La Civiltà Cattolica, anno XIX, serie VII, vol. IV (fasc.
446, 8
ott. 1868) Roma
1868, pag. 181-198.
R. P. Francesco Berardinelli S.J.
LA DOTTRINA DI S. ANTONINO
ARCIVESCOVO DI FIRENZE
INTORNO
ALLA INFALLIBILITÀ DE' PAPI
E LA LORO SUPERIORITÀ SUI CONCILII.
Un colto e zelante amico nostro e favoreggiatore del nostro
Periodico ne avvertì testè per lettera, che in Francia
spacciavasi per
prossima la pubblicazione di uno scritto di non ignobile penna contro
l'infallibilità dei Papi, e la loro superiorità sui
Concilii. Egli di
ciò non istupiva: poichè ben sapeva quanto i nemici o i
tiepidi amici
della Santa Sede fossero offesi o meravigliati di quelle protestazioni
di profondo ossequio, che alla suprema autorità del Pontificato
da
tutto il mondo cattolico s'indirizzavano nella persona del Beatissimo
Papa Pio IX. Natural cosa dunque dovea parergli che chi sentivasene
offeso per mal animo verso la Cattedra di Pietro, volesse svelenirsi
per via di stampa; e chi ne concepiva per freddezza di ossequio le
meraviglie, volesse quasi mettere gli altri sull'avviso, per timore che
non eccedessero di soverchio, allettati dall'esempio altrui.
Stupivasi bensì d'un nuovo argomento che avea udito essere sul
punto di
prodursi in mezzo. Dicevasi dunque da qualcuno che nel libretto, che
attendesi, verrà allegata la grande autorità del
dottissimo Arcivescovo
di Firenze, S. Antonino, come di colui che abbia in espressi termini, e
assai prima di qualsivoglia teologo francese, insegnato nelle sue opere
l'autorità del Papa sottostare a quella dei Concilii, nè
al Papa solo
potersi dalla Chiesa attribuire la prerogativa della
infallibilità. Questa citazione riuscivagli al tutto
inaspettata, e
quindi ci invitò ad esporgli o per via di lettera particolare, o
per
via di qualche articolo da inserire in questi quaderni, la nostra
opinione.
Il propostoci argomento ci sembrò meritevole di essere svolto
in un
breve lavoro, piuttostochè solamente accennato in una fuggevole
lettera. Conciossiachè sebbene non sia al tutto esatto che
quell'allegazione sia nuova, trovandosene qualche accenno nell'opera
del Bossuet in difesa della Dichiarazione del Clero gallicano,
tuttavia non è solita di prodursi dagli scrittori avversi alla
suprema
autorità del Papa nelle materie della fede; e però non si
suole dagli
apologisti esaminare nè la intenzione nè il testo di quel
Santo a
proposito di questa discussione. In secondo luogo è bene che
anche
prima che producasi la difficoltà dagli avversarii, venga essa
sciolta
dai difensori della infallibilità del Papa; affinchè si
vegga di quali
deboli armi debbansi quelli valere, e come piccola sia la
solidità di
loro dottrina. Ci si consenta adunque di esporre, il più
brevemente che
per noi si potrà, quali sieno gli insegnamenti di S. Antonino di
Firenze, intorno alla infallibità del Papa, e alla sua
superiorità sui
Concilii. Il che faremo dilucidando dapprima le tesi dirette e
positive,
che esso espone sopra una tal materia nella Somma teologica, e poi
riunendo insieme e spiegando alcuni testi o dubbii, o oscuri, o avversi
che quinci e quindi dalle sue opere possono trarsi.
Ci auguriamo che a quanti attendono a questa importantissima
questione,
debba riuscire gradita anche sol per se stessa la nostra breve
trattazione. Poichè trattasi di un Santo che fu contemporaneo ai
due
Concilii, quel di Costanza e quel di Firenze, ove appunto queste due
quistioni vennero o toccate o trattate: visse ai tempi dello scisma di
occidente, quando ogni sorta di argomento avverso ai Papi si produsse
in campo: e fu uomo non solo eminente per santità di vita, ma
eziandio
per eccellenza e vastità di dottrina, e per zelo episcopale. La
sua
autorità dovrà adunque avere gran peso, e merita di
essere sceverata
da qualsivoglia equivoco o dubbiezza.
I.
Se S. Antonino Arcivescovo di
Firenze abbia creduto infallibile il
Romano Pontefice, quando definisce ex cathedra le controversie della
fede.
Ricerchiamo in primo luogo la sentenza del S. Arcivescovo intorno
alla
quistione, che riguarda la infallibilità de' Romani Pontefici;
se egli
creda veramente, che quando essi come maestri della Chiesa definiscono
dottrine appartenerti alla fede e ai costumi, il loro insegnamento non
possa per verun caso andar soggetto ad errore. Andiamo pertanto a
interrogarlo nel luogo più proprio, là dove tratta ex
professo de'
Romani Pontefici, cioè nella terza parte della sua Somma
teologica.
