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venerdì 31 dicembre 2010

Maria SS. Madre di Dio (s) In Octava Nativitatis Dómini - 1 Gennaio


MISSALE ROMANUM
Sabato, 1 Gennaio 2011





VANGELO
Dal Vangelo secondo Luca Lc 2, 16-21

In quel tempo, [i pastori] andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia. E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro.
Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori. Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore.
I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro.
Quando furono compiuti gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall’angelo prima che fosse concepito nel grembo




EVANGÉLIUM
Sequéntia S. Evangélii secundum Lucam, 2, 21

In illo témpore: Postquam consummáti sunt dies octo, ut circumciderétur puer: vocátum est nomen eius Iesus, quod vocátum est ab Ángelo priúsquam in útero conciperétur.


In quel tempo: quando furon passati gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall'angelo prima di essere concepito nel grembo della madre.

Il Verbo ha assunto da Maria la natura umana

Dalle «Lettere» di sant'Atanasio, vescovo (Ad Epitetto 5-9; PG 26,1058. 1062-1066)



Il Verbo di Dio, come dice l'Apostolo, «della stirpe di Abramo si prende cura. Perciò doveva rendersi in tutto simile ai fratelli» (Eb 2, 16. 17) e prendere un corpo simile al nostro. Per questo Maria ebbe la sua esistenza nel mondo, perché da lei Cristo prendesse questo corpo e lo offrisse, in quanto suo, per noi.
Perciò la Scrittura quando parla della nascita del Cristo dice: «Lo avvolse in fasce» (Lc 2, 7). Per questo fu detto beato il seno da cui prese il latte. Quando la madre diede alla luce il Salvatore, egli fu offerto in sacrificio.
Gabriele aveva dato l'annunzio a Maria con cautela e delicatezza. Però non le disse semplicemente colui che nascerà in te, perché non si pensasse a un corpo estraneo a lei, ma; da te (cfr. Lc 1, 35), perché si sapesse che colui che ella dava al mondo aveva origine proprio da lei.
Il Verbo, assunto in sé ciò che era nostro, lo offrì in sacrificio e lo distrusse con la morte. Poi rivestì noi della sua condizione, secondo quanto dice l'Apostolo: Bisogna che questo corpo corruttibile si vesta di incorruttibilità e che questo corpo mortale si vesta di immortalità (cfr. 1 Cor 15, 53).
Tuttavia ciò non è certo un mito, come alcuni vanno dicendo. Lungi da noi un tale pensiero. Il nostro Salvatore fu veramente uomo e da ciò venne la salvezza di tutta l'umanità. In nessuna maniera la nostra salvezza si può dire fittizia. Egli salvò tutto l'uomo, corpo e anima. La salvezza si è realizzata nello stesso Verbo.
Veramente umana era la natura che nacque da Maria, secondo le Scritture, e reale, cioè umano, era il corpo del Signore; vero, perché del tutto
identico al nostro; infatti Maria è nostra è sorella poiché tutti abbiamo origine in Adamo.
Ciò che leggiamo in Giovanni «il Verbo si fece carne» (Gv 1, 14), ha dunque questo significato, poiché si interpreta come altre parole simili.
Sta scritto infatti in Paolo: Cristo per noi divenne lui stesso maledizione (cfr. Gal 3, 13). L'uomo in questa intima unione del Verbo ricevette una ricchezza enorme: dalla condizione di mortalità divenne immortale; mentre era legato alla vita fisica, divenne partecipe dello Spirito; anche se fatto di terra, è entrato nel regno del cielo.
Benché il Verbo abbia preso un corpo mortale da Maria, la Trinità è rimasta in se stessa qual era, senza sorta di aggiunte o sottrazioni. E' rimasta
assoluta perfezione: Trinità e unica divinità. E così nella Chiesa si proclama un solo Dio nel Padre e nel Verbo.

MARTIN LUTERO, omicida e suicida

Testo integrale dell'articolo del Sac. Dott. Luigi Villa: "Martin Lutero omicida e suicida", apparso sul numero 258 della Rivista "Chiesa viva".

