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mercoledì 5 febbraio 2014

SE QUALCONO AVESSE ANCORA DEI DUBBI I MODERNISTI SONO CONDANNATI E FUORI DELLA CHIESA CATTOLICA, DI CONSEGUENZA NON HANNO IN SE NESSUNA CARICA VALIDA ALL'INTERNO DELLA CHIESA ODIERNA...

Fonte: Progetto Barruel... 
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La Civiltà Cattolica anno LVIII, vol. IV (fasc. 1378, 6 nov. 1907), Roma 1907 pag. 385-404.

IL PROGRAMMA DEI MODERNISTI RIBELLI

L'atto di ribellione è consummato: sei anonimi, sacerdoti, si dice, e per nostra vergogna maggiore italiani, l'hanno tramato lungamente nell'ombra; l'hanno poi annunziato strepitosamente sui loro fogli liberali e scredenti; infine, l'hanno ora compiuto improntamente alla luce del giorno, ma celando il loro nome nelle tenebre. Perchè lo scandalo fosse più sonoro e più triste, vi hanno aggiunto l'ipocrisia dell'eresiarca e dell'apostata: con presunzione insana, orgogliosa e, se non fosse troppo scandalosa, immensamente ridicola, essi hanno eretto la fronte proterva contro il Vicario di Cristo, arrogandosi di dargli biasimo, di farglisi giudici, di condannarlo, di additarlo anzi al biasimo della Chiesa universale, e sostituirsi a lui nel magistero apostolico innanzi al popolo cristiano. Scandalo e aberrazione incredibile, che quasi non ha pari nella storia!
Lo sapevamo: l'avevano minacciato da lungo tempo, e ora da capo, all'uscire dell'enciclica Pascendi dominici gregis, erano tornati alle minacce: volevano farsi sentire, far parlare di sè, farsi temere! E tutto era da temere da giovani che hanno il sacerdozio della Chiesa, che mangiano del pane della Chiesa; ma non hanno lo spirito, non l'amore della Chiesa. Tuttavia per l'amore dei nostri fratelli, per la salute di tante anime, volevamo sperare fino all'ultimo, che si sarebbe risparmiato al nostro popolo questo scandalo, al clero italiano questa vergogna, questo tripudio ai nemici di Dio e della Chiesa, questa cagione di nuove amarezze al cuore del Papa. — Non fu vero: anche questa volta, come tutte le volte che demmo più benigna interpretazione alle parole dei modernisti, che sperammo da loro migliori cose, anche questa volta c'ingannammo dolorosamente: il loro contegno fu ed è anzi peggiore, sotto ogni rispetto, di quanto si poteva aspettare. 

Il Papa aveva parlato: dopo le miti ammonizioni, dopo le esortazioni paterne, dopo i richiami ripetuti e la lunga aspettazione, deluso nelle sue speranze, aveva infine additato il pericolo e il danno che dalle pestifere dottrine e dal morboso contagio della propaganda e dell'esempio di alcuni suoi figli, derivava alla Chiesa tutta, insidiando al deposito sacro della fede, di cui è suo diritto, non meno che terribile dovere, la vigilantissima custodia. Da questo, e da questo solo — ben lo sanno i modernisti — come esordisce l'enciclica, così muove l'atto di Pio X: «L'officio divinamente commessoci di pascere il gregge del Signore, fra i primi doveri, imposti da Cristo, ha quello di custodire con ogni vigilanza, il deposito della fede.» Per questo il Pontefice aveva denunziato gli insidiatori occulti, i nemici domestici; per questo aveva esposto distesamente le dottrine più riprovevoli che hanno corso fra cattolici, laici e chierici: per questo aveva prescritto i rimedii di preservazione. Ma non aveva nominato alcuno: aveva anzi, negli stessi passi più severi, ammessa la possibilità di migliori intenzioni, nonchè di ravvedimento, negli erranti: aveva con ciò aperta loro la via del ritorno e, per così dire, del trionfo; perchè trionfa sempre chi cede alla verità, vincendo l'orgoglio dell'errore. Non dunque «requisitoria feroce» — come scriveva uno di loro nel Giornale d'Italia — era l'enciclica del mite Pio X: era una parola forte e addolorata, che, se feriva, non feriva a morte, ma a salute; o più veramente feriva a morte l'errore per dare la salute agli erranti.
La voce del Papa quindi, come dicevamo subito dopo la condanna del modernismo [1], era voce di padre, di pastore, di maestro, di capo della Chiesa e di legislatore supremo, voce autorevole e sacra che insegnava e prescriveva, nè solo in punto di disciplina, ma in materia dottrinale, dogmatica. E quando parla questa voce autorevole e sacra del Padre universale, si fa silenzio nella famiglia cristiana: i figli genuini l'ascoltano tutti; e quando suoni rimprovero, l'ascoltano addolorati e compunti, ma sempre fiduciosi, riverenti. E più quando il grido del Pastore risuona angoscioso tra il frastuono della bufera che si appressa, l'ascolta il gregge trepidante e lo discerne fra le mille voci discordanti e, se sbandato, si affretta di seguirne il richiamo. Oves meae vocem meam audiunt: [«Le mie pecorelle ascoltano la mia voce», Ioann. X, 27. N.d.R.] Chi non l'ascolta corre al precipizio, alla rovina. 

E ben lo sanno i fedeli tutti: quella voce è come la parola del Signore, di cui è l'eco, «parola viva e penetrante, che s'interna fino alla divisione dell'anima e dello spirito», [Hebr. IV, 12 N.d.R.] ma solo per recarvi luce, refrigerio e vita. Sanno i fedeli tutti che anche quando la voce sacra del Papa non risuona in tutta la forza dell'autorità sua infallibile, ha diritto nell'uso del suo magisterio autentico, ordinario e solenne, al nostro ossequio, all'assenso cioè, non solo esterno, ma interno e sincero. E sanno infine che questo ossequio è per ognuno dovere strettissimo, elementare, di cattolico.
Ma non sanno più, non intendono più nulla di tutto ciò i modernisti. Alla voce del Padre essi rispondono con il dispetto del figlio oltracotante e riottoso: alla voce del capo e del pastore con l'albagia del servo contumace che vuol soprastare, con la insipienza del cieco che vuol guidare, con la precipitanza del gregge protervo che vuol correre da sè ai pascoli dell'errore. Peggio ancora: alla voce del maestro e del giudice della fede e della dottrina rispondono col biasimo dello scolaro ignorante che si arroga di correggere il maestro, del colpevole che presume giudicare il giudice: alla voce del legislatore finalmente con la baldanza del suddito ribelle che morde il freno della legge e ricalcitra dispettosamente. Peggio ancora: pensando alla condizione loro, di sacerdoti, di figli prediletti della Chiesa, cresciuti da lei tanti anni, a tanto suo costo, all'ombra dei suoi altari, la Chiesa dovrà ripetere le parole sacre, con lamento più doloroso: «Ho nutrito dei figli e li ho esaltati: ed essi mi hanno sprezzata» [2].

