’oggetto (“ricchezza”) sia veramente fine buono per me e la mia felicità, concretamente, qui e adesso. L’intelletto delibera mentre la volontà ancora si frena o si inibisce di prorompere in un atto di adesione definitiva che vuole ultimamente un mezzo (“non-rubare, ma lavorare”), come atto a cogliere il fine/bene/felicità. Inoltre è la volontà che spinge efficientemente l’intelletto a concentrare la sua attenzione su un aspetto o un altro del bene in considerazione (“ricchezza”) e a deliberare o decidere in maniera più approfondita quale mezzo prendere (“non-rubare”) per giungervi. Quindi si giunge al ‘giudizio pratico-pratico’ o ultimo pratico, che è la scelta concreta libera e cosciente (o il rifiuto) del mezzo (“non-rubare”) atto a farmi cogliere il fine/bene/felicità (“ricchezza”). Tale bene, che è conosciuto dall’intelletto finitamente ed è così presentato alla volontà, viene scelto dalla volontà come, concretamente, qui e adesso, un bene totale o fine ultimo, in cui trovare la beatitudine. Questa scelta è un giudizio pratico dell’intelletto, che mi fa dire “per me hic et nunc la ricchezza è il bene assoluto, il mio fine ultimo in cui troverò la felicità e per giungervi debbo “non-rubare”, ma lavorare. Ora in questo ‘giudizio pratico-pratico’ intervengono cronologicamente assieme intelletto e volontà, ma l’intelletto influisce sulla volontà come causa esemplare o formale estrinseca (“non-rubare” è l’esempio, il modello da seguire e volere per essere felici o ricchi); tuttavia il giudizio intellettivo diviene pratico-pratico o ultimo poiché la volontà liberamente spinge l’intelletto a dare l’assenso ad esso e poi la volontà lo accetta come bene totale o fine ultimo. Infatti, trattandosi di un bene finito, che è sempre unito ad un certo lato spiacevole (bonum mixtum malo), la deliberazione dell’intelletto (stabilire quale mezzo prendere: “rubare/non-rubare”) da sé sola non può concludersi a un giudizio definitivo o ultimo. Vi è indeterminazione da parte dell’oggetto buono che è finito, ma vi è auto-determinazione della volontà. Infatti “libero arbitrio” significa che la volontà è arbitra o sceglie di prendere un mezzo (“non-rubare”) più che un’altro (“rubare”), senza essere determinata dal giudizio speculativo o intellettuale. L’atto libero è primariamente, formalmente e sostanzialmente un atto di volontà, ossia emesso dalla volontà, che è illuminata secondariamente, materialmente e accidentalmente dall’intelletto quale causa esemplare. Allora è la volontà che spinge come causa efficiente e finale l’intelligenza a soffermarsi su un dato aspetto del mezzo in questione e a giudicarlo come hic et nunc il migliore per me (“non-rubare”) ponendo fine alla ‘deliberazione’ intellettuale e giungendo alla ‘scelta libera’ della volontà. Siccome manca l’evidenza intellettuale di fronte ad un bene finito, allora è la volontà che liberamente muove l’intelletto ad un ‘assenso’ giudicativo e ‘sceglie’ liberamente. Questa scelta, compiuta sotto l’influsso mutuo dell’intelletto e volontà, è formalmente atto della volontà sia perché la scelta non è atto intellettuale ma volitivo, sia perché la causalità efficiente della volontà sull’assenso intellettivo è più importante di quella esemplare illuminatrice dell’intelletto sulla volontà. Una volta posto questo ‘giudizio pratico-pratico’ su un dato mezzo come atto hic et ninc a farmi cogliere il bene totale e fine ultimo in cui essere felice, allora la volontà vuole immancabilmente tale mezzo, poiché è appetito razionale, altrimenti sarebbe appetito irragionevole e dall’altra parte rinuncerebbe alla sua felicità, al fine ultimo e al bene totale, ossia vorrebbe il ‘male in quanto male’, ma ciò ripugna alla natura della volontà che è ordinata al bene. La libertà deriva, dunque, dalla mancanza di proporzione tra la volontà razionale, che è specificata da un Bene universale, e un bene finito e particolare, che è buono sotto un aspetto e non-buono sotto un altro aspetto e assolutamente sproporzionato alla ampiezza illimitata della volontà specificata dal Bene universale (De Veritate, q. 22, a. 5). Amare Dio, che in sé è infinito ma è conosciuto da me finitamente, è un qualcosa che ha il rovescio della medaglia (bene in sé, misto a male per me). Infatti per amare Dio debbo rinnegare il mio amor proprio e quindi è un bene reale che a me e al mio egoismo appare come un “male” apparente (S. Th. I, q. 83, Ivi, I-II, q. 10, aa. 1-4). Ora, se è l’intelletto a presentare alla volontà un oggetto come