Quindi si potrebbe dire che Lutero è all'inferno! Ed eccone i motivi principali: egli fu "omicida", ed è per questo che Lutero dovette rifugiarsi in un convento, come vedremo più avanti; e morì "suicida", dopo una ennesima orgia serale! Ma prima tratteggiamo, in breve, la sua vita.
Lutero nacque a Eisleben, in Sassonia, il 10 novembre 1483. Era figlio di un minatore. La famiglia si trasferì a Mansfeld, la città dei minatori, sei mesi dopo la sua nascita. Qui, Martino vi trascorse i suoi primi 14 anni frequentando le scuole private locali. In seguito frequenterà, per un anno, la scuola capitolare dei canonici, in Magdeburgo e, l'anno dopo, la scuola di S. Giorgio, ad Eisenach. All'età di 18 anni entrava all'università di Erfurt per studiarvi filosofia e diritto. Era l'anno 1501. Nel 1505 era già "Magister Artium", ossia Dottore in Filosofia. Nello stesso anno, a maggio, iniziava lo studio del Diritto, ma vi durò solo per sei settimane, circa! Ora passiamo a quella sua "entrata in religione", il 2 luglio 1505, che avvenne «non tanto perché attratto, quanto trascinato»! ("non tam tractus quam raptus"); e questo non per un trauma dovuto a un violentissimo uragano, vicino a Stotternheim, in cui sarebbe mancato poco che non vi perisse (1), ma perché...
Qui, ci mettiamo sulle orme del giurista Dietrich Emme che, nel 1983, pubblicò un suo libro dal titolo: "Martin Luther, Seine Jugend und Studienzeit 1483-1505. Eine dokumentarische Darstelleng"
(=Martin Lutero: La giovinezza e gli anni di studio dal 1483 al 1505. Bonn 1983, Dm 69) (2).
1° - Martin Lutero "omicida"
Ebbene, in quel suo libro, il dott. Dietrich Emme afferma che Lutero entrò in convento solo per non cadere sotto gravi sanzioni giuridiche, che gli sarebbero incorse dopo che egli avrebbe ucciso, in duello, un suo collega di studi. L'Autore del libro su indicato così descrive il "fatto" che noi, qui, sunteggiamo: Lutero - scrive - non si ferì da solo, ma perché si era battuto in duello con quel compagno. Allora, Lutero era "Bacelliere" della facoltà di Filosofia. In seguito a questo duello, comunque, dovette abbandonare la celebre "Burse Porta-Coeli" di Effurt (del collegio "Amplonianum") e andare a rifugiarsi nella poco stimata "Burse" di San Giorgio.
Qui, bisogna sapere che gli studenti già graduati - a partire dal "Bacellierato" - avevano il diritto di portare la spada, ma non potevano farne uso, pena un grave castigo. Tutti gli universitari, perciò, dovevano giurare di sottomettersi a quest'ordine. Tuttavia, i litigi tra loro, anche a mano armata, erano assai frequenti.
Perfino le dispute degli esami, spesso venivano continuate con la spada. Per questo, gli esaminandi, prima dell'esame, dovevano giurare di non vendicarsi per le "note" ricevute! Ma nei libri dei Decanati delle Università medioevali vi figurano molti decessi di universitari dopo gli esami, proprio per l'uso delle armi!
Ora, subito dopo che Lutero ebbe dato il suo esame di "Magister" della facoltà filosofica, avvenne una morte misteriosa: quella di un certo Jéróme Buntz, che aveva dato anch'egli, con esito positivo, il suo esame di "Magister", assieme a Lutero e ad altri 15 candidati. Ebbene, costui morì proprio tra l'esame e la promozione a "Magister"! L'Autore sopra citato scrive che furono proprio Lutero e Buntz a scontrarsi in duello, e che fu Lutero a ferire mortalmente il compagno!
(Necessità di difesa? ...azione passionale?...).
Da tener presente che Lutero si era già battuto in un altro duello - come abbiamo già detto - vicino a Erfurt, da cui era uscito malconcio; ma, con questo secondo duello, in cui uccise il suo collega di studi, Jéròme Buntz, oltre che incorrere in due scomuniche, Lutero, per sfuggire alla condanna a morte, andò dal suo protettore ed amico Johannes Braun, vicario collegiale a Eisenach, per chiedergli consiglio. Fu nel giugno 1505. Braun lo sollecitò ad entrare in un Ordine religioso, proprio per evitare un processo giudiziario! E così Lutero, il 17 luglio 1505, riparò nel convento degli "Eremiti Agostiniani", allora coperto dal "diritto d'asilo"! (3)
Qui, vorrei ricordare il famoso "Ludovico" di manzoniana memoria, che riparò anch'egli in un convento - dopo aver fatto un "occhiello nel ventre" di quel "signorotto"! - da dove, però, pentito e rinnovato nello spirito, uscì col nome di "Fra Cristoforo" di santa memoria! Lutero, invece, si farà anch'egli, sì, “frate", ma, benché reo confesso del suo delitto, rimase sempre un frate inquieto e turbato! Lo dirà lui stesso in una sua predica dell'anno 1529: «Ego fui.ego monachus, der mit Ernst fromm wollt sein. Sed je tieffer ich hin ein gangen bin, yhe ein grosser bub et homicida fui» (-lo fui, io monaco, che voleva essere seriamente pio. Invece, sprofondai ancor di più: io sono stato un grande mascalzone e omicida - WA W 29,50,18).
E in un altro discorso conviviale di Lutero, trascritto da Veit Dietrich, si legge: «Singulari Dei consilio factum sum monachus, ne me coperent. Alioqui, essem facillime captus. Sic autem non poterant, quiaes nahm sich der ganze orden mein an» (=Per un singolare consiglio di Dio sono divenuto monaco affinché non mi arrestassero. Altrimenti, sarei stato facilmente arrestato! Ma così non poterono, poiché tutto l'Ordine si occupava di me - WA Tr 1,134,32). L'edizione (delle opere di Lutero) di Weimar si apre col suo primo Trattato, redatto da lui stesso, che inizia così: «Tractatulus doctoris Martini Lutherii, Ordinari Universitatis Wittembergensis. De his qui ad ecclesias confugiunt tam indicibus secularibus quar Ecclesiae Rectoribus et Monasteriorum Prelatis perutilis» (=Un breve Trattato del dott. Martino Lutero, ordinario dell'università di Wittenberg, su coloro che fuggono nelle chiese; assai utile per i giudici secolari come per i rettori ecclesiastici e prelati dei monasteri).
Questo trattatello anonimo vide la luce nel 1517, mentre l'edizione del 1520 apparve col nome di Lutero. Ora, tutto fa pensare che quel Trattatello fu stampato, per la prima volta, proprio nello stesso anno che Lutero espose le sue 95 tesi, allo scopo di una giustificazione personale. Difatti, in esso vi si fa menzione che, secondo la legge di Mosé, chi uccide un uomo senza essergli stato nemico, per errore e senza premeditazione, non è reo di morte! (4)
2° Martin Lutero "suicida"