È doloroso spettacolo, certo, il vedere questo stuolo di ribelli, piccolo ma baldanzoso, con la serenità infinta, con la franchezza affettata del primo traditore di Cristo avanzarsi verso il maestro quasi per dargli il bacio figliale. Ma al richiamo angoscioso del Maestro, quegli non rispondeva se non col silenzio; questi vogliono rispondergli con la parola del miele su le labbra, dalla quale schizza il veleno del cuore, erompe lo sfogo dell'orgoglio ferito.

È doloroso: ma istruttivo; diremmo quasi, per qualche rispetto, è salutare, è provvidenziale nella permissione divina: il gesto dei modernisti riesce la prova più lacrimevole e più triste, ma insieme la più perentoria, della verità di tutte le denunzie, che apparvero così gravi, così esorbitanti ad alcuni, anche dopo l'enciclica; è la giustificazione piena della sua troppo giusta severità; la dimostrazione purtroppo apodittica dei pericoli e degli errori più enormi, che molti credevano sogno delle nostre immaginazioni, o almeno esagerazione di meticolosi «custodi dell'ortodossia». E ciò appare, sia che si consideri il loro atteggiamento, il loro metodo o indirizzo, la loro condotta, la loro dottrina: in tutto, col loro programma, col loro sforzo di risposta all'enciclica [3], essi danno, loro malgrado, alla parola del Papa una conferma, agli illusi una lezione, a se stessi una mentita solenne. 

Si giudichi fino dalla prima introduzione, in cui si affannano a provare «la necessità di una spiegazione», cioè a giustificare il loro atteggiamento e la loro condotta. Si proclamano «figli devoti della Chiesa; obbedienti all'autorità in cui vediamo (dicono essi) prolungarsi il ministero pastorale degli apostoli...» e intanto l'atto dell'autorità accusano come «un tentativo studiato di presentare al pubblico le dottrine modernistiche sotto una luce falsa e antipatica» [4]; la condanna come «violenti accuse» sotto cui non possono rimanere impassibili [5]; la confutazione come una «sfida polemica» che essi hanno non solo il diritto ma il dovere di raccogliere [6]; le leggi di disciplina vigente come «tradizionali pretese teocratiche» le quali «urtano oggi i più elementari sensi di responsabilità personale» [7]. Quindi, proclamano essi, «non mendichiamo scuse; tanto meno crediamo dover mendicare un perdono». Ah, sono troppo innocenti i nostri modernisti! Nè pure appellano più dal Papa al Concilio: così usavano gli antichi eresiarchi: i modernisti «invocano il giudizio dei fratelli, e anche attendono il giudizio della storia». Si direbbe che, come tutti i colpevoli, particolarmente i ribelli, gli eresiarchi, gli apostati, non hanno troppa fretta di sottoporsi a giudizi! 

Ma ne hanno in compenso molta di pronunciarne; e li pronunciano categorici, solenni, orgogliosi, di biasimo e di condanna tutti, contro la Chiesa, contro il Papa, contro i loro stessi fratelli, a cui pure appellano quando loro fa comodo. Contro la Chiesa giudicano che «lunghi anni di inerte isolamento le hanno fatto smarrire ogni efficacia sociale» [8]; e chiudono gli occhi, i miserabili, alla grande opera ristoratrice che la Chiesa va continuando nel mondo, a dispetto delle persecuzioni dei nemici aperti e dei traditori, degli increduli e degli eretici, dei tiepidi, dei turbolenti e degli inerti fra i suoi figli; chiudono gli occhi alla storia. Peggio, chiudono gli occhi alla vitalità divina e alla divina missione della Chiesa, quando insinuano che possa essere l'una «insidiata dai germi di una decomposizione imminente», l'altra «ridotta alla vigilanza sospettosa sulla fede semplice e rozza dei suoi scarsi seguaci superstiti» [9]; e ciò nel caso, che «la Chiesa a lungo ritenga il loro programma, come deleterio»; in altre parole più semplici, nel caso che non si ricreda, che non li ascolti; perchè il loro programma «è per la Chiesa l'unica via di successo» [10]. Occorrono forse commenti a dimostrare quanto sia lontano dal cattolicismo chi ha della Chiesa un concetto così naturalista, e di più così ingiurioso, così abietto? chi ne fa dipendere da simili spropositi «il successo, la vitalità, la missione», dimenticando che la Chiesa è società indefettibile e divina? Sono empietà coteste, se non fossero, come vorremmo sperare ancora, fantasie sfrenate di giovani squilibrati, di sognatori incoscienti, o troppo «vibranti all'unisono con la coscienza contemporanea» degli increduli, mentre «ogni impressione ed ogni episodio esteriore si fissa nel diaframma del loro spirito (com'essi ci assicurano) e arricchendolo lo trasforma» [11].
Perciò vorrebbero, i meschini, che anche la Chiesa vibrasse all'unisono, vibrasse col diaframma del loro spirito, ella pure, e si trasformasse adattandosi alla coscienza, all'anima moderna «così dissimile dall'anima medievale»; poichè — insistono essi — «la coscienza umana collettiva come la coscienza individuale, non attraversa nella sua storia due istanti che perfettamente si equivalgono... l'esistenza è movimento» [12]. Insomma vorrebbero una trasformazione, che è l'evoluzionismo religioso più labile, più insussistente, più radicale, a cui niuna eresia giunse mai. Così, i buoni figliuoli, intimano alla madre l'alternativa, o correre con essi e trasformarsi, o restare immutabile e perire! 