indifferente, ossia finito e quindi buono sotto un aspetto e non-buono sotto un altro aspetto, è, invece, la volontà che fissa l’intelletto a considerare l’aspetto buono in sé o sgradevole per me dell’oggetto conosciuto e a farmi giudicare pratico-praticamente e perciò scegliere liberamente l’uno o l’altro (S. Th., I-II, q. 57, a. 5, ad 3um; Ivi, q. 58, a. 5): “Video meliora proboque, sed deteriora sequor; vedo le cose buone e le approvo speculativamente, ma praticamente faccio quelle cattive. «C’è qui un influsso reciproco tra intelletto e volontà, come una specie di matrimonio tra le due facoltà» (R. Garrigou-Lagrange, La sintesi tomistica, Brescia, Queriniana, 1953, p. 203; Id., Dieu, son existence et sa nature, Parigi, Beauchesne, 1928, pp. 590-657). Ora il male morale consiste proprio nella difformità tra giudizio speculativo e libera elezione della volontà. Per cui il male morale o peccato non è ignoranza (Socrate), ma cattiva volontà[4].
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L’uomo è intelligente e libero, non è solo intelletto né è sola volontà
Tomisticamente non bisogna mai dimenticare che è tutto l’uomo anima e corpo, con l’intelletto, la volontà, la sensibilità e le passioni (“nihil in intellectu quod prius non fuerit in sensu”; “nulla entra nell’intelletto se prima non passa attraverso i sensi”), che conosce e vuole ed agisce, per cui bisogna educare la sensibilità e le passioni ad obbedire alla volontà, e questa all’intelletto e viceversa. Padre Reginaldo Garrigou-Lagrange scrive: «se nego il valore dell’intelligenza retta, comprometto la bontà dell’azione libera e volontaria. La volontà deve essere educata, illuminata e rettificata dalla sana e retta intelligenza e dal giudizio speculativo vero circa il Fine ultimo. Non si può amare Dio, Sommo Bene e Vero, senza la retta conoscenza della realtà. Tuttavia, l’intelletto pratico, che sceglie i mezzi, dipende dalla buona volontà. Ognuno giudica praticamente secondo la propria tendenza: se l’inclinazione del proprio appetito sensibile o razionale è cattiva (l’ambizioso), il giudizio pratico non è retto (per me qui e adesso è bene rubare). La verità del giudizio dell’intelletto pratico dipende dalla buona volontà» (La sintesi tomistica, Brescia, Queriniana, 1953, p. 203).
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L’importanza di una buona volontà
San Tommaso insegna: «Penso […] perché voglio pensare» (De malo, q. 6, a. 1; Summa contra Gent., lib. I, cap. 72). Se mi manca la buona volontà non metto a frutto l’intelligenza o la metto malamente a frutto per fare il male. Perciò si potrebbe vedere l’assioma nihil volitum nisi praecognitum anche dal lato opposto del nihil cognitum nisi praevolitum. Se non voglio pensare o conoscere, non penso e non conosco. Entrambe sono veri: l’intelletto è il faro dell’auto ma se non voglio girare la chiave del motore ed accendere le luci, il faro resta spento. Come pure, se accendo solo il motore senza illuminare la strada, mi schianto sicuramente, poiché la volontà è una facoltà cieca. Per cui bisogna coordinare e far collaborare intelletto e volontà senza contrapporle. «Mediante la volontà ci gioviamo di tutto ciò che si trova in noi. Per cui è chiamata buona non la persona intelligente, ma quella che ha la buona volontà» (S. Th., I, q. 5, a. 4, ad 3). Infatti la nostra anima mantiene la grazia infusa da Dio in forza della buona volontà (S. Th., I, q. 83, a. 2, sed contra). La libertà vera consiste nella scelta libera di voler amare Dio e «più amiamo Dio, più siamo liberi» (In III Sent., dist. 29, a. 8, quaestiunc. 3, n. 106, sed contra). Per cui «la vera libertà è libertà dal peccato; mentre la vera schiavitù è la schiavitù del peccato» (S. Th., II-II, q. 183, a. 4). Se l’intelligenza rende l’uomo dotto, la volontà lo fa virtuoso. Il peccato, perciò, è l’obitorio della vera libertà. “Il vero filosofo è colui che ama Dio (S. Agostino, De Civitate Dei, l. VIII, c. 1); “L’unica libertà è la vittoria sul peccato” (Cornelio Fabro, Vangeli delle Domeniche, Segni, 2011, II ed., p. 273); «L’uomo poco sapiente e di scarsa intelligenza ma timorato di Dio, è migliore di chi è molto intelligente ma trasgredisce la legge divina» (Sir., XIX, 21). Come d’altra parte insegna anche il Vangelo: è “la Verità che vi farà liberi”, poiché chi cade nell’errore è schiavo di esso; “Caritatem facientes in veritate” (San Paolo). Perciò non si può disgiungere la retta conoscenza dalla buona volontà. “Ubi justitia et veritas, ibi caritas”.
