Fonte: Progetto Barruel...
La Civiltà Cattolica anno LVIII, vol. IV (fasc. 1378, 6 nov. 1907), Roma 1907 pag. 385-404.
IL PROGRAMMA DEI MODERNISTI RIBELLI
L'atto di ribellione è consummato: sei anonimi, sacerdoti, si
dice, e per nostra vergogna maggiore italiani, l'hanno tramato
lungamente nell'ombra; l'hanno poi annunziato strepitosamente sui loro
fogli liberali e scredenti; infine, l'hanno ora compiuto improntamente
alla luce del giorno, ma celando il loro nome nelle tenebre.
Perchè lo scandalo fosse più sonoro e più triste,
vi hanno aggiunto l'ipocrisia dell'eresiarca e dell'apostata: con
presunzione insana, orgogliosa e, se non fosse troppo scandalosa,
immensamente ridicola, essi hanno eretto la fronte proterva contro il
Vicario di Cristo, arrogandosi di dargli biasimo, di farglisi giudici,
di condannarlo, di additarlo anzi al biasimo della Chiesa universale, e
sostituirsi a lui nel magistero apostolico innanzi al popolo cristiano.
Scandalo e aberrazione incredibile, che quasi non ha pari nella storia!
Lo sapevamo: l'avevano minacciato da lungo tempo, e ora da capo,
all'uscire dell'enciclica Pascendi
dominici gregis,
erano tornati alle minacce: volevano farsi sentire, far parlare di
sè, farsi temere! E tutto era da temere da giovani che hanno il
sacerdozio della Chiesa, che mangiano del pane della Chiesa; ma non
hanno lo spirito, non l'amore della Chiesa. Tuttavia per l'amore dei
nostri fratelli, per la salute di tante anime, volevamo sperare fino
all'ultimo, che si sarebbe risparmiato al nostro popolo questo
scandalo, al clero italiano questa vergogna, questo tripudio ai nemici
di Dio e della Chiesa, questa cagione di nuove amarezze al cuore del
Papa. — Non fu vero: anche questa volta, come tutte le volte che
demmo più benigna interpretazione alle parole dei modernisti,
che sperammo da loro migliori cose, anche questa volta c'ingannammo
dolorosamente: il loro contegno fu ed è anzi peggiore, sotto
ogni rispetto, di quanto si poteva aspettare.
Il Papa aveva parlato: dopo le miti ammonizioni, dopo le esortazioni
paterne, dopo i richiami ripetuti e la lunga aspettazione, deluso nelle
sue speranze, aveva infine additato il pericolo e il danno che dalle
pestifere dottrine e dal morboso contagio della propaganda e
dell'esempio di alcuni suoi figli, derivava alla Chiesa tutta,
insidiando al deposito sacro della fede, di cui è suo diritto,
non meno che terribile dovere, la vigilantissima custodia. Da questo, e
da questo solo — ben lo sanno i modernisti — come esordisce
l'enciclica, così muove l'atto di Pio X: «L'officio
divinamente commessoci di pascere il gregge del Signore, fra i primi
doveri, imposti da Cristo, ha quello di custodire con ogni vigilanza,
il deposito della fede.» Per questo il Pontefice aveva denunziato
gli insidiatori occulti, i nemici domestici; per questo aveva esposto
distesamente le dottrine più riprovevoli che hanno corso fra
cattolici, laici e chierici: per questo aveva prescritto i rimedii di
preservazione. Ma non aveva nominato alcuno: aveva anzi, negli stessi
passi più severi, ammessa la possibilità di migliori
intenzioni, nonchè di ravvedimento, negli erranti: aveva con
ciò aperta loro la via del ritorno e, per così dire, del
trionfo; perchè trionfa sempre chi cede alla verità,
vincendo l'orgoglio dell'errore. Non dunque «requisitoria
feroce» — come scriveva uno di loro nel Giornale d'Italia
— era l'enciclica del mite Pio X: era una parola forte e
addolorata, che, se feriva, non feriva a morte, ma a salute; o
più veramente feriva a morte l'errore per dare la salute agli
erranti.
La voce del Papa quindi, come dicevamo subito dopo la condanna del
modernismo [1],
era voce di padre, di pastore, di maestro, di capo della Chiesa e di
legislatore supremo, voce autorevole e sacra che insegnava e
prescriveva, nè solo in punto di disciplina, ma in materia
dottrinale, dogmatica. E quando parla questa voce autorevole e sacra
del Padre universale, si fa silenzio nella famiglia cristiana: i figli
genuini l'ascoltano tutti; e quando suoni rimprovero, l'ascoltano
addolorati e compunti, ma sempre fiduciosi, riverenti. E più
quando il grido del Pastore risuona angoscioso tra il frastuono della
bufera che si appressa, l'ascolta il gregge trepidante e lo discerne
fra le mille voci discordanti e, se sbandato, si affretta di seguirne
il richiamo. Oves meae vocem meam
audiunt: [«Le mie pecorelle ascoltano la mia
voce»,
Ioann. X, 27. N.d.R.] Chi non l'ascolta corre al precipizio,
alla rovina.
E ben lo sanno i fedeli tutti: quella voce è come la parola
del Signore, di cui è l'eco, «parola viva e penetrante,
che s'interna fino alla divisione dell'anima e dello spirito», [Hebr.
IV, 12 N.d.R.] ma
solo per recarvi luce, refrigerio e vita. Sanno i fedeli tutti che
anche quando la voce sacra del Papa non risuona in tutta la forza
dell'autorità sua infallibile, ha diritto nell'uso del suo
magisterio autentico, ordinario e solenne, al nostro ossequio,
all'assenso cioè, non solo esterno, ma interno e sincero. E
sanno infine che questo ossequio è per ognuno dovere
strettissimo, elementare, di cattolico.
Ma non sanno più, non intendono più nulla di tutto
ciò i modernisti. Alla voce del Padre essi rispondono con il
dispetto del figlio oltracotante e riottoso: alla voce del capo e del
pastore con l'albagia del servo contumace che vuol soprastare, con la
insipienza del cieco che vuol guidare, con la precipitanza del gregge
protervo che vuol correre da sè ai pascoli dell'errore. Peggio
ancora: alla voce del maestro e del giudice della fede e della dottrina
rispondono col biasimo dello scolaro ignorante che si arroga di
correggere il maestro, del colpevole che presume giudicare il giudice:
alla voce del legislatore finalmente con la baldanza del suddito
ribelle che morde il freno della legge e ricalcitra dispettosamente.