Abbiamo già detto che Lutero, nonostante si fosse fatto "frate", non ebbe mai pace interiore, ma attraversò continui periodi di crisi, di lotte morali e di angosce di spirito spaventose. Anche questo può far pensare che la sua entrata in religione sia stata il frutto di una "vocazione" molto discutibile, e piuttosto il risultato della paura di un sicuro processo e di una sicura condanna, anche a morte, e non certo, quindi, una chiamata divina, né un bisogno inferiore di solitudine e di preghiera! Una crisi, quindi, la sua, che si fece sempre più accentuata con l'andare degli anni, fino a portarlo... al suicidio!
Lo psicanalista M. Roland Dalbiez, nel suo studio su "L'angoscia di Lutero", gli attribuisce «...una nevrosi d'angoscia gravissima, talmente grave che ci si può domandare se essa non sia dovuta a uno stato-limite alle frontiere tra la nevrosi, da una parte, e il "raptus suicida", dall'altra parte, un automatismo teleologico anti-suicida». È un testo di uno psicanalista, questo, sulle orme del pensiero di Freud,  che vorrebbe insinuare una "non libertà" di un Lutero ammalato di nervi.
Ora, questo potrebbe forse spiegare perché Lutero, per sfuggire alla voce della sua coscienza e soffocare in lui la continua angoscia, abbia ripreso la tesi - falsamente attribuita a Sant'Agostino! - sulla "giustificazione" mediante la sola Fede, senza le opere, grazie al sacrificio del Cristo che ha portato su di Sé i peccati degli uomini.
Leggiamo, qui, il testo di Lutero (un po' contorto):
"Bisogna guardare il Cristo quando tu vedrai che i tuoi peccati ti si sono attaccati; tu, allora, sarai come al sicuro di fronte ai peccati, alla morte e all'inferno. Tu devi dire, allora: i miei peccati non sono miei, perché essi non sono in me, ma sono in un altro, cioè nel Cristo, per cui non possono nuocermi. Ci vuole uno sforzo estremo, infatti, per poter afferrare queste cose attraverso la Fede e crederle fino al punto di dire: io ho peccato e io non ho peccato, affinché sia vinta la coscienza, questa dominatrice potentissima che spesso ha trascinato gli uomini alla disperazione, al coltello o alla corda» (5)... «Si conosce l'esempio di un uomo che, tormentato nella sua coscienza diceva: io non ho peccato! In realtà, la coscienza non può essere tranquilla se non quando i peccati sono allontanati dal suo sguardo. Bisogna, quindi, che essi siano allontanati dal tuo sguardo, in modo tale che tu abbia a guardare non quello che tu hai fatto, non la tua vita, non la tua coscienza, ma il Cristo...» (6). È chiaro che un tale testo non ha nulla di automatico, bensì è un ragionamento ben sofisticato; è un rifiuto, cioè, della verità! lo ho peccato - dice Lutero - ma io non voglio riconoscerlo. Ora, questo è un immergersi nella menzogna, è un volersi auto-suggestionare; è come un ammirarsi in ogni peccato e in ogni errore, tacitando la coscienza come Caino di fronte al suo peccato!
Di sicuro, anche Lutero non si era certo rasserenato con l'inventarsi quella sua "giustificazione" mediante la sola Fede! né egli stesso vi ha mai aderito in pieno, perché ben sapeva di essersi "fabbricato" un proprio sistema religioso e morale, e perciò ben sapeva che era tutto una menzogna, come quella di un fanciullo che dice alla madre, diventando rosso in viso: «Non sono stato io!».
Comunque, questo suo odio contro la coscienza non può essere certo di origine divina e neppure umana, ma solo frutto di una tentazione demoniaca! Satana, infatti, sa bene che spingendo un'anima contro la ragione e la coscienza, lui vi entra da maestro! «Un peccato riconosciuto, è un peccato perdonato!» gli sussurrava. E ancora: «Ad ogni peccato c'è misericordia!». Negando, però, di essere colpevole, uno si ravvolge in un orgoglio assurdo, perché il peccato, che lui dice "non commesso", non gli viene perdonato, ma anzi lo segue sino a diventarne un'idea fissa e perfino una fonte di nevrosi, per cui non gli resterà altro che il suicidio per tacitare la coscienza e... Dio! È come una fuga in avanti!
Ora, fu questo il cammino interiore di Lutero! Sulla sua crisi d'angoscia sentiamo anche la testimonianza di Melantone (7), il quale scrisse: «Spesso, quando egli (Lutero) pensava con attenzione alla collera di Dio o ai clamorosi esempi di castighi divini, egli veniva come colpito da un terrore tale che perdeva quasi la conoscenza. ("Subito tanti terrores concutiebant, ut paebe exanimaretur"). lo stesso, prendendo parte, un giorno, a una discussione dottrinale, l'ho visto come colpito da costernazione e andare a stendersi su di un letto in una camera vicina, alternando una sua invocazione a un versetto che ripeteva di frequente: «Dio ha come rinchiuso gli uomini nel peccato per usare misericordia a tutti!» ("Conclusit omnes sub peccatum ut omnium misereatur"!). Lutero, quindi, si sforzava di gettare su Dio la responsabilità dei peccati! Ma gli uomini non sono obbligati al peccato perché essi hanno la libertà di respingere le tentazioni, né essi sono prigionieri di un "self-arbitre", come l'ha affermato Lutero!
Anche Cochlacus ci racconta di una crisi che colse Lutero quando egli era monaco. Assistendo, cioè, in coro, alla lettura del Vangelo di San Marco, là dove si parla di quell'uomo "posseduto" dal diavolo, Lutero cadde a terra gridando: «Non sono io! non sono io! 