Quivi in sul principio del titolo XXII, De statu Summorum Pontificum,
volendo innanzi tutto porgere una idea conveniente di quest'altissima
dignità, toglie ad argomento del primo capo le magnifiche parole
pronunziate profeticamente di Cristo nel salmo 8: Minuisti eum paulo
minus ab Angelis, gloria et honore coronasti eum, et constituisti eum
super opera manuum tuarum. Dimostra dunque che tutti i capi di
eccellenza, che sono nel detto salmo predicati di Cristo, si debbono
altresì intendere del Romano Pontefice, che Cristo stesso
lasciò in
terra suo Vicario. Egli è minore degli angeli per natura, ma
maggiore
per autorità e potestà; poichè l'angelo non
può nè sciogliere nè
legare, ed il Papa ne ha plenaria ed universale facoltà;
è coronato di
gloria e di onore, perchè posto all'apice di tutte le
dignità, e a buon
diritto gli avviene il titolo di beatissimo e santissimo; è
coronato
anche della grandezza dell'autorità, perocchè egli
giudica tutti e da
nessuno può essere giudicato: finalmente sta locato sopra tutte
le
opere delle mani di Dio, a fine che di tutte le cose disponga, come a
sè inferiori, disserri le porte de' cieli, condanni i rei
all'inferno,
ordini tutto il clero, e confermi l'impero.
In questo così sublime concetto, che il S. Dottore ci offre
del
Papato, sono compresi tutti i privilegi, di che Gesù Cristo
volle
arricchire il sommo Pontefice a bene della Chiesa; e sarebbe gran
meraviglia, se chi seppe così degnamente colorarlo, non vi
avesse poi
scorto quell'attributo, che è il fondamento degli altri e
più di tutti
necessario, cioè la infallibilità nelle sue solenni
definizioni. Ma
egli non ci fa desiderare a lungo più manifeste sentenze. Nel
capitolo
II, che ha per titolo De potestate
Papae in genere, ubi de potestate ordinis et iurisdictionis et
interpretationis, il primo argomento, benchè indiretto,
che
v'incontriamo, è un paragone che fa il
Santo fra il sommo Pontefice e il monte Sinai, a fin di provare che
come l'uno per divino precetto non potè dagli Ebrei esser tocco,
così
parimente l'altro debba essere inviolabile ai fedeli. «In questo
monte, egli dice, è figurato il Romano Pontefice, primieramente
per
una ragione generale; perocchè come per quel monte Iddio discese
al
cospetto di tutto il popolo de' Giudei; così Gesù Cristo
nella
legge nuova, mediante la potestà del sommo Pontefice, discende
come Dio
sopra tutto il popolo cristiano... In terzo luogo per ragione della
verità legale: poichè come dal detto monte fu data la
legge agli Ebrei,
così parimente dal Papa provengono tutte le leggi e tutti i
diritti
nel popolo cristiano [1].»
L'una e
l'altra di queste due ragioni di
confronto suppongono necessariamente la infallibilità nel Romano
Pontefice. Per lui, dice il Santo, Cristo si fa presente alla sua
Chiesa. Di qual presenza egli parla? Di quella senza dubbio, di cui
parlò lo stesso Salvatore, quando disse: Ecce ego vobiscum sum usque
ad consummationem saeculi [2].
Nelle quali parole tutti i Padri e
Dottori riconoscono la promessa che egli fece alla sua Chiesa di
esserle sempre presente col suo aiuto immediato, acciocchè non
errasse
nelle dottrine della Fede. Ora se questa presenza di Cristo, secondo
l'insegnamento di S. Antonino, si verifica per mezzo del sommo
Pontefice; in altri termini se il sommo
Pontefice fa presente Cristo alla Chiesa, acciocchè la Chiesa
non erri
nelle dottrine della Fede, è necessario che egli non possa
errare
nell'insegnare queste dottrine, ch'è quanto dire che sia
infallibile.
L'altra ragione, di confronto, addotta dal Santo, sta nella
verità
della legge promulgata sul Sinai; e si risolve in questo concetto:
che come il Sinai fu il mezzo per lo quale venne comunicata al popolo
ebreo la vera legge di Dio; così il Papa è lo strumento
per lo quale è
bandita al mondo cristiano la vera legge di Cristo. Ora la legge di
Cristo non contiene solamente i precetti da compiere, ma anche i dommi
da credere. Adunque, secondo il Santo, il Papa è quel mezzo che
è stato
costituito da Cristo per far conoscere agli uomini la verità
tanto de'
suoi precetti, quanto della sua dottrina. Il qual dovere egli non
potrebbe compiere, se non fosse dal medesimo Cristo assicurato da ogni
pericolo di poter insegnare il falso.
Ma più manifestamente nello stesso capitolo, prendendo a
dimostrare
che il sommo Pontefice è unico Capo supremo e Monarca nella
Chiesa, ne
reca tra gli altri argomenti uno, che è connesso
neceasariamente con questo privilegio della infallibilita. «Nella
università cristiana, egli dice, è necessario che sia
conformità per
rispetto a quelle cose, che appartengono alla verità della fede
ed ai
buoni costumi in ordine al conseguimento dell'eterna salute. Ma non
può ottenersi una sì fatta conformità, se non vi
è riduzione ad un
solo capo ed unico presidente, a cui spetti sentenziare quello che
è da
credere e quello che no. Il qual principato è sì
fattamente uno, che
non può esser diviso da niuna umana autorità [3].» Ecco adunque, secondo
il santo Dottore, una delle ragioni, perchè Iddio ha ordinato
che la
Chiesa avesse un solo supremo presidente: la unità e
conformità della
Fede; avendo dato al Papa, come ad unico ed
universale maestro, l'uffizio di definire quello che è da
credere per
conseguir la salute. Donde proviene come immediata e necessaria
conseguenza il privilegio della infallibilità nel Romano
Pontefice.