Peggio ancora: pensando alla condizione loro, di sacerdoti, di figli
prediletti della Chiesa, cresciuti da lei tanti anni, a tanto suo
costo, all'ombra dei suoi altari, la Chiesa dovrà ripetere le
parole sacre, con lamento più doloroso: «Ho nutrito dei
figli e li ho esaltati: ed essi mi hanno sprezzata» [2].
È doloroso spettacolo, certo, il vedere questo stuolo di
ribelli, piccolo ma baldanzoso, con la serenità infinta, con la franchezza
affettata del primo traditore di Cristo avanzarsi verso il maestro
quasi per dargli il bacio figliale. Ma al richiamo angoscioso del
Maestro, quegli non rispondeva se non col silenzio; questi vogliono
rispondergli con la parola del miele su le labbra, dalla quale schizza
il veleno del cuore, erompe lo sfogo dell'orgoglio ferito.
È doloroso: ma istruttivo; diremmo quasi, per qualche
rispetto, è salutare, è provvidenziale nella permissione
divina: il gesto dei
modernisti riesce la prova più lacrimevole e più triste,
ma insieme la più perentoria, della verità di tutte le
denunzie, che apparvero così gravi, così esorbitanti ad
alcuni, anche dopo l'enciclica; è la giustificazione piena della
sua troppo giusta severità; la dimostrazione purtroppo
apodittica dei pericoli e degli errori più enormi, che molti
credevano sogno delle nostre immaginazioni, o almeno esagerazione di
meticolosi «custodi dell'ortodossia». E ciò appare,
sia che si consideri il loro atteggiamento, il loro metodo o indirizzo,
la loro condotta, la loro dottrina: in tutto, col loro programma, col loro sforzo di
risposta all'enciclica [3], essi
danno, loro malgrado, alla parola del Papa una conferma, agli illusi
una lezione, a se stessi una mentita solenne.
Si giudichi fino dalla prima introduzione, in cui si affannano a
provare «la necessità di una spiegazione»,
cioè a giustificare il loro atteggiamento e la loro condotta. Si
proclamano «figli devoti della Chiesa; obbedienti
all'autorità in cui vediamo (dicono essi) prolungarsi il
ministero pastorale degli apostoli...» e intanto l'atto
dell'autorità accusano come «un tentativo studiato di
presentare al pubblico le dottrine modernistiche sotto una luce falsa e
antipatica» [4]; la condanna
come «violenti accuse»
sotto cui non possono rimanere impassibili [5]; la confutazione come una
«sfida polemica» che essi hanno non solo il diritto ma il
dovere di raccogliere [6]; le leggi
di disciplina vigente come «tradizionali pretese
teocratiche» le quali «urtano oggi i
più elementari sensi di responsabilità personale» [7]. Quindi, proclamano essi,
«non mendichiamo scuse;
tanto meno crediamo dover mendicare un perdono». Ah, sono troppo
innocenti i nostri modernisti! Nè pure appellano più
dal Papa al Concilio: così usavano gli antichi eresiarchi: i
modernisti «invocano il giudizio dei fratelli, e anche attendono
il giudizio della storia». Si direbbe che, come tutti i
colpevoli, particolarmente i ribelli, gli eresiarchi, gli apostati, non
hanno troppa fretta di sottoporsi a giudizi!
Ma ne hanno in compenso molta di pronunciarne; e li pronunciano
categorici, solenni, orgogliosi, di biasimo e di condanna tutti, contro
la Chiesa, contro il Papa, contro i loro stessi fratelli, a cui pure
appellano quando loro fa comodo. Contro la Chiesa giudicano che
«lunghi anni di inerte isolamento le hanno fatto smarrire ogni
efficacia
sociale» [8]; e chiudono gli
occhi, i miserabili, alla grande opera ristoratrice
che la Chiesa va continuando nel mondo, a dispetto delle persecuzioni
dei nemici aperti e dei traditori, degli increduli e degli eretici, dei
tiepidi, dei turbolenti e degli inerti fra i suoi figli; chiudono gli
occhi alla storia. Peggio, chiudono gli occhi alla vitalità
divina e alla divina missione della Chiesa, quando insinuano che possa
essere l'una «insidiata dai germi di una decomposizione
imminente», l'altra «ridotta alla vigilanza sospettosa
sulla fede semplice e rozza
dei suoi scarsi seguaci superstiti» [9];
e ciò nel caso, che
«la Chiesa a lungo ritenga il loro programma, come
deleterio»; in altre parole più semplici, nel caso che non
si
ricreda, che non li ascolti; perchè il loro programma
«è per la Chiesa l'unica via di successo» [10]. Occorrono
forse commenti a dimostrare quanto sia lontano dal cattolicismo chi ha
della Chiesa un concetto così naturalista, e di più
così ingiurioso, così abietto? chi ne fa dipendere da
simili spropositi «il successo, la vitalità, la
missione»,
dimenticando che la Chiesa è società indefettibile e
divina? Sono empietà coteste, se non fossero, come vorremmo
sperare ancora, fantasie sfrenate di giovani squilibrati, di sognatori
incoscienti, o troppo «vibranti all'unisono con la coscienza
contemporanea» degli increduli, mentre «ogni impressione
ed ogni episodio esteriore si fissa nel diaframma del loro spirito
(com'essi ci assicurano) e arricchendolo lo trasforma» [11].
Perciò vorrebbero, i meschini, che anche la Chiesa vibrasse
all'unisono, vibrasse col diaframma del loro spirito, ella pure, e si
trasformasse adattandosi alla coscienza, all'anima moderna
«così dissimile dall'anima medievale»; poichè
— insistono essi — «la coscienza umana
collettiva come la coscienza individuale, non attraversa nella sua
storia due istanti che perfettamente si equivalgono... l'esistenza
è movimento» [12].
Insomma vorrebbero una trasformazione, che
è l'evoluzionismo religioso più labile, più
insussistente, più radicale, a cui niuna eresia giunse mai.
Così, i buoni figliuoli, intimano alla madre l'alternativa, o
correre con essi e trasformarsi, o restare immutabile e perire!