Nè meno protervi si mostrano nei loro giudizi contro il Padre comune, Capo della Chiesa e Vicario di Cristo, sebbene li esprimano talora con ostentato sforzo di mitezza apparente, d'insinuazione o d'ironia velata, come l'allusione «al gesto solenne» di «chiudersi nei ricordi della teocrazia politica e intellettuale del medio evo», all'«atteggiamento di ritorno al passato» che ha «i caratteri di un isterilimento» a cui il Papa verrebbe a condannare l'istituzione da lui governata, e simili [13]. Così essi fino dal primo capitolo; e nel corso del libello poi alzano anche il tono dell'irriverenza e dell'oltraggio.
Similmente contro i loro fratelli, contro i cattolici tutti, alzano tribunale cotesti «umili» modernisti, fino dalle prime pagine, e sentenziano: «Per una serie di circostanze i cattolici hanno perduto ogni elementare senso di responsabilità e di dignità personale»: la loro non è «sudditanza ragionevole e quindi giudicatrice»: è «dedizione incosciente degli irresponsabili» [14]. I modernisti soli omai hanno qualche senso di dignità personale: sì che credono proprio «di compiere un grande bene alla Chiesa, rompendo questa triste catena di abusi e di rinunzie, e discutendo con umiltà (!) ma energia le loro posizioni, condannate perchè poco conosciute dall'autorità che ci governa» [15]. Orgoglio incredibile, si direbbe, dell'eresiarca che si accieca!
Eppure, soggiungono essi con l'orgoglio misto all'ipocrisia: «In questa maniera, noi non facciamo che seguire l'esempio di quei grandi figli della Chiesa che non dubitarono nei momenti di crisi portare all'autorità il sussidio leale dei loro ammonimenti e dei loro rimbrotti». Nientemeno! Chi lo crederebbe? — Ma dai «grandi figli della Chiesa» che essi sono, tutto è da aspettarsi! — E qui spropositano costoro sul fatto di S. Colombano, accennato già da uno dei loro sul Giornale d'Italia; riportano con mal celata compiacenza e molto libera traduzione le parole più ardite da lui scritte a Bonifacio IV, non tutte certo commendevoli o da prendersi a modello per ogni caso generale. Ma lo sfogo privato e figliale del rude monaco irlandese non può valere di scusa ai modernisti, i quali vogliono distrutto il dogma e con tutto lo scandalo della moderna pubblicità insorgono contro la Chiesa; laddove per difendere la Chiesa appunto e il dogma da pericoli anche immaginarii il solitario di Bobbio ricorreva a quei suoi modi singolari, che solo la semplicità del monaco, la rozzezza dell'indole e dei tempi, lo zelo ardente per l'ortodossia valgono a spiegare, e che egli medesimo nella sua bonaria e commovente ingenuità scusa per la singolarità delle sue condizioni e per la «libertà della paterna consuetudine che lo fa ardito» [16]


Su riprovevoli dunque ed ereticali propositi si fonda l'atteggiamento pratico dei modernisti come il loro indirizzo speculativo, la loro condotta come il loro sistema. Nè altre sono le ragioni che adducono per mostrare la «necessità di una spiegazione» e la necessità del loro programma. Ma pessima fra tutte è la loro eresia fondamentale dell'evoluzionismo più estremo, già tante volte fulminato dalla Chiesa. Essi dichiarano fino dalle prime pagine — ciò che poi spiegano appresso più crudamente — che «tutto l'insegnamento di Gesù è una speranza religiosa»; che «la religiosità cristiana è un puro spirito di aspettazione nel trionfo di un divino regno di Giustizia e suscettibile di ogni rivestimento teorico che parta da presupposti idealistici».
Nè essi escludono punto i presupposti dell'idealismo trascendentale del Kant, dell'idealismo soggettivo del Fichte, dell'idealismo assoluto dell'Hegel, dell'idealismo empirico del Berkeley, dell'Hume, dello Stuart Mill e della loro scuola inglese: ma tutti li possono abbracciare, a mano a mano che loro li porti, nel suo torrente vorticoso di evoluzione, l'opinione corrente; e ciò per la ragione che soggiungono: «perchè tali presupposti (idealistici) sono oggi alla base dei nuovi atteggiamenti della filosofia». Se dunque intendono ciò che affermano, i nostri modernisti non sono più cristiani; sono infedeli. O al più, sono cristiani, alla maniera del famigerato chierico apostata del secolo scorso, Ernesto Renan, di cui qualche modernista si fa ora eco — inconsapevole, vogliamo sperare — in Italia. Il Renan infatti, dopo la professione di idealismo assoluto, cioè dire panteismo hegeliano, osava scrivere che «il vero spirito di Gesù è idealismo assoluto» [17]; e altrove, che il culto da lui voluto era «un culto puro, una religione senza pratiche esteriori, riposta tutta sopra il sentimento del cuore, sopra l'imitazione di Dio e sopra le relazioni immediate della coscienza col Padre celeste» [18]; «religione assoluta che nulla esclude, nulla determina se ciò non fosse il sentimento» [19]. E poichè in Gesù, — com'egli dice con parole che alcuni modernisti han fatto proprie, e sono già note ai nostri lettori [20] — «si attuò la più alta coscienza di Dio, che abbia giammai esistito in seno dell'umanità» [21], il Renan poteva soggiungere, e con lui i modernisti: «Nessuna rivoluzione ci potrà impedire dal rannodarci in religione alla grande linea intellettuale e morale, in capo alla quale brilla il nome di Gesù. In questo senso noi siamo cristiani, anche quando ci separiamo in quasi tutti i punti della tradizione cristiana che ci ha preceduto» [22]. Ecco un «rivestimento teorico della religiosità cristiana», a cui può far plauso il modernismo, perchè «parte da presupposti idealistici» per l'appunto!
Potevano i modernisti, in meno di dieci pagine d'introduzione, confermare con più dolorosa evidenza la verità delle accuse loro mosse e la giusta severità dell'enciclica?