Imperocchè, conforme a questa dottrina del Santo, il Romano
Pontefice è
regola suprema ed unica della Fede nella Chiesa di Dio: ed è
quanto
dire che alle cose, le quali esso propone a credere nella Chiesa, si
deve aderire con fermissimo assenso dell'intelletto, come a
verità
rivelate da Dio; e che in tanto ciò si deve, in quanto le dette
verità
sono da lui imposte alla fede comune. Ora sarebbe assurdo che il
Romano Pontefice avesse da Dio il diritto di obbligare in questa forma
gl'intelletti de' fedeli, e che questi fossero tenuti, per non peccare
contro la fede, di accettare con piena sommessione dell'animo le cose
proposte da lui, se Iddio non lo avesse francato da ogni pericolo
d'insegnare il falso, assicurandolo col privilegio della
infallibilità.
Più direttamente ancora nel capitolo VI, §. 19, espone
la mede[si]ma
verità. La quistione, che in questo luogo stabilisce, risguarda
l'autorità della Chiesa universale nel determinare gli articoli
di
fede. Domanda dunque, se una tale autorità risegga
principalmente nel
Papa. Alla quale proposta non si contenta il santo Arcivescovo di
rispondere affermativamente; ma aggiunge di più, colla
testimonianza
di S. Tommaso e di altri Dottori, che quest'autorità può
essere
esercitata da lui senza il concorso e prima del suffragio dei Vescovi
ed altri Prelati della Chiesa. «Quante volte, egli dice, si cerca
di
stabilire qualche punto che riguarda la fede, io credo che tutti i
nostri fratelli e colleghi nell'episcopato non devono far ricorso ad
altro che a Pietro; cioè a colui che possiede l'autorità
del nome e
dell'onore di Pietro, contro alla cui autorità nè
Agostino, nè
Girolamo, nè alcun altro Santo può difendere la sua
sentenza, secondo
che attesta Girolamo stesso, il quale dice: «Questa, o Beatissimo
Padre
è la fede, che noi abbiamo appresa nella cattolica Chiesa;
intorno alla
quale se mai ci è sfuggita qualche sentenza o poco esatta o poco
sicura, noi bramiamo di essere
emendati da Te, che tieni la fede ed il seggio di Pietro.» Se
dunque per l'autorità, che qui S. Antonino adduce, di S. Tommaso
e di
S. Girolamo, il
Papa è quegli, dal quale tutti i Vescovi devono aspettare
l'ultimo e
definitivo giudizio nelle materie della fede, per maniera che niuno,
nè
vescovo nè dottore che sia, possa dipoi sostenere la contraria
sentenza; è chiaro che egli riconosce nel medesimo
l'au[to]rità di
definire per sè
solo le cose da credere, e per conseguenza il privilegio della
infallibilità senza il concorso e prima del suffragio degli
altri
vescovi.
Ma di questo egli ne fa una questione a parte nel paragrafo che
seguita
immediatamente appresso, domandando fra l'altre cose, se il sommo
Pontefice, ogni qual volta debba definire qualche punto di fede, sia
obbligato di convocare il concilio universale. Al che risponde
negativamente con S. Tommaso, di cui arreca per disteso le parole, che
tradotte in italiano suonano così: «Siccome il concilio
posteriore ha
la potestà d'interpretare un simbolo, composto dal concilio
precedente,
o di porre alcune aggiunte che lo dichiarino; lo stesso può fare
di
sua autorità il Romano Pontefice, a cui solo appartiene
convocare il
concilio, e confermarne i decreti colla sua autorità; potendosi
anche
contro il concilio appellare a lui. Di tutte queste cose si ha esempio
negli atti del sinodo calcedonese. Che però non è punto
necessario, per
fare una dichiarazione di questo genere, che il Papa aduni il concilio:
il che alcune volte tornerebbe impossibile per cagione de' dissidii
guerreschi, siccome si legge essere accaduto nella sesta sinodo. In
quella occasione non avendo potuto Costantino Augusto convocare la
università de' vescovi, stante la imminenza della guerra; coloro
che
erano convenuti proposero alcune questioni concernenti la fede, e le
definirono seguitando la sentenza di Papa Agatone, che in Cristo sono
due volontà e due ordini di azioni. Il medesimo fecero i Padri,
adunati
nel concilio calcedonese, i quali si tennero alla decisione di Papa
Leone, che avea definito essere in Cristo due nature [4].» Da questa
dichiarazione di S. Tommaso, che l'Arcivescovo di Firenze fa sua,
risulta in primo luogo, che il Papa può interpretare o spiegare
le
dottrine della fede, risolvendo i dubbii e definendo le questioni
con quello stesso valore di autorità, onde lo può un
concilio
universale. Si raccoglie in secondo luogo, che le sue decisioni intorno
alle materie della fede debbono essere accettate come obbligatorie
dagli stessi concilii ecumenici, come fecero il concilio calcedonese
per
rispetto a S. Leone, ed il terzo costantinopolitano per rispetto a S.
Agatone; essendosi l'uno e l'altro protestati di riconoscere in que'
supremi Pastori della Chiesa la persona di Pietro, il cui insegnamento
non può fallire alla cattolica verità. Or chi non vede
che chi
riconosce una tale autorità nei Romani Pontefici, dee
riconoscere per
conseguenza la infallibilità del loro magistero, se pure non
voglia
sostener la bestemmia, che Dio ha dato alla Chiesa una regola per
sè
fallace di fede?