Nè meno protervi si mostrano nei loro giudizi contro il Padre
comune, Capo della Chiesa e Vicario di Cristo, sebbene li esprimano
talora con ostentato sforzo di mitezza apparente, d'insinuazione o
d'ironia velata, come l'allusione «al gesto solenne» di
«chiudersi nei ricordi della teocrazia politica e intellettuale
del medio evo», all'«atteggiamento di ritorno al
passato» che ha «i caratteri di un isterilimento» a
cui il
Papa verrebbe a condannare l'istituzione da lui governata, e simili [13].
Così essi fino dal primo capitolo; e nel corso del libello poi
alzano anche il tono dell'irriverenza e dell'oltraggio.
Similmente contro i loro fratelli, contro i cattolici tutti, alzano
tribunale cotesti «umili» modernisti, fino dalle prime
pagine, e sentenziano: «Per una serie di circostanze i cattolici
hanno perduto ogni elementare senso di responsabilità e di
dignità personale»: la loro non è «sudditanza
ragionevole e quindi giudicatrice»: è «dedizione
incosciente degli irresponsabili» [14].
I modernisti soli
omai hanno qualche senso di dignità personale: sì che
credono proprio «di compiere un grande bene alla Chiesa,
rompendo questa triste catena di abusi e di rinunzie, e discutendo con
umiltà (!) ma
energia le loro posizioni,
condannate perchè poco conosciute
dall'autorità che ci governa» [15]. Orgoglio incredibile, si
direbbe, dell'eresiarca che si accieca!
Eppure, soggiungono essi con l'orgoglio misto all'ipocrisia:
«In
questa maniera, noi non facciamo che seguire l'esempio di quei grandi
figli della Chiesa che non dubitarono nei momenti di crisi portare
all'autorità il sussidio leale dei loro ammonimenti e dei loro
rimbrotti». Nientemeno! Chi lo crederebbe? — Ma dai
«grandi figli della Chiesa» che essi sono, tutto è
da aspettarsi! — E qui spropositano costoro sul fatto di S.
Colombano, accennato già da uno dei loro sul Giornale d'Italia;
riportano con mal celata compiacenza e molto libera traduzione le
parole più ardite da lui scritte a Bonifacio IV, non tutte certo
commendevoli o da prendersi a modello per ogni caso generale. Ma lo
sfogo privato e figliale del rude monaco irlandese non può
valere di scusa ai modernisti, i quali vogliono distrutto il dogma e
con tutto lo scandalo della moderna pubblicità insorgono contro
la Chiesa; laddove per difendere la Chiesa appunto e il dogma da
pericoli anche immaginarii il solitario di Bobbio ricorreva a quei suoi
modi singolari, che solo la semplicità del monaco, la rozzezza
dell'indole e dei tempi, lo zelo ardente per l'ortodossia valgono a
spiegare, e che egli medesimo nella sua bonaria e commovente
ingenuità scusa per la singolarità delle sue condizioni e
per la «libertà della paterna consuetudine che lo fa
ardito» [16].
Su riprovevoli dunque ed ereticali propositi si fonda
l'atteggiamento
pratico dei modernisti come il loro indirizzo speculativo, la loro
condotta come il loro sistema. Nè altre sono le ragioni che
adducono per mostrare la «necessità di una
spiegazione» e la necessità del loro programma. Ma pessima
fra tutte
è la loro eresia fondamentale dell'evoluzionismo più
estremo, già tante volte fulminato dalla Chiesa. Essi dichiarano
fino dalle prime pagine — ciò che poi spiegano appresso
più crudamente — che «tutto l'insegnamento di
Gesù è una speranza religiosa»; che «la
religiosità cristiana è un puro spirito di aspettazione
nel trionfo di un divino regno di Giustizia e suscettibile di ogni
rivestimento teorico che parta da presupposti idealistici».
Nè essi escludono punto i presupposti dell'idealismo
trascendentale del Kant, dell'idealismo soggettivo del Fichte,
dell'idealismo assoluto dell'Hegel, dell'idealismo empirico del
Berkeley, dell'Hume, dello Stuart Mill e della loro scuola inglese:
ma tutti li possono abbracciare, a mano a mano che loro li porti, nel
suo torrente vorticoso di evoluzione, l'opinione corrente; e ciò
per la ragione che soggiungono: «perchè tali presupposti
(idealistici) sono oggi alla base dei nuovi atteggiamenti della
filosofia». Se dunque intendono ciò che affermano, i
nostri modernisti non sono più cristiani; sono infedeli. O al
più, sono cristiani, alla maniera del famigerato chierico
apostata del secolo scorso, Ernesto Renan, di cui qualche modernista si
fa ora eco — inconsapevole, vogliamo sperare — in Italia.
Il Renan infatti, dopo la professione
di idealismo assoluto, cioè dire panteismo hegeliano, osava
scrivere che «il vero spirito di Gesù è idealismo
assoluto» [17]; e altrove,
che il culto da lui voluto era «un
culto puro, una religione senza pratiche esteriori, riposta tutta sopra
il sentimento del cuore, sopra l'imitazione di Dio e sopra le relazioni
immediate della coscienza col Padre celeste» [18]; «religione assoluta che nulla esclude,
nulla determina se ciò non
fosse il sentimento» [19]. E
poichè in Gesù, —
com'egli dice con parole che alcuni modernisti han fatto proprie, e
sono già note ai nostri lettori [20]
— «si attuò
la più alta coscienza di Dio, che abbia giammai esistito in seno
dell'umanità» [21],
il Renan poteva soggiungere, e con lui i
modernisti: «Nessuna rivoluzione ci potrà impedire dal
rannodarci in religione alla grande linea intellettuale e morale, in
capo alla quale brilla il nome di Gesù. In questo senso noi
siamo cristiani, anche quando ci separiamo in quasi tutti i punti della
tradizione cristiana che ci ha preceduto» [22]. Ecco un «rivestimento teorico della
religiosità cristiana», a cui
può far plauso il modernismo, perchè «parte da
presupposti idealistici» per l'appunto!
Potevano i modernisti, in meno di dieci pagine d'introduzione,
confermare con più dolorosa evidenza la verità delle
accuse loro mosse e la giusta severità dell'enciclica?
Dovremmo ora venire alla sostanza del loro libello — esposizione del sistema del modernismo
— in cui l'evidenza dei loro traviamenti appare in una luce
sempre più spaventosa.