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Non separiamo ciò che Dio ha unito
Ecco l’importanza di non separare ciò che Dio ha unito in matrimonio: intelletto e volontà, ma di farli cooperare unitamente e subordinatamente come causa formale estrinseca che illumina (intelletto) ed efficiente e finale che muove (volontà) l’uomo a conoscere il vero e ad agire bene. L’uomo è composto di anima (in cui si trovano l’intelletto e la volontà) e corpo (in cui vi sono la conoscenza sensibile: sensi esterni, interni e l’appetito sensibile: irascibile e concupiscibile). La sola intelligenza senza la buona volontà porta al male, la sola volontà senza conoscenza è cieca e devia, sbanda, si schianta. Inoltre le passioni sensibili debbono essere educate a rispondere positivamente alla buona volontà per essere applicate alla conoscenza del vero. Altrimenti prendono il sopravvento e trascinano l’intelletto e la volontà verso oggetti falsi e cattivi. Occorre coltivare il corpo con i suoi sensi esterni (vista, tatto, gusto, olfatto e odorato) ed interni (memoria e fantasia…), l’appetito sensibile (irascibile e concupiscibile), le passioni (ira, odio, amore, timore…); poi l’intelletto a conoscere il vero e rifiutare il falso ed infine la volontà ad amare il bene ed odiare il male. “Fa il bene ed evita il male, questo è tutto l’uomo”. Non siamo solo ‘ragione pura’, nemmeno ‘volontà assoluta’, neppure solo istinti, sensi, passioni, ma un misto di queste cose che debbono lavorare assieme, subordinatamente a farci cogliere il nostro vero Fine ultimo conosciuto ed amato. L’Imitazione di Cristo ci insegna che il giorno del Giudizio non ci verrà chiesto ciò che abbiamo letto, detto o scritto, ma ciò che abbiamo voluto e fatto. L’ideale è la retta scienza accompagnata dalla buona volontà (“doctus cum pietate, pius cum doctrina”), conoscere per amare e voler conoscere per poter amare sempre meglio. Senza dimenticare che abbiamo un corpo con i suoi sensi e le passioni, che vanno educate e innalzate dalla conoscenza amorosa del Fine ultimo e non represse, altrimenti scoppiano e si rivoltano. “Chi vuol far l’angelo, finisce per diventare una bestia”. L’uomo è un’unità sostanziale di anima e corpo, sensibilità, intelletto/volontà e tutto deve essere utilizzato in armonia e gerarchia allo scopo finale. L’uomo completo dovrebbe tendere, pian piano e soprattutto con l’aiuto di Dio, ad acquisire una intelligenza profonda, chiara, riflessiva, penetrante, agile, viva e rapida, non superficiale, non fredda, arida o egoista, ma accompagnata da un caldo e intenso amore di Dio e del prossimo ed una volontà forte, ferma, costante, attiva e tenace, non timida, ma impavida e accompagnata dalla bontà di cuore, evitando la pignoleria e la meticolosità ristrette, la durezza, l’ostinazione, l’insensibilità. Infine la sensibilità, controllata da intelletto e volontà, dovrebbe arricchire l’appetito irascibile con la benignità, la serenità, la compassione, l’affabilità e l’espansività, senza durezza di cuore e l’appetito concupiscibile con la padronanza di sé e la flemma, la costanza, la metodicità, la perseveranza e la prudenza, schivando l’angelismo come pure la schiavitù o la dipendenza dalle passioni o dagli istinti disordinati[5]. Per cui intelletto, volontà e sensibilità debbono concorrere al perfezionamento dell’uomo assieme e subordinatamente.
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Senza metafisica crolla la morale
Tolto l’ordine metafisico è tolta la normatività, la responsabilità, l’imputabilità e perciò vengono meno le basi dell’ordine morale. Così come tolto l’essere vien meno anche l’agire. Parimenti è tolto l’ordine della libertà: nella scelta del fine la volontà muove se stessa e precede l’intelletto. L’autentica filosofia non si riduce affatto a un esercizio di pensiero, pur indispensabile, ma è esercizio di buona volontà disposta ad accogliere e riconoscere la verità dell’ente, dell’atto di essere e soprattutto dell’Essere perfettissimo. “Il vero filosofo è colui che conosce alla luce della Causa prima, giudica rettamente e ordina ogni cosa al proprio fine e soprattutto la sua vita, vivendo virtuosamente”.
Mi sembra che questi possano essere considerati i rudimenti essenziali della metafisica e dell’etica tomistica, che ci aiutano a conoscere il vero per vivere bene e cogliere il nostro Fine. Che Dio ci conceda di poter conoscere sempre meglio tali princìpi per metterli in pratica e giungere a vederlo faccia a faccia.
d. CURZIO NITOGLIA