La quale assurda supposizione neppure calunniando si potrebbe
addebitare
a S. Antonino, il quale in altro luogo con manifeste parole l'esclude,
ribadendo anche più chiaramente e direttamente il
privilegio, che hanno i Romani Pontefici, della infallibilità
personale
nel sentenziare sopra le dottrine della fede. Nella Parte IV al titolo
VIII, cap. III, trattando della virtù della fede, poc'oltre alla
metà
del § 5, dichiara ampiamente, che la fede della Chiesa universale
non
può venir meno, e spiega il modo come Iddio ha provveduto a
questo. «La
sesta cosa da osservare, dice il Santo, è che che la fede della
Chiesa universale non può mancare, avendo detto il Signore a
Pietro:
«Io ho pregato per te, a fine che la tua fede non venga
meno.» E per
ciò che risguarda Pietro, questo è da intendere della
infedeltà finale,
volendo dire che non perirebbe persistendo nel peccato della negazione.
Quanto poi alla Chiesa, la quale è designata nella fede di
Pietro, la
cosa si verifica assolutamente, in quanto la fede della Chiesa in
generale non può fallire. La ragione di questo è,
perchè la Chiesa è
governata dalla divina provvidenza; cioè dirigendola lo Spirito
Santo a
ciò che non erri. E sebbene il Papa in particolare possa errare,
come
accade nelle cose giudiziali, in cui si procede per informazione;
tuttavia nelle materie che appartengono alla fede non può
errare,
quando cioè sentenzia in qualità di Papa,
avvegnachè come particolare e
privata persona. [avvegnachè
traduce qui il lat. etiamsi,
che significa anche se, N.d.R.] Ondechè
nelle
materie risguardanti la fede più è da stare alla sentenza
proferita
autoritativamente dal Papa, che alla opinione di quali che sieno uomini
sapienti [5].» Il Santo
adunque
solennemente professa, che la fede della
Chiesa universale non può mancare: il che vuol dire che la
Chiesa
universale non può in verun tempo credere come domma di fede una
falsa
dottrina. Un tal privilegio egli lo fa derivare da speciale assistenza
dello Spirito Santo, il quale fa sì che in queste materie non
possa
cadere in errore. Dunque per suo giudizio la regola della fede, per la
quale la Chiesa crede, non può esser fallace. Abbiamo veduto
negli
altri luoghi del Santo, esaminati da noi, che la regola della fede
nella Chiesa è il Romano Pontefice. Ma la conseguenza, che
questa
regola dev'essere infallibile, è qui messa in tutta la sua
mostra,
insegnandosi espressamente che il Papa non può errare quando
definisce
da Papa, avvegnachè senza il concorso, e prima del suffragio
degli
altri vescovi, come risulta evidentemente dalle parole etiamsi (determinet) ut particularis et privata persona.
[Traduzione: anche se
definisce come
particolare e
privata persona, N.d.R]
Aggiungeremo un ultimo argomento, dedotto dal capitolo IV, §. 4
della
stessa parte e titolo, dove il Santo cerca a chi si appartenga comporre
i simboli della fede; e risponde «che solo al sommo Pontefice [6]». Ma
quello che è più da notare è la ragione che ne
adduce. «La ragione di
ciò (egli dice) è perchè il simbolo è
formato nel sinodo o concilio
generale.» Il che può sembrare una manifesta
contraddizione coll'inciso
precedente; perciocchè se il
simbolo è opera del concilio, come dunque egli afferma non pure
che è
opera solo del Papa, ma di
più che intanto è opera solo
del Papa, in
quanto esso è formato nel sinodo o concilio generale? Ma la
contraddizione svanisce per le parole che seguono: «Il Sinodo
generale, egli dice, non può essere congregato, che per la sola
autorità del sommo Pontefice. Adunque a lui, cioè al
Pontefice,
appartiene la formazione del simbolo [7].»
E seguita per lungo tratto a
confermare l'autorità del Papa nelle cose della fede,
argomentandola
ora dal valore che solo per lui può avere il concilio generale,
ed ora
dalle decisioni, che egli può fare da se stesso senza il
concilio.
Laonde conchiude colla seguente formola generale: «E però
consegue,
che alla sola autorità del sommo Pontefice si spetta la
formazione di
un nuovo simbolo, e parimente la dichiarazione delle cose da credere,
dove occorressero dubbii [8].»
Alla
quale sentenza aggiugne peso e
chiarezza l'autorità, che ne reca in conferma, di S. Girolamo e
di più
altri santi Padri, che magnificano la indefettibilità della
Chiesa
romana, e il magisterio infallibile del Pontefice che le sta a capo. Da
questa dottrina risulta in primo luogo, che l'autorità, che
spiega il
concilio nelle cose della fede, non è diversa
dall'autorità del
Pontefice, ma è questa stessa la quale si manifesta con un
effetto
estensivamente maggiore. In secondo luogo, che il concilio neppure
è
condizione necessaria per l'esercizio di quest'autorità,
perchè il
Pontefice può farne uso, e continuamente ne ha fatto, anche
indipendentemente dal concilio.
II.
Se S. Antonino abbia creduto che
il Papa è superiore al Concilio ecumenico.
Alla proposta quistione si potrebbe sufficientemente soddisfare con
quella parte della dottrina del Santo, che abbiamo ultimamente
esaminata. Nondimeno ci giova ricercare più direttamente la sua
sentenza, massime in que' luoghi ne' quali tratta ex professo
de' concilii; e lo faremo, divisando innanzi tutto in varii principii i
punti più cardinali di dottrina che sono da lui
stabiliti.