In un frammento del "Propos de Table" viene riportata una conversazione tra Lutero e il pastore di Gùben, M. Léonardt, avvenuta nell'anno 1551: «Ci disse che, quando egli era prigioniero, il diavolo l'aveva malvagiamente tormentato e che aveva riso di tutto cuore quando egli (Lutero) aveva preso in mano un coltello, dicendogli: "Su via! ucciditi!"». ...E ci disse che lui (Lutero) aveva spesso dovuto gettare lontano da sé il coltello.... e che un giorno dovette fare lo stesso quando egli, vedendo per terra un filo, l'aveva raccolto, assieme a tanti altri fili, si da farne una corda alla quale egli avrebbe potuto impiccarsi!... Poi ancora ci disse che il diavolo l'aveva spinto fino al punto che egli non era più capace di recitare il Pater noster né di leggere i Salmi, che pure egli così bene conosceva! ... e che il dott. Lutero gli aveva detto: «Questo mi è capitato molto spesso, tanto da prendermi in mano un coltello... e che cattivi pensieri mi venivano in mente così, da non poter più pregare..., e il diavolo mi ha perfino cacciato fuori dalla stanza!». Più che una tentazione, quindi, possiamo dire che in Lutero c'era, ormai, come una morbida impulsione al suicidio!
Voglio anche far notare, adesso, la predilezione che Lutero, a Wittenberg, aveva verso un giovane suo allievo di nome Jéròme Weller. Era un giovane anch'egli portato alla malinconia, alla tristezza; e Lutero gli dava questi consigli: «Ogni volta che il demonio ti tormenta con questi pensieri di tristezza, cerca subito la compagnia dei tuoi simili, o mettiti a bere o a giocare, e fai discorsi licenziosi, e cerca di divertirti! Dobbiamo fare anche qualche peccato, per odio e disprezzo verso il demonio, per non dargli l'occasione di crearci degli scrupoli per niente!...». E continuava: «...e quale altra ragione credi tu che io abbia per bere sempre meno acqua, per avere sempre meno ritegno nel parlare, e di amare sempre più i buoni pranzi? Con questo, anch'io voglio infischiarmi del diavolo e tormentarlo, lui che vuole tormentarmi e burlarsi di me! Oh! se potessi trovare anche qualche buon peccato per beffarmi del diavolo e per fargli comprendere che io non riconosco alcun peccato e che la mia coscienza non me ne rimprovera alcuno!... Bisogna assolutamente allontanare dai nostri occhi e dal nostro spirito ogni decalogo!...». Da notare che Lutero, allora, era pur sempre professore di Sacra Scrittura! Ebbene, come tale, in un suo commentario, del 1535, su l'Epistola ai Galati di San Paolo, domandandosi come sia stata abrogata la legge mosaica, Lutero così spiegava: «Essa è, tutt'intera, senza riserve, un testo che non può più né accusare né tormentare i fedeli! In essa vi è una dottrina della più alta importanza che bisogna predicare sui tetti, poiché essa porta serenità alle nostre coscienze, specie nelle ore in cui lo spavento ci opprime, lo l'ho detto di frequente e lo ripeto ancora, perché non lo si dice mai abbastanza che il cristiano, che abbraccia i benefici del Cristo con la Fede, è assolutamente al di sopra di ogni legge, ed è libero da ogni obbligo sui diritti della legge... Quando Tommaso (leggi: S. Tommaso d'Aquino) e gli altri teologi della Chiesa parlano della legge di Mosé, essi dicono che sono le leggi giudiziarie e cerimoniali dei Giudei che sono state abrogate, ma non le leggi morali (cioè quelle del Decalogo); ma costoro non sanno quel che si dicono!...». Povero Lutero!... ma ormai era all'apostasia totale!
Poco prima della sua morte, una sera, Lutero era assiso su una panchina, solitario, nel suo giardino a Wittemberger. Lo raggiunse la sua convivente, l'ex suora Caterina Bora. Lutero era immerso in un cupo silenzio, guardando il cielo. D'improvviso, egli grida; «0 bel cielo! io non ti vedrò mai più!». Caterina, terrificata, si avvicinò a lui. "E se noi ritornassimo indietro?", gli disse. "No - rispose Lutero - inutile sognarcelo!". "E perché?" mormorò la donna. "Il carro, ormai, è troppo impantanato!" (8). E per sfuggire la vista di quel cielo che lo eccitava e gli procurava rimorsi, Lutero si alzò e andò a chiudersi nella sua casa. La grazia di Dio, anche quella volta, era passata invano! E ormai, in lui, c'era un follia ossessiva che non t'abbandonava più, e una disperazione che gli rodeva il cuore!
"Io non posso più pregare senza maledire!» diceva. «Invece di dire: il tuo nome sia santificato, io dico: Maledetto! sia dannato il nome del papista! Invece di dire: il Tuo Regno arrivi! Io dico: Maledetto! che sia dannato e annientato il papismo! Invece di dire: che la Tua Volontà sia fatta, io dico: Maledetto! che siano dannati i piani dei papisti!... Ecco la mia preghiera!». La vita dell'apostata Lutero, quindi, era già diventata un vero inferno per lui! Ed egli temeva la morte, pur invocandola di continuo: «II mondo è sazio di me e io sono sazio di lui! - diceva - ma presto farò divorzio... Ah, se ci fosse qui un turco per uccidermi!...». Nel suo "Propos de Table" aveva scritto: «II demonio spinge gli uomini dapprima alla disobbedienza e al tradimento, come Giuda; poi li spinge alla disperazione, in modo che essi finiscano col perdersi o strangolarsi»! E continuava dicendo che il demonio «ha una voce così terribile da spingere alcuni uomini, dopo un colloquio notturno con lui, a farli trovare, il giorno dopo, morti! E questo arriverà anche a me!».
È una allucinante riflessione che prova come Lutero avesse chiaro davanti a sé la sua fine, E questo dimostra anche che non sempre il suicida compie un gesto di follia, ma può anche compiere un gesto lucido di possessione diabolica!
Il "suicidio" di Lutero