Ma sono tante e tanto spropositate le aberrazioni, come le
confusioni di idee e di questioni le più diverse, che solo a
enumerarle, nonchè a discuterle, sarebbe necessario ben
più di un articolo. Basti per ora, — dovendovi ad altro
tempo ritornar sopra più partitamente — darne qui un sunto
rapido, ma fedele: più che sufficiente, del resto, a provare
ciò che abbiamo asserito da principio, come questa risposta
riesce ad una involontaria conferma dell'enciclica, contro cui si
scaglia acerbamente.
I modernisti vogliono anzitutto che la critica, non la filosofia,
sia
il presupposto del modernismo, e chiamano l'asserzione contraria
dell'enciclica, «equivoco, asserzione falsa, un'abile mezzo
polemico, ripiego molto comodo, terreno fragile e insidioso» su
cui non possono seguirla, e via via: presumono dimostrar ciò con
ragione intrinseca, che la critica prescinde da ogni presupposto
filosofico, e con prove estrinseche di fatto, quali le «mirabili
Histoires critiques» di
Riccardo Simon, l'opera anonima di
Giovanni Astruc, e i «magnifici studii» del Loisy; infine
conchiudono che per ciò «non ritengono opportuno seguire
passo per passo l'enciclica nella pittura fallace che fa del modernista
come filosofo, credente, teologo, critico, apologeta,
riformista, e contrapporre a ciascun capo la confessione sincera dei
loro modesti intenti e delle loro vere idee». Anzi protestano di
«essere i primi a dichiarare alto e forte di non avere alcuna
sintesi definitiva, ma di procedere faticosamente e non senza
titubanze» ecc., che la loro filosofia è «tuttora
timida ed incerta», «tuttora così indecisa»
tutta «ipotesi generali, che essi vanno timidamente
enunciando» e via dicendo.
Questa ultima confessione è preziosa, ma non si accorda con
la
pratica, nè si concilia con la baldanza, onde hanno parlato e
prima dell'enciclica e poi, onde parlano in questa stessa risposta: i
nostri lettori ne sanno qualche cosa. Molto meno è leale
l'atteggiamento loro e il proposito di non farci mai, una buona volta,
«la confessione sincera dei loro modesti intenti e delle loro
vere idee» su tanti altri punti loro rimproverati
dall'enciclica, tra cui ve ne sono di così delicati e vitali.
Ma di ciò hanno certo le loro ragioni; e si capiscono troppo:
quelle altre ragioni che portano, essere «la critica il loro
presupposto», e il modernismo «un metodo, o meglio
il metodo critico applicato
come di dovere, alle forme religiose
dell'umanità in genere, e al cattolicismo in ispecie»
— sono un «ripiego molto comodo, un abile mezzo
polemico»; sono tutto ciò che vogliono, salvo la
verità. La
verità sincera è questa sola, che essi mirano a spostare
la questione, come suol dirsi, a gettare polvere negli occhi agli
inesperti di tali controversie, a oscurare questioni chiarissime con le
ombre di altre più difficili, più discutibili o discusse.
Quindi viene, a esempio, quel loro divagare su la controversia del
comma giovanneo dei tre testimoni, e la risibile baldanza, con cui ne
parlano e conchiudono che a tale studio «non occorre alcuna
speciale dottrina filosofica». Chi non lo sa? Ma con questo
hanno forse provato di non averla essi, di non procedere essi da
«nessun presupposto»? Ora qui sta il punto: e non ci
hanno che fare gli esempii dei Simon, degli Astruc, molto meno del
Loisy, i cui presupposti filosofici sono omai troppo notorii [23].
Ma per non andare in lungo, i modernisti convengono tutti, e lo
confessano qui implicitamente, nel «presupposto» radicale
di applicare la spiegazione stessa naturalistica (per eufemismo la
chiamano «un metodo, o meglio il metodo critico») alla
religione soprannaturale, al cattolicismo, come a tutte le forme
religiose dell'umanità. Ossia, presuppongono sempre coi
razionalisti l'esclusione del fatto
della rivelazione propriamente
detta, anzi di tutto ciò che è soprannaturale, dalla
scienza e dalla storia. Da ciò sgorga tutto un sistema di
filosofia naturalistica, anche loro malgrado.
E siffatta filosofia o mentalità
naturalistica traspare da ogni punto
della loro esposizione intorno ai supposti «risultati della
critica biblica e storica», prima intorno al Vecchio Testamento,
segnatamente intorno all'autore e alle origini del Pentateuco —
dove non manca l'insulto plebeo di profonda
ignoranza ad uno dei
segretarii della Commissione biblica, anzi a tutti i consultori teologi
ed agli stessi cardinali; — di poi intorno al Nuovo Testamento,
dove ci ricantano tutte le conclusioni dei razionalisti più
estremi, anche quelle, ad es. già rifiutate dall'Harnack stesso,
che negano a S. Luca la paternità del terzo Vangelo e degli
Atti. Di questi e simili pretesi «risultati» si potrebbe
dire non a torto che solo una «profonda ignoranza»
congiunta a un'eguale superbia può spacciarli in tal modo come
irrefragabili ed evidenti. Ma quando pure si ammettessero —
come crede di poterli ammettere, in parte, anche qualche cattolico
sincero — non sarebbe lecito dedurne le conclusioni estreme della
filosofia e teologia del modernismo.
Su queste conclusioni si stendono i modernisti ampiamente nel loro
programma, e ne formano tutto un sistema loro proprio, già da
noi denunziato altrove nelle sue linee generali [24]. Essi infatti
proclamano qui altamente la «necessità di cambiare il
concetto di ispirazione, di rivelazione e d'introdurre quello di
evoluzione religiosa, e di distinguere, per quel che riguarda il Nuovo
Testamento, tra la storia reale e la storia interna, tra il Cristo
storico e il Cristo mistico o della fede» [25]; un concetto nuovo di
«tradizione cattolica, che è trasmissione vivente dello
spirito religioso» e in essa rivolgimenti
profondi ossia
evoluzioni radicali. Quindi, per sostenere la fede, sorge
necessità «del concetto di una permanenza del divino nella
vita della Chiesa» per la quale ogni nuova formulazione
dottrinale (ogni dogma
cioè, ogni verità definita), ogni nuova
istituzione
giuridica (Chiesa, episcopato
monarchico, primato del Papa, ecc.)
sono giustificate solo «in quanto mirano più o meno
consapevolmente alla conservazione dello spirito religioso del
Vangelo», non in quanto procedano propriamente da Cristo, come
autore.