Dovremmo ora venire alla sostanza del loro libello — esposizione del sistema del modernismo — in cui l'evidenza dei loro traviamenti appare in una luce sempre più spaventosa.
Ma sono tante e tanto spropositate le aberrazioni, come le confusioni di idee e di questioni le più diverse, che solo a enumerarle, nonchè a discuterle, sarebbe necessario ben più di un articolo. Basti per ora, — dovendovi ad altro tempo ritornar sopra più partitamente — darne qui un sunto rapido, ma fedele: più che sufficiente, del resto, a provare ciò che abbiamo asserito da principio, come questa risposta riesce ad una involontaria conferma dell'enciclica, contro cui si scaglia acerbamente.
I modernisti vogliono anzitutto che la critica, non la filosofia, sia il presupposto del modernismo, e chiamano l'asserzione contraria dell'enciclica, «equivoco, asserzione falsa, un'abile mezzo polemico, ripiego molto comodo, terreno fragile e insidioso» su cui non possono seguirla, e via via: presumono dimostrar ciò con ragione intrinseca, che la critica prescinde da ogni presupposto filosofico, e con prove estrinseche di fatto, quali le «mirabili Histoires critiques» di Riccardo Simon, l'opera anonima di Giovanni Astruc, e i «magnifici studii» del Loisy; infine conchiudono che per ciò «non ritengono opportuno seguire passo per passo l'enciclica nella pittura fallace che fa del modernista come filosofo, credente, teologo, critico, apologeta, riformista, e contrapporre a ciascun capo la confessione sincera dei loro modesti intenti e delle loro vere idee». Anzi protestano di «essere i primi a dichiarare alto e forte di non avere alcuna sintesi definitiva, ma di procedere faticosamente e non senza titubanze» ecc., che la loro filosofia è «tuttora timida ed incerta», «tuttora così indecisa» tutta «ipotesi generali, che essi vanno timidamente enunciando» e via dicendo.
Questa ultima confessione è preziosa, ma non si accorda con la pratica, nè si concilia con la baldanza, onde hanno parlato e prima dell'enciclica e poi, onde parlano in questa stessa risposta: i nostri lettori ne sanno qualche cosa. Molto meno è leale l'atteggiamento loro e il proposito di non farci mai, una buona volta, «la confessione sincera dei loro modesti intenti e delle loro vere idee» su tanti altri punti loro rimproverati dall'enciclica, tra cui ve ne sono di così delicati e vitali. 

Ma di ciò hanno certo le loro ragioni; e si capiscono troppo: quelle altre ragioni che portano, essere «la critica il loro presupposto», e il modernismo «un metodo, o meglio il metodo critico applicato come di dovere, alle forme religiose dell'umanità in genere, e al cattolicismo in ispecie» — sono un «ripiego molto comodo, un abile mezzo polemico»; sono tutto ciò che vogliono, salvo la verità. La verità sincera è questa sola, che essi mirano a spostare la questione, come suol dirsi, a gettare polvere negli occhi agli inesperti di tali controversie, a oscurare questioni chiarissime con le ombre di altre più difficili, più discutibili o discusse. Quindi viene, a esempio, quel loro divagare su la controversia del comma giovanneo dei tre testimoni, e la risibile baldanza, con cui ne parlano e conchiudono che a tale studio «non occorre alcuna speciale dottrina filosofica». Chi non lo sa? Ma con questo hanno forse provato di non averla essi, di non procedere essi da «nessun presupposto»? Ora qui sta il punto: e non ci hanno che fare gli esempii dei Simon, degli Astruc, molto meno del Loisy, i cui presupposti filosofici sono omai troppo notorii [23].
Ma per non andare in lungo, i modernisti convengono tutti, e lo confessano qui implicitamente, nel «presupposto» radicale di applicare la spiegazione stessa naturalistica (per eufemismo la chiamano «un metodo, o meglio il metodo critico») alla religione soprannaturale, al cattolicismo, come a tutte le forme religiose dell'umanità. Ossia, presuppongono sempre coi razionalisti l'esclusione del fatto della rivelazione propriamente detta, anzi di tutto ciò che è soprannaturale, dalla scienza e dalla storia. Da ciò sgorga tutto un sistema di filosofia naturalistica, anche loro malgrado. 


E siffatta filosofia o mentalità naturalistica traspare da ogni punto della loro esposizione intorno ai supposti «risultati della critica biblica e storica», prima intorno al Vecchio Testamento, segnatamente intorno all'autore e alle origini del Pentateuco — dove non manca l'insulto plebeo di profonda ignoranza ad uno dei segretarii della Commissione biblica, anzi a tutti i consultori teologi ed agli stessi cardinali; — di poi intorno al Nuovo Testamento, dove ci ricantano tutte le conclusioni dei razionalisti più estremi, anche quelle, ad es. già rifiutate dall'Harnack stesso, che negano a S. Luca la paternità del terzo Vangelo e degli Atti. Di questi e simili pretesi «risultati» si potrebbe dire non a torto che solo una «profonda ignoranza» congiunta a un'eguale superbia può spacciarli in tal modo come irrefragabili ed evidenti. Ma quando pure si ammettessero — come crede di poterli ammettere, in parte, anche qualche cattolico sincero — non sarebbe lecito dedurne le conclusioni estreme della filosofia e teologia del modernismo.
Su queste conclusioni si stendono i modernisti ampiamente nel loro programma, e ne formano tutto un sistema loro proprio, già da noi denunziato altrove nelle sue linee generali [24]. Essi infatti proclamano qui altamente la «necessità di cambiare il concetto di ispirazione, di rivelazione e d'introdurre quello di evoluzione religiosa, e di distinguere, per quel che riguarda il Nuovo Testamento, tra la storia reale e la storia interna, tra il Cristo storico e il Cristo mistico o della fede» [25]; un concetto nuovo di «tradizione cattolica, che è trasmissione vivente dello spirito religioso» e in essa rivolgimenti profondi ossia evoluzioni radicali. Quindi, per sostenere la fede, sorge necessità «del concetto di una permanenza del divino nella vita della Chiesa» per la quale ogni nuova formulazione dottrinale (ogni dogma cioè, ogni verità definita), ogni nuova istituzione giuridica (Chiesa, episcopato monarchico, primato del Papa, ecc.) sono giustificate solo «in quanto mirano più o meno consapevolmente alla conservazione dello spirito religioso del Vangelo», non in quanto procedano propriamente da Cristo, come autore. 