Vi sono varie "testimonianze", protestanti e cattoliche, su questo ultimo gesto disperato di Lutero. Qui, ci basti ricordare la principale; quella del suo servo personale, Ambrogio Kuntzell (o Kudtfeld) il quale, colpito nell'animo da quel terribile castigo di Dio sul suo padrone, finì col confessare tutte le particolarità!
Ecco la sua testimonianza: «Martin Lutero, la sera prima della sua morte, si lasciò vincere dalla sua abituale intemperanza e con tale eccesso che noi fummo obbligati a portarlo via, del tutto ubriaco, e coricarlo nel suo letto. Poi, ci ritirammo nella nostra camera, senza nulla presagire di spiacevole! All'indomani, noi ritornammo presso il nostro padrone per aiutarlo a vestirsi, come d'uso. Allora - oh, quale dolore! - noi vedemmo il nostro padrone Martino appeso al letto e strangolato miseramente! Aveva la bocca contorta, la parte destra del volto nera, il collo rosso e deforme. Di fronte a questo orrendo spettacolo, fummo presi tutti da un grande timore! Non di meno corremmo, senza alcun ritardo, dai principi, suoi convitati della vigilia, ad annunziare loro quell'esecrabile fine di Lutero! Costoro, colpiti dal terrore come noi, ci impegnarono subito, con mille promesse e coi più solenni giuramenti, ad osservare, su quell'avvenimento, un silenzio eterno, e che nulla di nulla fosse fatto trapelare. Poi, ci ordinarono di staccare dal capestro l'orribile cadavere di Lutero, di metterlo sul suo letto e di divulgare, dopo, in mezzo al popolo, che il "maestro Lutero" aveva improvvisamente abbandonata questa vita»! Questo è il racconto della morte-suicida di Lutero, fatta dal suo domestico Kudtfeld; un "racconto" che fu pubblicato, ad Aversa, nel 1606, dallo scienziato Sédulius. Il dottor de Coster - subito chiamato! - fu lui che constatò che la bocca di Lutero era contorta, che la parte destra del suo viso era nera e che il collo era rosso e deforme, come se fosse stato appunto strangolato. Questa sua diagnosi la si può verificare su una incisione che Lucas Fortnagel fece subito il giorno dopo la morte di Lutero, e che fu pubblicata da Jacques Maritain nella sua opera: “Tre riformatori", a pagina 49 (dell'edizione francese) (9). Lutero, quindi, non morì di morte naturale, come si è falsamente scritto su tutti i libri di storia del protestantesimo, ma morì "suicida" (10) nel suo stesso letto, dopo una lautissima cena in cui, come al solito, aveva bevuto smisuratamente e si era rimpinzato di cibo oltre ogni limite!
Sopra il suo letto, un giorno, egli vi aveva scritto: «Papa, da vivo ero la tua PESTE; da morto sarò la tua MORTE»! ("Pestis eram vivus, moriens ero mors tua"). C'è da inorridire, ma anche da meditare!
Uno storico contemporaneo narra che una frotta di diavoli, sotto sembianza di corvi, volarono attorno al suo corpo gracchiando paurosamente, e che l'accompagnarono, poi, fino alla tomba! E c'è anche quest'altro episodio storico:
"A Graz (Austria), un Padre francescano, in una sua predicazione, affermava che Lutero era dannato... Una sera, col pretesto di amministrare una ammalata, un uomo lo venne a cercare... Invece di trovarsi davanti ad una ammalata, il Padre francescano si trovò in presenza di 5 uomini che, mostrandogli una rivoltella, gli dissero che se non dava la prova che Lutero era all'inferno, non sarebbe uscito vivo dalla stanza. Il Religioso, vero uomo di Dio, depose il SS. Sacramento che portava con sé e si mise in adorazione; poi, recitò la preghiere dell'esorcismo... Improvvisamente, fu bussato alla porta. «Entrate!» -dissero gli uomini; ma nessuno entrò! Pochi istanti dopo, però, la porta si aprì e Lutero, incandescente come un carbone ardente, entrò nella camera. Era in mezzo ad altri due demoni! I cinque uomini presero la fuga...- (Cfr. B.C. 63, p. 4, 1982).