Il primo di questi principii è che dal Papa, come da unica
sorgente,
si
deriva negli altri prelati la potestà. Sul quale proposito reca
la
dottrina di S. Tommaso [9], il quale
insegna, che sebbene Gesù Cristo
avesse conceduto in comune a tutti gli Apostoli la facoltà di
legare e
di sciogliere, la diè nondimeno separatamente al solo Pietro,
acciocchè
s'intendesse che da lui dovrebbe derivare negli altri prelati della
Chiesa [10]. Il secondo principio
stabilisce come condizione essenziale
per la legittimità e validità di un concilio generale,
che esso sia
convocato per autorità del sommo Pontefice, e presieduto da lui
stesso,
ovvero da' legati che egli abbia a quest'uopo deputati. Se altramente
si
aduni o si celebri, quello non è concilio di Cristo, ma
conciliabolo
di satana [11]. Il terzo principio
pone, che il concilio generale, anche
legittimamente convocato e celebrato, non può avere altrimenti
valore
di obbligare, o sia nelle nuove definizioni risguardanti la fede, o
sia ne' precetti concernenti la disciplina, se non è confermato
dal
Romano Pontefice. È bene a
questo luogo riferire le sue proprie parole: «Il Romano Pontefice
è
quello che dà autorità e vigore a tutti i concilii. Il
che è chiaro per
le cose dette innanzi. Poichè se egli è l'unico capo e
principe di
tutta la Chiesa, se egli ha la pienezza della potestà sopra
tutti, ed è
il solo che possa fare statuti valevoli e perpetui, come colui che
è il
fondamento della Chiesa; ne conseguita che egli solo può dar
valore e
forza di legge agli statuti de' concilii [12].» Il quarto principio dà
facoltà ai fedeli, quali che sieno, di appellare al Papa contro
la
sentenza del concilio [13]. II
quinto principio dichiara che il Papa non è
soggetto alle leggi di dritto positivo statuite dal concilio in altra
forma, che come il principe è soggetto alle leggi che fa egli
stesso;
cioè secondo la virtù direttiva e non secondo la
potestà imperativa o
la forza coattiva [14]. Il sesto
principio afferma, che il sommo Pontefice
ha facoltà non solo di dispensare ne' casi particolari dai
decreti de'
concilii generali, ma anche di cangiarli. E qui risponde,
coll'autorità
di S. Tommaso [15], alla
difficoltà, che si oppone, di quella sentenza
di Papa Zosimo che dice: «Non può l'autorità di
questa Sede stabilire
nulla, nè nulla mutare contra i decreti de' Padri.»
«Cotesto è vero,
osserva il Santo, dove si tratti di decreti di diritto divino, come
sono gli articoli di fede, determinati ne' concilii. Ma le cose di
dritto positivo, stabilite da' santi Padri, sottogiaciono
all'autorità
del Papa; ed egli può o mutarle o dispensare in esse, secondo
che vuole
la opportunità de' tempi e dei negozii. Perciocchè tutto
quello che i
Padri accolti ne' concilii banno statuito, l'hanno potuto per la
intervenzione dell'autorità del Pontefice, senza la quale
neppure si
può adunare il concilio [16].»
Da questa dottrina del Santo, raccolta, per amor di chiarezza nei
sei
esposti principii, proviene come legittimo conseguente la sua sentenza
della superiorità del Papa sopra il concilio universale. Di
fatto se
egli tenesse il contrario, non già nel Papa, ma sì nel
concilio
dovrebbe dire assommata l'autorità delle chiavi. Or egli
all'opposto
insegna che cotesta autorità dal Papa, come da prima fonte,
è
partecipata ai diversi prelati e sacerdoti della Chiesa; e per rispetto
ai concilii, che essi nè potrebbero convenire senza la
convocazione del
Pontefice, nè tenere le adunanze senza la sua direzione,
nè dar valore
ai loro atti senza la confermazione del medesimo. Adunque per S.
Antonino tutta l'autorità che hanno i concilii l'hanno dal Papa,
il
quale per conseguenza, com'è il principio e la cagione di ogni
loro potestà (ed anzi questa, come abbiam veduto esser dal Santo
insegnato, altra non è che la stessa potestà pontificia
sott'altra
forma); così anche è necessario che sia ad essi
superiore. Di più è
verità notissima a tutti, che l'inferiore è ligato dalle
leggi del suo
superiore; come altresì, che niuno può dissolver le leggi
nè
cambiarle o modificarle, se non lo stesso legislatore, o chi ha una
potestà maggior della sua. Ora ci siamo chiariti esser dottrina
del
nostro Santo, che anche celebrato legittimamente e confermato il
concilio, pur le sue leggi non hanno virtù nè imperativa
nè coattiva
per rispetto al Romano Pontefice; e che questi per contrario ha piena
balìa di mutarle, secondo che crede meglio convenire alle
condizioni
de' tempi e delle cose. Adunque è sentenza di S. Antonino che
non il
concilio è superiore al Papa, ma il Papa al concilio.