E su ciò essi dicono apertamente che alle origini del
cristianesimo, non hanno trovato «sia pure in germe le
affermazioni dogmatiche formulate lungo i secoli dal magistero
ecclesiastico»; ma solo «una forma religiosa che amorfa e
adommatica nei suoi principii, è venuta lentamente sviluppandosi
verso forme concrete di pensiero e di rito ecc.». E questo lento
«sviluppo» spiegano, sulle tracce dell'Harnack e del
Loisy, come una successiva trasformazione del messaggio evangelico,
onde «il cristianesimo si è diffuso adattandosi alla
mentalità e alla educazione spirituale di ogni regione e
assimilando da ciascuna gli elementi migliori per il suo
sviluppo». E appresso, ci ripetono che «tale elaborazione
investì innanzi tutto i dogmi che sono stati poi fondamentali
nel cattolicismo, il dogma trinitario e il dogma cristologico e la
organizzazione della Chiesa» [26].
E con tutto questo, benchè
lavorio umano, «le formulazioni del passato e quelle
dell'avvenire sono state e saranno ugualmente legittime, purchè
rispettino fedelmente il bisogno della religiosità
evangelica». Che si può dire di peggio? cioè di
più
ereticale, anzi razionalistico nella sostanza, di più
ipocritamente insidioso nella forma?
Ecco dunque confermata dai modernisti, espressamente, e peggiorata
anzi, tutta la gravità delle accuse loro mosse dall'enciclica
per la parte della fede e della teologia, segnatamente quella di un
evoluzionismo o trasformismo radicale, tutto derivato da quella loro
metafisica darvinistica dei «bisogni».
Passano poi essi alla filosofia e all'apologetica loro, negando che
«le attribuzioni filosofiche che l'Enciclica loro fa» o
siano esatte, o nella parte in cui sono esatte, siano anticattoliche.
Nell'una cosa e nell'altra la loro difesa riesce anche qui ad una vera
condanna. Riconoscono infatti
di essersi incontrati con la tendenza
immanentistica, cioè la dottrina positiva su cui maggiormente
preme l'enciclica, essendo fonte di tutti gli errori.
Poichè,
secondo questa — riconoscono i modernisti qui stesso, come
già altrove [27] —
«nulla può penetrare nell'uomo
se non scaturisce e non corrisponde in qualche modo a un bisogno di
espansione; non vi è per lui verità fissa o precetto
ammissibile che non sia in qualche modo autonomo ed auctoctono».
L'uomo dunque si foggia la verità, come si foggia la legge, e la
muta a suo talento; e ciò secondo un principio anche peggiore
dell'autonomia kantiana, il
quale principio, per distrigarsene, si
avviluppa sempre più nella confusione babelica dell'idealismo
trascendentale.
Dopo ciò — per chi bene intende i termini — di
verità, di cognizione obiettiva,
di realtà esteriore
corrispondente al concetto, è inutile parlare: siamo in pieno
scetticismo, o come parlano i modernisti già da noi citati tante
volte, siamo in uno «sfiduciato agnosticismo». Eppure qui
i modernisti, dopo il passo recato sopra, scrivono un paragrafo dal
titolo ingenuo: Siamo noi agnostici? e hanno il coraggio di negarlo e
di accusare «le contraddizioni in cui cade l'Enciclica»,
le quali sono invece tutto vizio insanabile della loro filosofia, che
essi stessi hanno detto «così indecisa»,
così titubante, quando ne vedevano messa a nudo
l'assurdità.
Distinguono, è vero, con sussiego quattro ordini di
conoscenze: fenomenica, scientifica, filosofica, religiosa; ma in
ognuno inoculano il germe dello scetticismo, comprovando l'accusa loro
mossa di fenomenismo agnostico. E della conoscenza fenomenica è
chiaro: la scientifica poi «applica ai gruppi dei fenomeni
percepiti il calcolo»; la filosofica «l'interpretazione
dell'universo secondo alcune categorie connaturali allo spirito e
rispecchiante le esigenze profonde e inalterabili dell'azione»:
la religiosa «l'esperienza attuale del divino operante in noi e
nel tutto», esperienza, come più sotto la chiamano
«interna ed emozionale»; la quale «esce appunto
dall'interessamento della coscienza e dalla vibrazione dell'essere
morale all'unisono con la parola del divino», secondo il limpido
loro linguaggio.
Nulla dunque che penetri nella vera essenza delle
cose, nulla che scopra ciò che sostenta il fenomeno esteriore, o
sottosta all'apparenza, nulla che ne attinga la natura e le cagioni.
Nulla insomma, nel loro quadruplice ordine di cognizioni, che meriti
nome di conoscenza, come nulla è di veramente obiettivo e
conforme a realtà. Infatti, più sotto ci assicurano di
«accettare la critica della ragione che Kant e Spencer hanno
fatto» [28]; anzi
soggiungono che la ragione appare come uno
strumento di formulazione e di definizione, di cui gli istinti
dell'essere umano si servono per un processo inconsapevole ecc. Quindi
negano essi «ogni valore» agli argomenti portati dalla
metafisica scolastica a dimostrare l'esistenza di Dio, come rigettano
la testimonianza del miracolo e delle profezie: «fatti questi
che urtano la coscienza contemporanea». E se questo non è
radicalmente scetticismo o agnosticismo, che cosa sarà?
Nè vale il loro dire, che lungi dal ricorrere alla
testimonianza
aprioristica della ragione pratica, «segnalano nello spirito
umano altre vie per raggiungere il vero». Non vale,
perchè nè essi le dichiarano mai bene, queste vie;
nè, quali esse sieno, essendo fuori della ragione, soggettive
tutte e immanenti, senza ordine alcuno o relazione all'oggetto, non
possono trascendere alla
cognizione della realtà esteriore. E di
più, negato il debito valore alla ragione speculativa e pratica,
è futile attribuirlo ad altra facoltà conoscitiva, per
esempio al loro «senso
illativo»,
o voler sostituito al
realismo logico l'intuizionismo mistico, o peggio, confondere, come
essi fanno, il loro assurdo immanentismo con l'argomento desunto dalla
coscienza, o con l'argomento morale degli scolastici. L'incoerenza
è manifesta.