E su ciò essi dicono apertamente che alle origini del cristianesimo, non hanno trovato «sia pure in germe le affermazioni dogmatiche formulate lungo i secoli dal magistero ecclesiastico»; ma solo «una forma religiosa che amorfa e adommatica nei suoi principii, è venuta lentamente sviluppandosi verso forme concrete di pensiero e di rito ecc.». E questo lento «sviluppo» spiegano, sulle tracce dell'Harnack e del Loisy, come una successiva trasformazione del messaggio evangelico, onde «il cristianesimo si è diffuso adattandosi alla mentalità e alla educazione spirituale di ogni regione e assimilando da ciascuna gli elementi migliori per il suo sviluppo». E appresso, ci ripetono che «tale elaborazione investì innanzi tutto i dogmi che sono stati poi fondamentali nel cattolicismo, il dogma trinitario e il dogma cristologico e la organizzazione della Chiesa» [26]. E con tutto questo, benchè lavorio umano, «le formulazioni del passato e quelle dell'avvenire sono state e saranno ugualmente legittime, purchè rispettino fedelmente il bisogno della religiosità evangelica». Che si può dire di peggio? cioè di più ereticale, anzi razionalistico nella sostanza, di più ipocritamente insidioso nella forma?
Ecco dunque confermata dai modernisti, espressamente, e peggiorata anzi, tutta la gravità delle accuse loro mosse dall'enciclica per la parte della fede e della teologia, segnatamente quella di un evoluzionismo o trasformismo radicale, tutto derivato da quella loro metafisica darvinistica dei «bisogni».

Passano poi essi alla filosofia e all'apologetica loro, negando che «le attribuzioni filosofiche che l'Enciclica loro fa» o siano esatte, o nella parte in cui sono esatte, siano anticattoliche. Nell'una cosa e nell'altra la loro difesa riesce anche qui ad una vera condanna. Riconoscono infatti di essersi incontrati con la tendenza immanentistica, cioè la dottrina positiva su cui maggiormente preme l'enciclica, essendo fonte di tutti gli errori.

 Poichè, secondo questa — riconoscono i modernisti qui stesso, come già altrove [27] — «nulla può penetrare nell'uomo se non scaturisce e non corrisponde in qualche modo a un bisogno di espansione; non vi è per lui verità fissa o precetto ammissibile che non sia in qualche modo autonomo ed auctoctono». L'uomo dunque si foggia la verità, come si foggia la legge, e la muta a suo talento; e ciò secondo un principio anche peggiore dell'autonomia kantiana, il quale principio, per distrigarsene, si avviluppa sempre più nella confusione babelica dell'idealismo trascendentale.
Dopo ciò — per chi bene intende i termini — di verità, di cognizione obiettiva, di realtà esteriore corrispondente al concetto, è inutile parlare: siamo in pieno scetticismo, o come parlano i modernisti già da noi citati tante volte, siamo in uno «sfiduciato agnosticismo». Eppure qui i modernisti, dopo il passo recato sopra, scrivono un paragrafo dal titolo ingenuo: Siamo noi agnostici? e hanno il coraggio di negarlo e di accusare «le contraddizioni in cui cade l'Enciclica», le quali sono invece tutto vizio insanabile della loro filosofia, che essi stessi hanno detto «così indecisa», così titubante, quando ne vedevano messa a nudo l'assurdità.
Distinguono, è vero, con sussiego quattro ordini di conoscenze: fenomenica, scientifica, filosofica, religiosa; ma in ognuno inoculano il germe dello scetticismo, comprovando l'accusa loro mossa di fenomenismo agnostico. E della conoscenza fenomenica è chiaro: la scientifica poi «applica ai gruppi dei fenomeni percepiti il calcolo»; la filosofica «l'interpretazione dell'universo secondo alcune categorie connaturali allo spirito e rispecchiante le esigenze profonde e inalterabili dell'azione»: la religiosa «l'esperienza attuale del divino operante in noi e nel tutto», esperienza, come più sotto la chiamano «interna ed emozionale»; la quale «esce appunto dall'interessamento della coscienza e dalla vibrazione dell'essere morale all'unisono con la parola del divino», secondo il limpido loro linguaggio.

 Nulla dunque che penetri nella vera essenza delle cose, nulla che scopra ciò che sostenta il fenomeno esteriore, o sottosta all'apparenza, nulla che ne attinga la natura e le cagioni. Nulla insomma, nel loro quadruplice ordine di cognizioni, che meriti nome di conoscenza, come nulla è di veramente obiettivo e conforme a realtà. Infatti, più sotto ci assicurano di «accettare la critica della ragione che Kant e Spencer hanno fatto» [28]; anzi soggiungono che la ragione appare come uno strumento di formulazione e di definizione, di cui gli istinti dell'essere umano si servono per un processo inconsapevole ecc. Quindi negano essi «ogni valore» agli argomenti portati dalla metafisica scolastica a dimostrare l'esistenza di Dio, come rigettano la testimonianza del miracolo e delle profezie: «fatti questi che urtano la coscienza contemporanea». E se questo non è radicalmente scetticismo o agnosticismo, che cosa sarà?
Nè vale il loro dire, che lungi dal ricorrere alla testimonianza aprioristica della ragione pratica, «segnalano nello spirito umano altre vie per raggiungere il vero». Non vale, perchè nè essi le dichiarano mai bene, queste vie; nè, quali esse sieno, essendo fuori della ragione, soggettive tutte e immanenti, senza ordine alcuno o relazione all'oggetto, non possono trascendere alla cognizione della realtà esteriore. E di più, negato il debito valore alla ragione speculativa e pratica, è futile attribuirlo ad altra facoltà conoscitiva, per esempio al loro «senso illativo», o voler sostituito al realismo logico l'intuizionismo mistico, o peggio, confondere, come essi fanno, il loro assurdo immanentismo con l'argomento desunto dalla coscienza, o con l'argomento morale degli scolastici. L'incoerenza è manifesta. 
 