A questo punto, ci si può porre la domanda: ma allora Lutero è all'inferno? E si potrebbe dire di sì! L'arco della sua vita, infatti, tra quell'omicidio giovanile e quel suicidio a fine vita, è tutto marcato da una esistenza di "eretico insensato" (Pio VI - 9 marzo 1783), di bestemmiatore accanito, di bevitore impenitente, di gozzovigliatore formidabile (fu definito, per questo, il "doctor plenus"!), di spergiuro e sacrilego (passò anche a sacrileghe nozze con una "monaca", Caterina Bora, da lui stesso tirata fuori dal monastero per liberarla dalle bende monacali!), di apostata (la sua cosiddetta "riforma" fu una sovversione, "ab imis", della Fede, della Morale, della costituzione divina della Chiesa!), di continui peccati impuri (sì da essere chiamato dai suoi conterranei: "Saxonicus porcus"!), di facile scurrilità e trivialità (cfr. "Discorsi conviviali".,, tutto uno schifo!), di violento nelle passioni, di uomo anormale di sindrome patologica, di sfrenato egocentrismo, di megalomania, di aggressività verbale incontrollata, di sessualità al parossismo, di aizzatore alla guerra dei contadini (che abbandonava per mettersi coi padroni; scrisse perfino che «era tempo ormai di sgozzare i contadini come cani rognosi» - cfr. Eri. IlI, 306), di monoideismo, di nemico mortale del Papa, di affossatore della Messa («lo dichiaro che tutti i postrìboli, gli omicidi, i furti, gli assassini e gli adulteri sono meno malvagi di quella abominazione che è la messa papista!»), di appartenenza alla massoneria (era affiliato alla sètta di Rosacroce (11) e ... chi più ne ha più ne metta! Ma allora, dopo tutto questo po' di roba, chi avrebbe ancora il coraggio di definire Lutero "il nostro comune maestro", come lo definì in una sua vanesia espressione un cardinale? E come si potrebbe spiegare quello che il cardinale Willebrands, Segretario per l'Unità dei Cristiani, affermò, nel 1970, in occasione dell'Assemblea plenaria della "Lega Mondiale Luterana", a Evianne (Ginevra), che, «nel corso dei secoli, la persona di Martin Lutero non è stata apprezzata rettamente e la sua teologia non è stata sempre resa in modo giusto»? E quell'altro che scrisse sulla Rivista "Documentation Catholique" del luglio 1983, sotto la foto di Lutero: «Lutero, testimonio di Cristo»?... E, peggio ancora, come si può accettare quello che scrisse Giovanni Paolo II, nel cinquecentesimo anniversario della nascita di Lutero, in una lettera indirizzata allo stesso Cardinal Willebrands e firmata, purtroppo, dal Papa stesso, nella quale si riconosce a Lutero una "profonda religiosità"?... Ma non è proprio Lutero che derideva la preghiera mentale e il raccoglimento interiore? E non è lui che, col suo "esto peccator et pecca fortiter", fa ricordare il "fai ciò che vuoi", che è il comandamento prima della nuova legge dettata dal diavolo Alwass ad Aleister Crowley? (12). Lutero all'inferno, perciò, non può essere che una logica conseguenza di tutta questa sua vita sbagliata e fortemente peccaminosa! Anche se, purtroppo, oggi, per un ecumenismo distorto, di matrice massonica, Lutero, già cacciato fuori dalla Chiesa da cinque secoli di storia e dal Concilio- "de fide"! -di Trento, lo si sta facendo di nuovo rientrare dalla porta, lodato perfino con pubblico elogio! Ma per noi, ma per la Storia, Lutero rimane sempre un omicida e un suicida; rimane sempre l'eretico, il "porcus Saxoniae", il frate "pagano", il degenerato clandestino sulla nave di Pietro, il frate che, come Giuda, finì, anche lui, "In locum suum"... (all'inferno!).
CITAZIONI LUTERANE...