La qual conseguenza ci proviene anche più chiaramente da
ciò che il
medesimo insegna a proposito della quistione, se il Papa possa mai
esser deposto dal suo grado per cagione di alcun grave e notorio
delitto. Egli la risolve negativamente, eccettuato il solo caso di
eresia; e ne adduce in confermazione il parere di varii Dottori. Fra
gli
altri cita Pietro della Palude, facendo sua la sentenza di questo
teologo. Ecco le sue parole tradotte in italiano: «Dice
similmente
Pietro della Palude, che il Papa, finchè è Papa, non
può in verun caso,
nè per qualsivoglia delitto, esser deposto nè dal
concilio, nè da tutta
la Chiesa, nè da tutto il mondo, non solo perchè è
superiore, e non ha
alcun uomo sopra di sè, che lo possa giudicare; ma perchè
la
sua autorità è da Dio, il quale ha riservato a sè
il giudizio del
Pontefice di Roma, infino che è tale [17].»
La ragione che qui è
addotta, perchè il Papa non può esser deposto, qualunque
sia il suo
demerito, è perchè non vi ha nel mondo nessuna
potestà superiore a lui,
escludendosi esplicitamente anche quella del concilio generale. Si
potrebbe desiderare maggior evidenza?
Abbiamo detto però che il santo Arcivescovo eccettua il caso,
che il
Papa fosse caduto nel delitto dell'eresia; giacchè in questa
ipotesi
concede che può esser deposto. Nondimeno egli osserva, che in
questo
fatto non avrebbe luogo il giudizio sopra il Papa in quanto tale;
poichè per ciò stesso che caduto nell'eresia cesserebbe
di esser Papa.
«Quando il Papa, egli dice, fosse diventato eretico, solo per
questo
fatto, senz'altra sentenza rimarrebbe separato dalla Chiesa. Ma non
può un capo reciso dal corpo, finchè è reciso,
esser capo di quel
medesimo corpo da cui è stato divelto. Adunque un Papa, che si
fosse
diviso dalla Chiesa per l'eresia, per ciò stesso finirebbe di
esser
capo del corpo della Chiesa. E così un eretico non può
essere nè
rimanere Papa, perchè non può fuori della Chiesa aver le
chiavi della
Chiesa. Il che non accade per gli altri peccati: per essi è capo
languido sì veramente , ma pur non cessa di esser capo; e per
conseguenza non può esser giudicato dalle membra [18].»
Adunque l'eccezione del Papa eretico, che può essere in
quanto tale
deposto dalla Chiesa (se pure, come aggiunge espressamente il Santo,
non voglia ritrattare il suo fallo); questa eccezione, diciamo,
secondo le spiegazioni, che il medesimo S. Autore ne dà,
riconferma la
dottrina dell'assoluta superiorità del Papa sopra il concilio.
Se non
che questa medesima ipotesi di un Papa eretico, che pure S. Antonino
ammette per possibile, può sembrare ad alcuno, che contraddica
al
privilegio della infallibilità. La quale cosa se è vera,
manca uno de'
più validi fondamenti, sopra i quali si appoggia l'altro suo
attributo
della superiorità sul concilio.
Cotesta era una grave difficoltà pe' tempi del nostro Santo,
ne'
quali
correvano come vere storie non solo le favole delle defezioni personali
dalla fede di alcuni Papi, per esempio di Marcellino; ma anche quelle
che spacciavano avere alcuni di essi favorita ed eziandio insegnata
l'eresia, come credevasi di Liberio, di Onorio, di Anastasio, di Leone
e non sappiamo se di altri. Con tutto ciò il S. Dottore, indotto
dall'autorità della sacra Scrittura, dalla dottrina comune dei
SS.
Padri, e dalla stessa ragione teologica, sostiene, come abbiamo veduto,
che il Papa nel suo magistero di capo della Chiesa universale è
da sè
solo infallibile. E però se ammette che può cadere
nell'eresia, ed
anche spacciare cose contrarie alla fede, aggiunge nondimeno che non
potrebbe ciò fare, se non solo come persona particolare, e non
già
esercitando l'ufficio di maestro universale della Chiesa. Uno de'
mezzi poi (ed e certo de' più efficaci ), pe' quali lo Spirito
Santo
assiste al Pontefice, acciocché non possa fallare nelle sue
definizioni dalla verità della fede, lo riconosce nel concilio,
o in
generale ne' sussidii che gli può offrire la Chiesa [19]. Se non che di
qualche lieve incaglio, che incontra a questo luogo la dottrina del
Santo, per occasione de' falsi dati di storia, a cui abbiamo
accennato, ci converrà trattare in luogo più opportuno.
Per Ora
osserviamo, che dopo che gli studii critici sopra la storia
ecclesiastica hanno fatto apparire evidentemente intemerata la fede di
que' Papi, che furono calunniati di avere insegnate dalla Cattedra di
Pietro l'eresia; la dottrina in ogni tempo comune nella Chiesa e
veramente cattolica della infallibilità pontificia non ha dovuto
più
lottare contra nessun ostacolo di qualche momento. Ciò dunque
che,
conforme a
questa dottrina, è da tenere assolutamente nella proposta
quistione, si
è che il Papa, come Papa, cioè come maestro universale
della Chiesa, è
per maniera assistito dallo Spirito Santo, che in nessun caso
può
insegnare o proporre a credere, nelle cose appartenenti alla fede o ai
costumi, il falso per vero [20].