Si moltiplicano poi le contraddizioni e le eresie, quando i modernisti, spiegato il loro immanentismo, ne esaltano «i caratteri e le conseguenze» ingegnandosi anche a stravolgere le definizioni del Vaticano; quando vogliono difesa l'opera di trasfigurazione e di sfiguramento da essi attribuita alla fede, circoscrivendola all'ordine gnoseologico, cioè della cognizione — il che non toglie, anzi implica l'errore formale — e quando infine passano a discutere questioni particolari, cioè il valore comparativo delle religioni, le relazioni tra scienza e fede — in cui trovano molto zoppicante la logica dell'enciclica, mentre la loro stramazza ad ogni passo — da ultimo la separazione tra Stato e Chiesa, da essi altrove impugnata, qui difesa accanitamente.
In tutto accumulano errori ed anche eresie aperte: sicchè questo programma di risposta, o piuttosto di conferma all'Enciclica di Pio X, è veramente una «sintesi di tutte le eresie».
Ed è curioso vedere come in questo giudizio concorrano tutti «i competenti di varie tendenze» anche acattolici, dei quali un Giornale notoriamente liberale, la Stampa di Torino, riassume le conclusioni in queste giudiziose parole:
«Tutto il piano di difesa dimostrerà quel che si vuole, meno la tesi da opporsi all'enciclica. Questa, infatti, può aver parlato di preconcetti ed apriorismi dei modernisti, ma la tesi sostanziale del documento pontificio è che il modernista non può essere cattolico e che le dottrine moderniste non sono cattoliche. Una sola proposizione non è confutata, ma confermata dall'opuscolo modernista, il quale, per citare uno dei tanti esempi, dichiara che la Chiesa in principio era amorfa e adogmatica, cioè senza forma organica e senza dogmi (proposizione che suona un'eresia non solo per i cattolici, ma anche per gli ortodossi orientali ed anglicani e per quasi tutti i protestanti), quale è l'altra proposizione, che nella Chiesa ormai tutto è cambiato, meno lo spirito del Vangelo. Dunque sono cambiati anche i dogmi, se non le formule, almeno il senso di questi! Altra proposizione che tutte le Chiese cristiane riprovano. È quindi da prevedersi che gli organi del Vaticano avranno facile il còmpito di rilevare una simile confusione dei modernisti, i quali forse proveranno un po' tardi che il silenzio è d'oro...» 


La scomunica fulminata contro di loro dal Capo della Chiesa [29] li ha messi omai fuori della Chiesa: non possono più essere dannosi ad altri che a se stessi e a quegli incauti che vogliano con essi correre alla rovina.
E che già vi siano caduti, i miseri, ben profondo, lo mostra il disprezzo pubblico, che ostentano della scomunica, già enunziato nella conclusione del loro programma di ribelli.
Ma anche questa conclusione, se non potesse spiegarsi come fenomeno strano di cecità e d'incoscienza propria d'ingegni squilibrati, dovrebbe dirsi un misto orribile d'empietà e di ipocrisia, non solo da eretici, ma da infedeli.
Dopo tante negazioni infatti, più o meno aperte ma non perciò meno radicali e spietate, di tutto ciò che è più caro all'anima cristiana, di ciò che è vita della nostra vita — fino alla divinità di Cristo, al valore della sua morte espiatrice, all'istituzione divina della sua Chiesa, ad ogni dogma più sacro insomma — si atteggiano a mistici e piangono e protestano «il più spasimante dolore», perchè «l'enciclica li ha purtroppo chiamati nemici della croce di Cristo». Anzi, hanno il tristo coraggio di tornare a dichiararsi «i più devoti e più volenterosi figli» della Chiesa, mentre dopo averla coperta di fango, ne sfidano ancora le condanne tutte, coprendosi del manto della loro «coscienza tranquillissima» e «di alcune parole luminose» di S. Agostino, che essi riportano quasi a conclusione della loro difesa; ma che non veggono o fingono di non vedere quanto siano loro contrarie. Ed è questa un'ultima prova della loro insipienza.
S. Agostino ricorda in quel luogo [30] bonos viros i quali sono talora espulsi dalla communità cristiana per le turbolente sedizioni di uomini carnali (come è noto dalla storia delle controversie ariane segnatamente); ma portano questa contumelia o ingiuria in grande pazienza per la pace della Chiesa, senza attentare «ullas novitates vel schismatis, vel haeresis... sine ulla conventiculorum segregatione usque ad mortem defendentes et testimonio iuvantes eam fidem, quam in Ecclesia catholica praedicari sciunt.» [«... di dar vita a qualche novità o scisma o eresia... difendendo fino alla morte, senza ricorrere a segrete conventicole e giovandosi della loro testimonianza, quella fede che sanno predicata nella Chiesa cattolica.» N.d.R.] Ora i nostri leali modernisti hanno soppresso nella loro versione il vocabolo novità, e più colpevolmente quello della riunione delle conventicole: che sono appunto un'anticipata condanna del loro contegno. Ma peggio hanno fatto a non profittare delle parole non meno «luminose» che immediatamente precedono, e dimostrano ad evidenza come tale testo non si applichi alla S. Sede che li ha condannati, bensì a certi modernisti ribelli; giacchè S. Agostino insegna nel capo stesso di quali uomini carnali egli intenda, di quelli cioè che secondo la carne vivono o pensano, errando o nella fede o nei costumi (viventes aut sentientes carnaliter); e insegna di più come la Chiesa si serva anche degli erranti ai suoi progressi e alla loro correzione: altri invita, altri esclude ecc., ma a tutti dà potere di partecipare alla grazia di Dio...

 E infine, quanto agli uomini carnali, qui non potuerunt corrigi aut sustineri, S. Agostino dice alto che tamdiu sustinetur peccator aut error cuiuslibet, donec, aut accusatorem inveniat, aut pravam opinionem pertinaci animositate defendat. Exclusi autem aut poenitendo redeunt, aut in nequitiam male liberi defluunt, ad admonitionem nostrae diligentiae; aut schisma faciunt ad exercitationem nostrae patientiae; aut haeresim aliquam gignunt ad examen sive occasionem nostrae intelligentiae. [... che non è stato possibile correggere nè tollerare... il peccatore o l'errore di chicchessia è tollerato fino a che l'uno trovi un accusatore o l'altro difenda la sua perversa opinione con pertinace animosità. E gli esclusi o ritornano pentiti o, con malo uso della libertà, si perdono nella dissolutezza, ad ammonizione della nostra diligenza; o suscitano scismi a prova della nostra pazienza; ovvero escogitano qualche eresia a saggiare la nostra intelligenza. N.d.R.]
E nel libro secondo contro i Donatisti, riafferma che gli spirituali ibi magis probantur quam si intus permaneant, cum adversus Ecclesiam nullatenus eriguntur sed in solida unitatis petra fortissimo charitatis robore radicantur [31]. [«... ivi danno prova maggiore che se vi restassero dentro, quando non si erigono in nessun modo contro la Chiesa, ma si radicano sulla pietra solida dell'unità con la robustezza gagliardissima della carità.» N.d.R.]
Dopo ciò, chiunque ha fior di senno può giudicare da sè con quanta ragione gli sciagurati libellisti ricorrano all'autorità di S. Agostino e quanto siano essi veramente radicati con la robustezza gagliardissima della carità nella pietra solida della unità.
Quale cieca aberrazione!
_________________
NOTA.
Avevamo corretto già le stampe di questo articolo, quando ci giunse l'ultimo numero del Rinnovamento di Milano (settembre-ottobre), pieno tutto di fiele contro l'enciclica. Nella sostanza si accorda apertamente col programma dei modernisti, ma nella violenza della forma e nella irriverenza del linguaggio lo passa di molto; e trascende con Igino Petrone (L'enciclica di Pio X) a stravolgimenti indegni dello spirito e del senso della enciclica, con Romolo Murri (L'enciclica «Pascendi» e la filosofia moderna) a minori confusioni ma ad allusioni maligne, con Giorgio Tyrrel (Il Papa e il modernismo, due articoli tradotti dal Times) a villanie stomachevoli; con un anonimo infine, o col triumvirato stesso della Direzione, nella solita «cronaca di vita e di pensiero» (L'enciclica circa le dottrine moderniste) a uno sconcio di pretesa confutazione. Conclusione di tutto ciò è quella espressa dal Petrone: «la linea di condotta che il modernismo, e più apertamente il laicale, adotterà, può essere trascritta in questa formola: una rispettosa, se vuolsi (?), ma ferma e tenace resistenza».
Ecco il programma dei modernisti ribelli! 