«lo non ammetto che la mia dottrina possa essere giudicata da alcuno, neanche dagli angeli.
Chi non riceve la mia dottrina non può giungere alla salvezza».
(Martin Lutero, Weim.,X, P. Il, 107, 8-11)
« Se la moglie trascura il suo dovere (sessuale), l'autorità temporale ve la deve costringere, oppure metterla a morte».
(Martin Lutero)
«Questi idioti di asini (cattolici) non conoscono che le tentazioni della carne. (...). In realtà, a queste tentazioni il rimedio è facile: vi sono ancora donne e giovanette...».
(Martin Lutero)
«Il motivo per cui bevo tanto più forte, parlo tanto più licenziosamente, gozzoviglio tanto più frequentemente, è quello di pigliare in giro il diavolo che voleva canzonarmi».
(Martin Lutero)
«Chi non si oppone con tutto il suo cuore al papato non può raggiungere l'eterna felicità!».
(Martin Lutero)
«La messa non è un sacrificio, o l'azione del sacrificatore. Dobbiamo considerarla un sacramento o un testamento. Chiamiamola benedizione, eucarestia, mensa del Signore, memoriale del Signore. Le si dia qualunque altro nome, purché non la si macchi col nome di "sacrificio"».
(Martin Lutero)
"All'indomani, noi ritornammo presso il nostro padrone per aiutarlo a vestirsi, come d'uso. Allora - oh, quale dolore! - noi vedemmo il nostro padrone Martino appeso al letto e strangolato miseramente! Aveva la bocca contorta, la parte destra del volto nera, il collo rosso e deforme. Di fronte a questo orrendo spettacolo, fummo presi tutti da un grande timore!».
(dalla deposizione di Ambrogio Kuntzell, servo personale di Martin Lutero)
NOTE
1) Lutero stesso lo fece credere quando disse che la sua entrata in convento "fu involontaria, per la paura di una morte subitanea» (cfr. Wa W 8,573, 31). Da notare, però, che Lutero parlò di "paura della morte" anche quando si riferiva a una grave ferita di spada che si sarebbe fatto mentre era in cammino, con un suo compagno, nelle vicinanze di Erfurt. Sarebbe certamente morto se un medico non avesse curata la ferita in tempo!
2) I due storici più competenti, in Germania, della vita di Lutero e dei tempi della Riforma, ossia il Dott. Theobald Beer e il Prof. Remigius Baumer, hanno avvalorato sia il materiale, sia i documenti nuovi del Dott. Dietrich Emme, raccomandandone anche la pubblicazione.
3) Col nome di "Asilo", fin dai tempi remoti, si è designato un luogo al quale è connesso il privilegio di mettere al coperto da ogni persecuzione chiunque vi fosse rifugiato; ordinariamente un luogo sacro, considerato, quindi, sotto la particolare potestà, tutela e vendetta della divinità. Si chiama, "Diritto di Asilo" l'immunità stessa di cui godono quei luoghi o edifici e, quindi, l'immunità così partecipata alla persona che vi si rifugia. Ne seguiva che un luogo sacro era sottratto alla giurisdizione dello Stato e cadeva sotto la giurisdizione ecclesiastica (can. 1160). Questo istituto giuridico è antichissimo (Cfr. "Enciclopedia del Cristianesimo", Casa Editrice Tariffi - Roma).
4) Ctr. WA W 1,3; 4 Mosè XXXV, 5 - Mosè XIX, 4 - Josuè XX.
5) «Est autem maximus labor posse haec ita fide apprhendere et credere ut dicas: peccavi et non peccavi, ut sic vincatur consciencia, potentissima domina quae saepe ad desperationem, ad glaudium et ad laqueum homines adigìt».
6) Cfr. "In Esaiam prophetam scholia", c. 53.
7) Filippo Schwarzerde, detto Melantone (1497-1560) fu un amico e collaboratore di Lutero nell'opera della Riforma protestante, come teorico e promotore della Riforma; ma fu uno spirito oscillante tra luteranesimo, zwinglismo e calvinismo, il tipico "conciliativista". Fu l'autore, poi, che redasse la "Confessio Augustana".
8) Cfr. "Storia di Lutero", Audin, 1846, T. IlI, p. 180.
9) In quest'opera, Maritain offre anche una lista impressionante di amici, di compagni e primi discepoli di Lutero che si suicidarono. Una vera epidemia!
10) Anche l'Oratoriano Th. Bozio, nel suo "De Signis Ecclesiae" del 1592, scrive che apprese da un domestico di Lutero che il suo padrone fu trovato impiccato alle colonne del suo letto. Anche il dott. G. CIaudin, nella "Cronaca Medica" (1900, p. 99) ha pubblicato il testo di quella "deposizione" del domestico, dalla quale ecco l'essenziale: «Per la gloria di Cristo, io svelerò al grande giorno quello ch'io vidi e annunciai ai principi di Elsleben: Martin Lutero si lasciò andare alla sua inclinazione, di modo che noi dovemmo portarlo via in uno stato di ubriachezza completa e metterlo a letto... L'indomani, andando dal mio padrone per aiutarlo a vestirsi, lo trovai, oh dolore! lui, il mio padrone, impiccato al suo letto, letteralmente strangolato. Andai a prevenire i prìncipi che mi scongiurarono di non parlare a nessuno di questo avvenimento.
11) Cfr. Ennio Innocenti, Inimica Vis, Roma 1990, p. 10.
12) Cfr. John Symonds in "La Grande Bestia", p. 96 ss.