Si moltiplicano poi le contraddizioni e le eresie, quando i
modernisti,
spiegato il loro immanentismo,
ne esaltano «i caratteri e le
conseguenze» ingegnandosi anche a stravolgere le definizioni del
Vaticano; quando vogliono difesa l'opera di trasfigurazione e di
sfiguramento da essi attribuita alla fede, circoscrivendola all'ordine
gnoseologico, cioè della cognizione — il che non toglie,
anzi implica l'errore formale — e quando infine passano a
discutere questioni particolari, cioè il valore comparativo
delle religioni, le relazioni tra scienza e fede — in cui trovano
molto zoppicante la logica dell'enciclica, mentre la loro stramazza ad
ogni passo — da ultimo la separazione tra Stato e Chiesa, da essi
altrove impugnata, qui difesa accanitamente.
In tutto accumulano errori ed anche eresie aperte: sicchè
questo programma di risposta, o piuttosto di conferma all'Enciclica di
Pio X, è veramente una «sintesi di tutte le eresie».
Ed è curioso vedere come in questo giudizio concorrano tutti
«i competenti di varie tendenze» anche acattolici, dei
quali un Giornale notoriamente liberale, la Stampa di Torino, riassume
le conclusioni in queste giudiziose parole:
«Tutto il piano di difesa dimostrerà quel che si vuole,
meno la tesi da opporsi all'enciclica. Questa, infatti, può aver
parlato di preconcetti ed apriorismi dei modernisti, ma la tesi
sostanziale del documento pontificio è che il modernista non
può essere cattolico e che le dottrine moderniste non sono
cattoliche. Una sola proposizione non è confutata, ma confermata
dall'opuscolo modernista, il quale, per citare uno dei tanti esempi,
dichiara che la Chiesa in principio era amorfa e adogmatica,
cioè senza forma organica e senza dogmi
(proposizione che suona un'eresia non solo per i cattolici, ma anche
per gli ortodossi orientali ed anglicani e per quasi tutti i
protestanti), quale è l'altra proposizione, che nella Chiesa
ormai tutto è cambiato, meno lo spirito del Vangelo. Dunque sono
cambiati anche i dogmi, se non le formule, almeno il senso di questi!
Altra proposizione che tutte le Chiese cristiane riprovano. È
quindi da prevedersi che gli organi del Vaticano avranno facile il
còmpito di rilevare una simile confusione dei modernisti, i
quali forse proveranno un po' tardi che il silenzio è
d'oro...»
La scomunica fulminata contro di loro dal Capo della Chiesa [29] li ha
messi omai fuori della Chiesa: non possono più essere dannosi ad
altri che a se stessi e a quegli incauti che vogliano con essi correre
alla rovina.
E che già vi siano caduti, i miseri, ben profondo, lo mostra
il
disprezzo pubblico, che ostentano della scomunica, già enunziato
nella conclusione del loro
programma di ribelli.
Ma anche questa conclusione,
se non potesse spiegarsi come fenomeno
strano di cecità e d'incoscienza
propria d'ingegni squilibrati,
dovrebbe dirsi un misto orribile d'empietà e di ipocrisia, non
solo da eretici, ma da infedeli.
Dopo tante negazioni infatti, più o meno aperte ma non
perciò meno radicali e spietate, di tutto ciò che
è più caro all'anima cristiana, di ciò che
è vita della nostra vita — fino alla divinità di
Cristo, al valore della sua morte espiatrice, all'istituzione divina
della sua Chiesa, ad ogni dogma più sacro insomma —
si atteggiano a mistici e piangono e protestano «il più
spasimante dolore», perchè «l'enciclica li ha
purtroppo chiamati nemici della croce di Cristo». Anzi, hanno il
tristo coraggio di tornare a dichiararsi «i più devoti e
più volenterosi figli» della Chiesa, mentre dopo averla
coperta di fango, ne sfidano ancora le condanne tutte, coprendosi del
manto della loro «coscienza tranquillissima» e «di
alcune parole luminose» di
S. Agostino, che essi riportano quasi a conclusione della loro difesa;
ma che non veggono o fingono di non vedere quanto siano loro contrarie.
Ed è questa un'ultima prova della loro insipienza.
S. Agostino ricorda in quel luogo [30]
bonos viros i quali sono
talora
espulsi dalla communità cristiana per le turbolente sedizioni di
uomini carnali (come è noto dalla storia delle controversie
ariane segnatamente); ma portano questa contumelia o ingiuria in grande
pazienza per la pace della Chiesa, senza attentare «ullas novitates vel schismatis, vel haeresis... sine ulla
conventiculorum segregatione usque ad mortem defendentes
et testimonio iuvantes eam fidem, quam in
Ecclesia catholica praedicari sciunt.» [«...
di dar vita a qualche novità o scisma o eresia... difendendo
fino alla morte, senza ricorrere a segrete conventicole e giovandosi
della loro testimonianza, quella fede che sanno predicata nella Chiesa
cattolica.» N.d.R.] Ora i nostri leali
modernisti hanno soppresso nella loro versione il vocabolo
novità, e più
colpevolmente quello della riunione
delle
conventicole: che sono appunto
un'anticipata condanna del loro
contegno. Ma peggio hanno fatto a non profittare delle parole non meno
«luminose» che immediatamente precedono, e dimostrano ad
evidenza come tale testo non si applichi alla S. Sede che li ha
condannati, bensì a certi modernisti ribelli; giacchè S.
Agostino insegna nel capo stesso di quali uomini carnali egli intenda,
di quelli cioè che secondo la carne vivono o pensano, errando o
nella fede o nei costumi (viventes
aut sentientes carnaliter); e
insegna di più come la Chiesa si serva anche degli erranti ai
suoi progressi e alla loro correzione: altri invita, altri esclude
ecc., ma a tutti dà potere di partecipare alla grazia di Dio...
E infine, quanto agli uomini carnali, qui
non potuerunt corrigi aut
sustineri, S. Agostino dice alto che tamdiu sustinetur peccator aut
error cuiuslibet, donec, aut accusatorem inveniat, aut pravam
opinionem pertinaci animositate defendat. Exclusi autem aut
poenitendo redeunt, aut in nequitiam male liberi defluunt, ad
admonitionem nostrae diligentiae; aut schisma faciunt ad exercitationem
nostrae patientiae; aut haeresim
aliquam gignunt ad examen sive occasionem nostrae
intelligentiae. [... che non è stato possibile
correggere nè tollerare... il peccatore o l'errore di
chicchessia è tollerato fino a che l'uno trovi un accusatore o
l'altro difenda la sua perversa opinione con pertinace
animosità. E gli esclusi o ritornano pentiti o, con malo uso
della libertà, si perdono nella dissolutezza, ad ammonizione
della nostra diligenza; o suscitano scismi a prova della nostra
pazienza; ovvero escogitano qualche eresia a saggiare la nostra
intelligenza. N.d.R.]