Prospetto degli articoli della Civiltà Cattolica sul modernismo: Fascicolo Data: Anno Volume
Del progresso evolutivo nella Chiesa Cattolica 1345 26 giugno 1906 57° III
L'evoluzione della Chiesa 1348 8 agosto 1906 57° III
Della evoluzione del dogma 1350 4 settembre 1906 57° III
Decreto Lamentabili, testo, traduzione e commento 1371 24 luglio 1907 58° III
Enciclica Pascendi testo latino 1374 18 sett. 1907 58° III
Enciclica Pascendi traduzione italiana 1375 28 sett. 1907 58° IV
La condanna del modernismo 1375 5 ott. 1907 58° IV
Il modernismo e il vecchio naturalismo 1376 9 ott. 1907 58° IV
Il modernismo filosofico (I parte) 1377 22 ottobre 1907 58° IV
Il programma dei modernisti ribelli 1378 6 nov. 1907 58° IV
Il modernismo filosofico (II parte) 1379 28 novembre 1907 58° IV
Motu Proprio Prestantia Scripturae Sacrae lat./it 1379 27 novembre 1907 58° IV
Il modernismo teologico (I parte) 1381 26 dic. 1907 59° I
Il modernismo teologico (II parte) 1382 8 genn. 1908 59° I
Il modernismo teologico (III parte) 1384 5 febbr. 1908 59° I
Il modernismo teologico e il Concilio Vaticano 1386 12 marzo 1908 59° I
Il modernismo teologico e il suo sistema di conciliazione 1388 10 aprile 1908 59° II
Il modernismo ascetico 1390 6 maggio 1908 59° II
Il modernismo apologetico 1391 29 maggio 1908 59° II
Il modernismo critico (I parte) 1395 22 luglio 1908 59° III
Il modernismo critico (II parte) 1398 9 sett. 1908 59° III
Il modernismo riformista 1401 29 ottobre 1908 59° IV

NOTE:

[2] Isai. I, 2.
[3] ****** Il programma dei modernisti. — Risposta all'enciclica di Pio X «Pascendi dominici gregis». Società internazionale scientifico-religiosa editrice. Roma 1908. — È un libello di pagine 238, in cui dopo l'esposizione del sistema modernistico, affatto parziale e subdola, si divaga in «questioni particolari» e in declamazioni nebulose, fondate sopra gli equivoci più enormi, come verremo man mano dimostrando nel processo della nostra trattazione sul modernismo. Seguono poi «impressioni e commenti», cioè articoli di giornali laici e scredenti, con approvazione più o meno espressa e solo qualche mite, carezzevole riserva — eccetto l'unico articolo del Corriere d'Italia, cattolico, il cui autore vi è schernito come «anima ingenua, che deve avere una bene scarsa conoscenza...» ecc.
[4] Pag. 5.
[5] Pag. 6.
[6] Pag. 9.
[7] Pag. 7.
[8] Pag. 7.
[9] Pag. 7.
[10] Pag. 11.
[11] Pag. 9. — Questa frase e teoria del diaframma non è nuova ai nostri lettori, e a quelli della Cultura Sociale dove si leggeva fino dal 16 ottobre 1905: «Ciascuno di noi è con la frase del Nietzsche, un ponte, una corda tesa, non verso il chimerico superuomo, ma verso l'Infinito sussistente; scendiamo nelle oscure penombre della nostra coscienza, sul cui diaframma riflettono i nostri atti ragionevoli». — Cf. Civ. Catt., quad. 1359 (2 febbr. 1907), p. 265.
[12] Pag. 9.
[13] Pag. 14.
[14] Anche qui gli insulti e gli errori non tornano nuovi, neppure nella forma gentile e serena. Cf. Civ. Catt., quad. (16 feb. 1907): Serenità e franchezza di critici. Così Romolo Murri gridava ai cattolici «con quanto aveva in gola» com'egli dice, questi carezzevoli epiteti: «siete così inetti, così ignoranti, così bestie qualche volta». E sono pure notorii i suoi concetti originali sopra la franchezza o sincerità nell'ubbidienza dovuta al Papa confutati già sul nostro periodico (Quad. 1344, 16 giugno 1906, p. 641-659).
[15] Pag. 12.
[16] «Indulgete mihi talia confragosa loca trasnatanti... libertas paternae consuetudinis, ut ita dicam, me audere ex parte facit... Nos enim, ut ante dixi, devincti sumus cathedrae Petri...» Epist. V, X (Migne, Patr. lat. LXXX, 279. — La libera e confidente semplicità di Colombano è suggerita dunque da vera devozione e da figliale amore al Papa e alla Sede Apostolica. Il che appare anche da precedenti sue lettere a S. Gregorio e a Bonifacio stesso «dolcissimo in Cristo Papa», come spicca da mille passi di questa, dissimulati abilmente dai modernisti, cominciando dalla stessa intitolazione, in cui il monaco si scusa di scrivere humillimus celsissimo, maximo, agrestis urbano, micrologus eloquentissimo ecc. — Ben altro è lo spirito e diverse le arti, con cui parlano di sè e del Papa i modernisti; con cui scelgono qua e là dalla lettera di Colombano le frasi staccate e le cuciscono insieme per il loro intento malvagio, con cui infine su queste pagine stesse (12-14) travisano la storia di un periodo assai noto (sec. VII), accusano «la debolezza di Vigilio», quella di Bonifacio IV, e «il torpore di Roma». Eppure sanno essi bene la vanità delle dicerie che accusavano allora il clero romano di nestorianesimo, come in altri tempi di altre eresie, come ai giorni nostri di modernismo. Leggerezza dunque o mala fede incredibile!
[17]  Vie de Jesus, p. 288.
[18] Ivi, p. 85 ss.
[19] P. 446.
[20] Cf. quad. 1355, p. 533; vedi anche quad. 1366, p. 424 ss.
[21] Vie de Jesus, p. 75.
[22] P. 447.
[23] Assai opportuno a sfatare queste pretensioni dei modernisti è il recentissimo articolo, intitolato appunto La critique traditionelle et les novateurs, di Mons. Chapon, vescovo di Nizza (nel Correspondant del 25 ottobre 1907), ov'egli dimostra assai vivacemente come «la critica non è nata ieri, secondo che molti dicono e credono ingenuamente; è anzi contemporanea dei nostri Evangelii, i quali senza di essa non si possono comprendere». E difendendo il Bossuet, secondo la bella opera di H. Lacombe (Sur la divinité de Jésus Christ. Controverses du temps de Bossuet et de notre temps. Paris, Tequi, 1907) fa vedere come anche Riccardo Simon non la faceva solo da critico ma da teologo e da filosofo, minacciando i fondamenti stessi della fede.
[24] Cf. Civ. Catt., quad. 1366 (18 maggio), p. 429. Di questo «nuovo sistema di dottrina religiosa» di rivelazione, d'ispirazione ecc., dicevamo che era «assai complesso e seducente per gli animi incauti, superficiali o incoerenti, sempre inchinevoli alle transazioni e ai compromessi, mentre non avvertono che sono tradimenti della verità». Le nostre parole parvero esagerazione, e qualche rassegna liberalesca ne fece la scandalizzata; ma ora si mostrano solo, come tante altre, purtroppo inferiori alla verità.
[25] Ivi, p. 23.
[26] Programma dei modernisti, p. 80. Cf. p. 74 ss.
[27]  Cf. Civ. Catt., quad. 1347 (4 agosto 1906), p. 270. Strana coincidenza anche questa! Le parole da noi allora criticate, di uno scrittore degli Studi religiosi e della Rivista storico-critica che le tradusse dal francese, si trovano qui ripetute con ammirabile fedeltà.
[28] Pag. 97.
[29] Vedi le Cose Romane del presente quaderno.
[Dalla Civiltà Cattolica, anno 58° vol. IV pag. 491-492: Cronaca contemporanea, Roma, 24 ottobre - 8 novembre 1907. Cose romane:
Condanna della risposta del modernisti alla Enciclica Pascendi.
Non appena messa in luce la pretesa risposta dei modernisti alla recente enciclica pontificia, l'Autorità ecclesiastica faceva di pubblica ragione il seguente decreto:
Petrus Tituli SS. Quatuor Coronatorum S. R. E. Presb. Cardinalis Respighi SS.mi D. N. Papae Vicarius Generalis, Romanae Curiae eiusque districtus iudex ordinarius etc.
Cum Nobis constet librum, qui inscribitur «Il programma dei Modernisti — Risposta all'Enciclica di Pio X Pascendi Dominici gregis edito in Roma dalla Societa internazionale scientifico religiosa coi tipi di A. Friggeri — Via della Mercede 28, 29 in Roma» in hac Urbe venundari; cumque eius lectionem christifidelibus scandalo et detrimento esse vehementer putemus; eum auctoritate nostra ordinaria, proscribimus atque proscriptum declaramus. Itaque nemini cuiuscumque gradus et conditionis Nostrae Iurisdictioni subiecto eumdem librum vendere aut legere vel retinere liceat sub culpa lethali.
Cum porro huius libri auctores et scriptores in adserta Responsione acriter tueantur systema, quod in Encyclica Pascendi dominici gregis — omnium haereseon conlectum esse — affirmatur; SS. Dominus Noster Pius PP. X per hoc decretum auctores et scriptores, ceterosque omnes, qui quoquomodo ad hunc librum conficiendum operam contulerunt, excommunicationis poena afficit, a qua Sibi soli absolutionem reservat. Addit SS. Dominus Noster, hoc decretum valere perinde ac si traditum esset in manus uniuscuiusque ex dictis auctoribus et scriptoribus, qui si sint sacerdotes et actum Ordinis exerceant, in irregularitatem incurrent.
Nil autem satius esset, ait SS.mus, quam ut omnes Episcopi, in sua quisque dioecesi, hanc proscriptionem indicerent et censuram promulgarent.
Datum Romae, die 29 octobris 1907.
PETRUS RESPIGHI, Card. Vic.
Franciscus Can. Faberi, Secret. 

Con questo decreto l'E.mo Cardinal Vicario proibisce sotto pena di peccato grave il vendere, leggere, ritenere il libro incriminato, proibizione che si estende, nessuno eccettuato, a tutti i fedeli soggetti alla sua giurisdizione. Esso contiene inoltre la scomunica per tutti e singoli gli autori, scrittori e cooperatori della risposta all'Enciclica pontificia, scomunica che il decreto dichiara incorsa immediatamente, senza bisogno di comunicazione ai colpevoli (per ora giuridicamente ignoti) riservata personalmente al Sommo Pontefice, al quale i rei dovranno rivolgersi nominatamente per l'assoluzione di detta scomunica. Si rammenta in esso ai sacerdoti colpevoli che se esercitassero un atto del ministero sacerdotale, (come la celebrazione della Messa) incorrerebbero nella irregolarita canonica, cioè nella inabilita all'esercizio di ogni ecclesiastico ministero.
Il decreto del Cardinal Vicario sarà pubblicato, come ce ne assicura l'Osservatore Romano, in tutte le diocesi d'Italia, ed i Vescovi applicheranno ai loro soggetti la medesima proibizione, in attesa di ulteriori disposizioni del Sant'Ufficio e dell'Indice. N.d.R.].
[30] De vera religione, VI, 11 (cf. Migne, Pat. lat., XXXIV, 127-128). I modernisti che cercano nell'enciclica col fuscellino, dovevano almeno nella citazione essere più esatti (citano sommariamente De ver. rel., V, I).
[31] De baptismo contra Donatistas, lib. II, c. 17. — Migne, Patr. lat. XLIII, 123 s.

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