Quanto poi alla questione personale, che
fosse a fare quando il Papa come privato si trovasse esser caduto
nell'eresia; in primo luogo la sentenza più comune de' teologi
è quella
stessa, che abbiam veduto essere insegnata da S. Antonino, che
cioè
quando questo accadesse, quel Papa cesserebbe per ciò solo di
esser
Papa, e perciò potrebb'esser deposto anche di fatto [21]. In secondo
luogo, per rispetto alla possibilità di una tale ipotesi, la
più
probabile sentenza ci sembra quella del Bellarmino; vale a dire, che
non essendosi giammai avverato un tal fatto, o almeno non potendosi
provare che siasi mai avverato: «È da credere piamente,
che il sommo
Pontefice non solo non possa errare nella fede come Pontefice, ma anche
come persona particolare non possa diventare eretico, credendo
pertinacemente qualche errore contro la Fede.» Il che dice essere
convenientissimo a quella soave provvidenza, onde Iddio governa la sua
Chiesa [22].
Rimettendoci ora nel nostro argomento, un'altra conseguenza deduce
il
S. Arcivescovo di Firenze dai principii da lui propugnati, alcuni de'
quali sono anche esposti tra cinque altissimi privilegi, che esso fa
rilevare nella Chiesa romana. La conseguenza è che non è
lecito di
appellare contro alle decisioni del Papa a quelle di un'altra qualsiasi
potestà. Arrecheremo soltanto due argomentazioni, dalle quali
emerge
più esplicitamente la sua sentenza della superiorità del
Papa sul
concilio. La prima è derivata da quel privilegio, per cui la
Chiesa
romana ha, per mezzo del suo Pontefice, la pienezza della
potestà sopra
tutta la Chiesa. Ecco il ragionamento del Santo in ischietta forma
scolastica: «Chiunque asserisce che il Romano Pontefice non ha la
pienezza della potestà sopra tutti, costui toglie alla Chiesa di
Roma
così fatto privilegio concedutole da Cristo. Ma
chi sente che può farsi appello ad altri contro i decreti del
Papa,
sente che questi non ha la pienezza della potestà sopra tutti.
Dunque
ecc. La minore proposizione è per sè evidente:
perciocchè colui, al
quale si fa appello, deve avere potestà sopra l'altro, contro
cui si
ricorre; giacchè deve poter mutare o riformare la sentenza di
questo [23].»
L'altra argomentazione riguarda esplicitamente il concilio, ed
è
fondata sopra il privilegio del Romano Pontefice di poter egli solo
colla sua confermazione dar forza e vigore a tutti gli atti de'
concilii generali. Onde il Santo argomenta nella forma seguente:
«Neppure al concilio generale si può appellare contro il
Papa.
Imperocchè il Papa
è superiore
a qualsivoglia concilio, nè hanno
fermezza gli atti de' concilii, se non sono avvalorati e confermati
dall'autorità del Romano Pontefice. Sentire adunque che è
lecito
appellare al concilio contro il Papa, è un' eresia contro
all'articolo,
con cui si professa di credere nella santa
Chiesa cattolica [24].»
I capi della dottrina di S. Antonino, sin qui esposti da noi colla
massima fedeltà, mettono in chiaro, più che la luce di
mezzogiorno, il
vero sentimento di questo Dottore intorno a que' due punti, un tempo
sì
controversi dalla Chiesa gallicana ed ora appena da pochi combattuti,
che sono la infallibilità del Romano Pontefice, e la sua
superiorità
sopra il concilio universale. Come abbiam notato sin da principio,
ciò
che massimamente deve farci apprezzare le sentenze espresse da questo
Santo nelle dette quistioni, è l'averle sostenute
poco appresso a quel funestissimo scisma che divise la Chiesa e dopo i
due concilii di Costanza e di Basilea, il primo dei quali
parve sminuire non poco l'autorità de' sommi Pontefici, ed il
secondo,
per avere attentato anche peggio alla dignità pontificia,
degenerò in
conciliabolo. Nondimeno il Santo propugnò con tanto ardore i
privilegi
del Pontificato, specialmente que' due che doveano sembrare più
contrarii alle condizioni della Chiesa in que' tristissimi tempi.
Ciò
è un nuovo argomento, che quella era la dottrina di tutti i
Padri e
Dottori, non potuta intorbidare dalle tempeste che travagliarono per
sì
gran tempo la Chiesa. Sappiamo che qui e colà si possono
racimolare di
testi, capaci di fare qualche difficoltà: ma quali che essi
sieno, non
potranno giammai distruggere un tutto di dottrine , che si risponde
sì
mirabilmente nelle sue parti, e sempre in guisa da far risultare quelle
due conseguenze. Ad ogni modo noi ci occuperemo in un altro articolo
anche di questi passi, per chiuder la via a chi se ne volesse
giovare in danno della verità, interpretando malamente qualche
frase un
po' ambigua del grande Arcivescovo di Firenze.
NOTE:
[1] Significatur enim summus Pontifex per
talem montem. Primo ratione generalitatis: Quia sicut mediante tali
monte descendit Deus coram toto
populo Iudaeorum; sic Christus mediante potestate summi Pontificis in
lege nova descendit Deus super toto populo Christianorum... Tertio
ratione
legalis veritatis: quia sicut de illo monte data est lex, ita ab ipso
Papa omnes leges et iura exquirenda sunt.
[3] In tota universitate christiana debet
esse conformitas de his, quae
pertinent ad veritatem fidei et bonos mores circa necessaria ad
salutem. Sed talis conformitas non potest salvari nisi in ordine ad
unum caput seu unum praesidentem, ad quem spectat sententiare quid
credendum et quid non
credendum. Ergo etc. Et in tantum est iste principatus unus, quod
nullus auctoritate humana potest dirimere. Loc. cit. §. 3.