E nel libro secondo contro i Donatisti, riafferma che gli spirituali
ibi magis probantur quam si intus
permaneant, cum adversus Ecclesiam
nullatenus eriguntur sed in solida unitatis petra fortissimo
charitatis robore radicantur [31].
[«... ivi danno prova maggiore che se vi restassero
dentro, quando non si erigono in nessun modo contro la Chiesa, ma si
radicano sulla pietra solida dell'unità con la robustezza
gagliardissima della carità.» N.d.R.]
Dopo ciò, chiunque ha fior di senno può giudicare da
sè con quanta ragione gli sciagurati libellisti ricorrano
all'autorità di S. Agostino e quanto siano essi veramente radicati con la robustezza gagliardissima
della carità
nella pietra solida della unità.
Quale cieca aberrazione!
_________________
NOTA.
Avevamo corretto già le stampe di questo articolo, quando ci
giunse l'ultimo numero del Rinnovamento
di Milano
(settembre-ottobre), pieno tutto di fiele contro l'enciclica.
Nella sostanza si accorda apertamente col programma dei modernisti,
ma nella violenza della forma e nella irriverenza del linguaggio lo
passa di molto; e trascende con Igino
Petrone (L'enciclica di Pio X)
a
stravolgimenti indegni dello spirito e del senso della enciclica, con Romolo Murri (L'enciclica «Pascendi» e la
filosofia moderna) a minori confusioni ma ad allusioni maligne,
con Giorgio
Tyrrel (Il Papa e il
modernismo, due articoli tradotti dal
Times) a villanie
stomachevoli; con un anonimo infine, o col
triumvirato stesso della Direzione, nella solita «cronaca di
vita e di pensiero» (L'enciclica
circa le dottrine moderniste) a
uno sconcio di pretesa confutazione. Conclusione di tutto ciò
è quella espressa dal Petrone: «la linea di condotta che
il modernismo, e più apertamente il laicale, adotterà,
può essere trascritta in questa formola: una rispettosa, se
vuolsi (?), ma ferma e tenace
resistenza».
Ecco il programma dei modernisti ribelli!
NOTE:
[2] Isai. I, 2.
[3] ****** Il programma dei modernisti.
— Risposta all'enciclica di
Pio X
«Pascendi dominici gregis». Società internazionale
scientifico-religiosa editrice. Roma 1908. — È un libello
di pagine
238, in cui dopo l'esposizione del sistema modernistico, affatto
parziale e subdola, si divaga in «questioni particolari» e
in
declamazioni nebulose, fondate sopra gli equivoci più enormi,
come
verremo man mano dimostrando nel processo della nostra trattazione sul
modernismo. Seguono poi «impressioni e commenti»,
cioè articoli di
giornali laici e scredenti, con approvazione più o meno espressa
e solo
qualche mite, carezzevole riserva — eccetto l'unico articolo del
Corriere d'Italia, cattolico,
il cui autore vi è schernito come «anima
ingenua, che deve avere una bene scarsa conoscenza...» ecc.
[4] Pag. 5.
[5] Pag. 6.
[6] Pag. 9.
[7] Pag. 7.
[8] Pag. 7.
[9] Pag. 7.
[10] Pag. 11.
[11] Pag. 9. — Questa
frase e teoria del diaframma
non è
nuova ai nostri lettori, e a quelli della Cultura Sociale dove si
leggeva fino dal 16 ottobre 1905: «Ciascuno di noi è con
la frase del Nietzsche, un ponte, una corda tesa, non verso il
chimerico superuomo, ma verso l'Infinito sussistente; scendiamo nelle
oscure penombre della nostra coscienza, sul cui diaframma riflettono
i nostri atti ragionevoli». — Cf. Civ. Catt., quad. 1359
(2 febbr. 1907), p. 265.
[12] Pag. 9.
[13] Pag. 14.
[14] Anche qui gli insulti e gli
errori non tornano nuovi, neppure nella
forma gentile e serena. Cf. Civ. Catt., quad. (16 feb. 1907):
Serenità e franchezza di critici. Così Romolo
Murri gridava ai cattolici «con quanto aveva in
gola» com'egli dice, questi carezzevoli epiteti: «siete
così inetti, così ignoranti, così bestie qualche
volta». E sono pure notorii i suoi concetti originali sopra la
franchezza o sincerità nell'ubbidienza dovuta al Papa confutati
già sul nostro periodico (Quad. 1344, 16 giugno 1906,
p. 641-659).
[15] Pag. 12.
[16] «Indulgete mihi talia
confragosa loca trasnatanti... libertas
paternae consuetudinis, ut ita dicam, me audere ex parte
facit... Nos
enim, ut ante dixi, devincti sumus cathedrae Petri...» Epist. V,
X (Migne, Patr. lat.
LXXX, 279. — La libera e confidente
semplicità di Colombano è suggerita dunque da vera
devozione e da figliale amore al Papa e alla Sede Apostolica. Il che
appare anche da precedenti sue lettere a S. Gregorio e a Bonifacio
stesso «dolcissimo in Cristo Papa», come spicca da mille
passi
di questa, dissimulati abilmente dai modernisti, cominciando dalla
stessa intitolazione, in cui il monaco si scusa di scrivere humillimus celsissimo, maximo, agrestis
urbano, micrologus eloquentissimo ecc. — Ben altro
è lo
spirito e diverse le arti, con cui parlano di sè e del Papa i
modernisti; con cui
scelgono qua e là dalla lettera di Colombano le frasi staccate e
le cuciscono insieme per il loro intento malvagio, con cui infine su
queste pagine stesse (12-14) travisano la storia di un periodo
assai noto (sec. VII), accusano «la debolezza di Vigilio»,
quella di Bonifacio IV, e «il torpore di Roma».
Eppure sanno essi bene la vanità delle dicerie che accusavano
allora il clero romano di nestorianesimo, come in altri tempi di altre
eresie, come ai giorni nostri di modernismo. Leggerezza dunque o mala
fede incredibile!