29 ottobre 2011

 


[1] «Mentre le varie correnti del pensiero umano nel passato e nel presente sono state e continuano ad essere propense a dividere e persino a contrapporre il teocentrismo con l’antropocentrismo, la Chiesa [conciliare, ndr] […] cerca di congiungerli […] in maniera organica e profonda. E questo è uno dei punti fondamentali, e forse il più importante, del magistero dell’ultimo Concilio».
[2] La nozione metafisica di partecipazione secondo S. Tommaso d’Aquino, [1939], Segni, 2005, IV ed. Id., Partecipazione e causalità secondo S. Tommaso d’Aquino [1961], Segni, 2010, II ed.
[3] Cfr. O. Lottin, Psychologie et morale aux XII et XIII siècles, Gembloux, 1942, I, pp. 225-389; Id., Morale fondamentale, Tournai, 1954, pp. 96-100.
[4] Cfr. C. Fabro, Riflessioni sulla libertà, Rimini, 1983.
[5] Cfr. A. Tanquerey, Compendio di teologia ascetica e mistica, Roma, Desclée, VIII ed., 1954, A. Royo Marin, Teologia della perfezione cristiana, Roma, Paoline, 1960. 

SPERIAMO CHE QUESTA EDIFICANTE LETTURA SIA DI CORREZIONE A QUESTO VOLONTARIO IGNORANTE CATECHISTA NEOCATECUMENALE...
 
 ...e speriamo che rimanga almeno pensieroso, dopo aver letto San Tommaso...

1 commento:

  1. Conclusione:Quindi se la mia coscienza mi dice di uccidere un cattolico vero tradizionalista, io lo devo fare perchè non posso andare contro la mia coscienza!
    Uguale uguale a quello che insegna Gesù!
    CVCRCI

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