[4] S. Thom. in Quaestion. de potentia Dei,
Quaest. 10, art. 4.
[5] Sextum est quod fides universalis
ecclesiae non potest deficere,
dicente Domino Petro (Luc. 22): Ego rogavi pro te, ut non
deficiat
Fides tua. Et quantum quidem ad
personam Petri intelligitur de defectu
finali; ut scilicet quod non periret persistendo in negationis peccato.
Quantum ad
Ecclesiam autem, quae intelligitur in fide Petri, est simpliciter
verum; quia non potest fides Ecclesiae deficere. Ratio quare fides
Ecclesiae in generali deficere non potest; quia divina providentia
Ecclesia regitur, scilicet a Spiritu
Sancto eam dirigente ut non erret. Et licet Papa in particulari
errare possit, ut in iudicialibus, in quibus proceditur per
informationem; alias in his quae pertinent ad fidem errare non potest,
scilicet ut Papa in
determinando, etiamsi ut particularis et privata persona. Unde magis
standum est sententiae Papae de pertinentibus ad fidem, quam in
iudicio proferret, quam opinioni quorumcumque
sapientum.
[6] Compositio symboli pertinet solum ad
summum Pontificem.
[7] Ratio est, quia editio symboli fit in
synodo seu concilio generali.
Sed synodus generalis auctoritate solummodo summi Pontificis potest
congregari (ut habetur in decr. distinct. 17, etc.): ergo ad ipsum
spectat editio symboli.
[8] Et ideo sequitur quod ad solam
auctoritatem Pontificis summi pertinet
nova editio symboli, et similiter declaratio credendorum in dubiis
occurrentibus.
[9] S. Thom. in 4 Sentent.
distinct. 24.
[10] Part. III, titul. XXII,
cap. VI, §. 9.
[11] Quoddam enim est generale
(concilium), ut illud quod fit
praesente
Papa, vel eius legato ad hoc specialiter deputato a Papa,
convenientibus Episcopis, et aliis Praelatis plurimis, prout ipse
ordinavit, et illud non potest celebrari nisi auctoritate Papae (ut
patet dist. l7 etc.); alius nullum esset, et non concilium, sed
conciliabulum et synagoga Satanae diceretur et esset. Part. III,
tit. XXIII, cap. II, et alibi passim.
[12] Romanus Pontifex dat auctoritatem et
robur omnibus conciliis; et haec patent ex praemissis. Quia si est
unicum caput et princeps totius
Ecciesiae, habens super omnes plenitudinem potestatis, et solus potens
facere statuta firma et perpetua, tamquam Ecclesiae fundamentum;
sequitur quod solus potest roborare statuta conciliorum et firmare.
Part. III, titul. XXIII, cap. III, §. 2. Item tit. XXII, cap. VI,
§.
20, et
alibi.
[13] Loc. cit. [cioè tit.
XXII,
cap. VI, §.
20]
[14] Ibid. §. 21.
[cioè
tit. XXII, cap. VI, §.
21]
[15] S. Thom. in tract. contra impugnatores relig.
[16] Ibid. §. 22.
[cioè tit.
XXII, cap. VI, §.
22]
[17] Item dicit Petrus de Palude, quod
Papa nullo casu, quamdiu est
Papa, per quodcumque crimen non potest a concilio, nec a tota
Ecclesia, nec a toto mundo deponi; et hoc non solum quia est superior
et nullum
hominem habet supra se, qui eum valeat iudicare: sed quia est a Deo,
qui sibi Romani praesulis, quamdiu praesul est, iudicium reservavit.
Ibid.
tit. XXII, cap. VI, §. 3.
[18] Eo ipso quod haereticus est (Papa) ab Ecclesia est praecisus. Non
potest autem caput a corpore praecisum, quamdiu est praecisum, caput
esse illius corporis a quo est praecisum: unde Papa per hoc desinit
esse
caput corporis Ecclesiae. Et sic haereticus non potest esse nec manere
Papa; quia extra Ecclesiam non potest habere claves Ecclesiae. Per alia
autem peccata Papa est caput languidum, quod non propter hoc
desinit esse caput, nec potest a membris per consequens iudicari.
Ibid. [cioè cap. VI, §. 3.]
[19] Part. III, tit. XXIII, cap.
III, §.
4.
[20] Conf. Bellarm. De Rom. Pontif., lib. IV, cap. III.
[21] Id. tract. cit. lib. II,
cap. XXX.
[22] Id. tract. cit. lib. IV,
cap. VI.
[23] Quicumque asserit quod Romanus
Pontifex non habeat plenitudinem
potestatis super omnes, auferre conatur privilegium Ecclesiae
Romanae a Christo traditum, quod patet per secundum privilegium supra
positum. Sed sentiens appellandum esse a Papa, sentit ipsum non habere
plenitudinem potestatis super omnes. Ergo etc. Minor patet, quia ille
ad
quem appellatur habet potestatem super illum, a quo appellatur; quia
potest eius iudicium mutare et sententiam retractare. Part. III,
tit. XXIII, c,
III, §. 3.
[24] Sed nec ad Concilium generale a Papa
appellari potest; quia Papa
omni concilio superior est; nec
robur habet quidquid agitur, nisi
auctoritate Romani Pontificis roboretur et confirmetur. Sentire ergo
quod ad
Concilium a Papa appellari possit, est haereticum, et contra illum
articulum sanctam Ecclesiam catholicam. Loc. cit.
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