[17]
Vie de Jesus, p. 288.
[18] Ivi, p. 85 ss.
[19] P. 446.
[20] Cf. quad. 1355, p. 533;
vedi anche quad. 1366, p. 424 ss.
[21] Vie de Jesus, p. 75.
[22] P. 447.
[23] Assai opportuno a sfatare
queste pretensioni dei modernisti è
il recentissimo articolo, intitolato appunto La critique traditionelle
et les novateurs, di Mons. Chapon, vescovo di Nizza (nel
Correspondant del 25 ottobre
1907), ov'egli dimostra assai vivacemente come «la critica
non è nata ieri, secondo che molti dicono e credono
ingenuamente; è anzi contemporanea dei nostri Evangelii, i quali
senza di essa non si possono comprendere». E difendendo il
Bossuet, secondo la bella opera di H. Lacombe (Sur la
divinité de Jésus Christ. Controverses du temps de
Bossuet et de notre temps. Paris, Tequi, 1907) fa vedere come
anche
Riccardo Simon non la faceva solo da critico ma da teologo e da
filosofo, minacciando i fondamenti stessi della fede.
[24] Cf. Civ. Catt., quad. 1366 (18 maggio),
p. 429. Di questo «nuovo sistema di dottrina religiosa» di
rivelazione,
d'ispirazione ecc., dicevamo che era «assai complesso e
seducente per gli animi incauti, superficiali o incoerenti, sempre
inchinevoli alle transazioni e ai compromessi, mentre non avvertono che
sono tradimenti della verità». Le nostre parole parvero
esagerazione, e qualche rassegna liberalesca ne fece la scandalizzata;
ma ora si mostrano solo, come tante altre, purtroppo inferiori alla
verità.
[25] Ivi, p. 23.
[26] Programma dei modernisti, p. 80.
Cf. p. 74 ss.
[27]
Cf. Civ. Catt., quad. 1347 (4
agosto 1906), p. 270. Strana
coincidenza anche questa! Le parole da noi allora criticate, di uno
scrittore degli Studi religiosi
e della Rivista storico-critica
che le tradusse dal francese, si trovano qui ripetute con ammirabile
fedeltà.
[28] Pag. 97.
[29] Vedi le Cose Romane del presente quaderno.
[Dalla Civiltà
Cattolica, anno 58° vol. IV pag. 491-492: Cronaca contemporanea, Roma, 24
ottobre - 8 novembre 1907. Cose
romane:
—
Condanna della risposta del modernisti alla Enciclica Pascendi.
Non appena messa in luce la pretesa risposta dei modernisti
alla recente enciclica pontificia, l'Autorità ecclesiastica
faceva di pubblica ragione il seguente decreto:
Petrus Tituli SS. Quatuor Coronatorum S. R. E.
Presb. Cardinalis Respighi SS.mi D. N. Papae Vicarius Generalis,
Romanae Curiae eiusque districtus iudex ordinarius etc.
Cum Nobis constet librum, qui inscribitur «Il programma dei Modernisti —
Risposta all'Enciclica di Pio X Pascendi
Dominici gregis
edito in Roma dalla Societa internazionale scientifico religiosa coi
tipi di A. Friggeri — Via della Mercede 28, 29 in Roma» in
hac Urbe venundari; cumque eius lectionem christifidelibus scandalo et
detrimento esse vehementer putemus; eum auctoritate nostra ordinaria,
proscribimus atque proscriptum declaramus. Itaque nemini cuiuscumque
gradus et conditionis Nostrae Iurisdictioni subiecto eumdem librum
vendere aut legere vel retinere liceat sub culpa lethali.
Cum porro huius libri auctores et scriptores in adserta Responsione acriter tueantur
systema, quod in Encyclica Pascendi dominici gregis — omnium haereseon conlectum
esse — affirmatur; SS. Dominus Noster Pius PP. X per hoc decretum
auctores et scriptores, ceterosque omnes, qui quoquomodo ad hunc librum
conficiendum operam contulerunt, excommunicationis poena afficit, a qua
Sibi soli absolutionem reservat. Addit SS. Dominus Noster, hoc decretum
valere perinde ac si traditum esset in manus uniuscuiusque ex dictis
auctoribus et scriptoribus, qui si sint sacerdotes et actum Ordinis
exerceant, in irregularitatem incurrent.
Nil autem satius esset, ait SS.mus, quam ut omnes Episcopi,
in sua quisque dioecesi, hanc proscriptionem indicerent et censuram
promulgarent.
Datum Romae, die 29 octobris 1907.
PETRUS RESPIGHI, Card. Vic.
Franciscus Can. Faberi, Secret.
Con questo decreto l'E.mo Cardinal Vicario proibisce sotto
pena di peccato grave il vendere, leggere, ritenere il libro
incriminato, proibizione che si estende, nessuno eccettuato, a tutti i
fedeli soggetti alla sua giurisdizione. Esso contiene inoltre la
scomunica per tutti e singoli gli autori, scrittori e cooperatori della
risposta all'Enciclica pontificia, scomunica che il decreto dichiara
incorsa immediatamente, senza bisogno di comunicazione ai colpevoli
(per ora giuridicamente ignoti) riservata personalmente al Sommo
Pontefice, al quale i rei dovranno rivolgersi nominatamente per
l'assoluzione di detta scomunica. Si rammenta in esso ai sacerdoti
colpevoli che se esercitassero un atto del ministero sacerdotale, (come
la celebrazione della Messa) incorrerebbero nella irregolarita canonica, cioè
nella inabilita all'esercizio di ogni ecclesiastico ministero.
Il decreto del Cardinal Vicario sarà pubblicato, come
ce ne assicura l'Osservatore Romano,
in tutte le diocesi d'Italia, ed i Vescovi applicheranno ai loro
soggetti la medesima proibizione, in attesa di ulteriori disposizioni
del Sant'Ufficio e dell'Indice. — N.d.R.].
[30] De vera religione, VI, 11 (cf. Migne, Pat. lat., XXXIV,
127-128). I modernisti che cercano nell'enciclica col
fuscellino, dovevano almeno nella citazione essere più esatti
(citano sommariamente De ver. rel.,
V, I).
[31] De baptismo contra Donatistas, lib.
II, c. 17. — Migne,
Patr. lat. XLIII, 123 s.
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