giovedì 30 dicembre 2010

L'Amore non è amato...

Fonte: Vocazione Religiosa.

[Dagli scritti della Beata Maria Deluil-Martiny,l'eroica Fondatrice delle Figlie del Cuore di Gesù]

Sorelle e Figlie carissime, vorrei comunicarvi la celeste Passione di Gesù Cristo. Egli è venuto a portare il fuoco dell'Amore sulla terra; che posso desiderare se non che esso infiammi le vostre anime? Vorrei vedervi divorate da questo amore; ma non di un amore di desideri e di sentimenti infecondi, bensì di un amore in opere e verità che va fino all'estrema dedizione e si lascia portare dall'Amato fino all'estrema immolazione.

Per aggiungere fiamme al vostro fuoco di amore vi ricordo e vi metto al vivo come è odiato in questo tempo infelice Colui che amiamo; quanto è disprezzato Colui che adoriamo; quanto è oltraggiato Colui che serviamo in ginocchio.

L'Amore non è conosciuto, l'Amore non è amato, Sorelle mie! Quando ho visto l'odio del mondo per Dio che è Amore; il disprezzo e gli oltraggi del mondo per Colui che è Padrone di ogni potere in cielo e in terra; quando ho visto l'Armata di Satana devastare il campo delle anime per le quali il mio Salvatore ha versato il Suo Sangue, «il mio cuore si è liquefatto come cera nel mio petto», e per mezzo dell'amore che desidera fare di più di quanto è in suo potere e crede che tutto gli sia possibile, ho osato chiedere al Divino Amore di formarsi una piccola falange di Vergini che siano i Serafini della terra, anime pronte alla sofferenza ardenti nella dedizione e che nulla, all'infuori dell'obbedienza guidata dalla prudenza che spetta all'Autorità, possa arrestare sulla via del sacrificio; anime completamente abbandonate alla sua azione divina, nelle quali si compiano interamente i suoi disegni di misericordia; anime eucaristiche riparatrici e apostoliche; anime ostie unite a Lui, trasformate in Lui, offerte e sacrificate da Lui; che non vivono più, ma nelle quali Egli viva, la cui vita sia nascosta con Lui in Dio; ostie vive nelle quali Egli completi, in un certo modo, la sua Passione, e di cui Egli disponga secondo il suo beneplacito per la sua gloria.

Sorelle, è un sogno il mio? A voi la risposta, a voi il provare a Gesù con lo slancio e la generosità dei vostri cuori, che Egli non vi ha chiamate invano nel suo santuario e attorno al suo altare!

Nella pace dei vostri monasteri, a malapena vi giunge l'eco lontana delle bestemmie del mondo. Senza dubbio, però, prima di entrare in religione e anche dopo, dall'aspetto esterno della società, dagli avvenimenti compiutisi sotto i vostri occhi, e grazie all'istinto delle vostre anime cristiane avete intravveduto qualche cosa degli errori dei tempi attuali; addolorate per gli oltraggi fatti a Dio, voi avete deciso di consacrarvi tutte a Lui nella preghiera e nella riparazione.

La vita della Chiesa è cambiata con il concilio [Vaticano II]. E il bilancio è devastante.

Intervista rilasciata il 27 dicembre dal Superiore generale della Fraternità S. Pio X in Nuova Caledonia, al giornale Nouvelles Caledoniennes.


[..]
- La fraternità S. Pio X si qualifica tradizionalista quando la si accusa di fondamentalismo. Voi vi opponete tuttavia a tutti gli avanzamenti progressisti della Chiesa dal 1962...
La nostra situazione è controversa, ma è anche legata a ciò che accade nella Chiesa Cattolica. La vita della Chiesa è cambiata con il concilio [Vaticano II]. E il bilancio è devastante. È diminuita la quantità di sacerdoti e suore. C'è una perdita di vitalità religiosa diffusa. Si deve fare qualcosa per ripristinare la situazione. La totale libertà demolisce la società. Gli uomini hanno bisogno di un aiuto speciale per conoscere il cammino di Dio e la salvezza delle anime. Del resto, il Papa è tornato a idee tradizionali. Egli vede molto bene che c'è una deviazione che si deve correggere. Siamo forse molto più vicini al Papa di quanto sembri.

- Siete stati sorpresi da Benedetto XVI che ha detto di tollerare l’uso del preservativo, in casi eccezionali, per combattere l'AIDS?
Sono stato un po' deluso dal libro. Ma io sono molto soddisfatto del cambiamento intervenuto dopo: è chiaro che Roma vuole chiarire la questione del preservativo che ha creato confusione. Il preservativo non è il modo per risolvere questo problema di salute. Va contro la natura dell'atto di matrimonio, perché impedisce il normale risultato di tale atto. La famiglia è molto importante. L'atto deve essere fatto nel matrimonio. C'è una disciplina da rispettare che aveva molto valore in passato, e che oggi è disprezzata.
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- Vi accorgete di essere controcorrente rispetto all'evoluzione della società?
Sì, me ne rendo ben conto. Ma non mi imbarazza. A volte dico persino che ci prendono per dei Marziani. Ma non siamo marziani.

- Lo scopo della vostra comunità è sempre di far parte della Chiesa cattolica?
Sì, abbiamo sempre sostenuto che non vogliamo fare banda a parte. Manteniamo che siamo cattolici e lo restiamo. Ci auguriamo che Roma ci riconosca come veri vescovi. D’altronde, non si usa più la parola ‘scismatici’ contro di noi. Quindi se non siamo scismatici né eretici, significa che siamo chiaramente cattolici. Il Papa ha detto che c'è solo un problema di ordine canonico. Basta un atto di Roma per dire che è finito e che noi rientriamo nella Chiesa. Ci si arriverà. Sono molto ottimista.  
 
- Accettereste allora le decisioni del Vaticano II?
No, non in questo modo. Chiediamo che vengano dissipate le grandi ambiguità del Vaticano II.

- Che cos’è che chiamate le grandi ambiguità?
In primo luogo, la libertà religiosa: che cosa significa che ogni uomo ha il diritto di scegliere la sua religione? No, il buon Dio ne ha fondata una sola. Poi, l'ecumenismo: è possibile che un uomo si possa salvare in altre religioni diverse dalla cattolica? No, c'è solo la Chiesa che Salva.

- Tuttavia diverse religioni esistono nel mondo. Quale legittimità avete per negarle?
Vedo che esistono, ma non arrivano a produrre gli effetti della religione cattolica. Per affermarlo, ci si appoggia su quanto dice la Chiesa antica. L'approccio della Chiesa è bene spiegato nel Vaticano I. Ci sono un sacco di segni esteriori che permettono di riconoscere che la religione cattolica è la vera. È una scienza che si impara. L’ideale sarebbe naturalmente di dimostrare l'esistenza di Dio. Ci si avvicina.

Concilio Vaticano II - una storia mai scritta di Roberto de Mattei ...

 



 
 
Testo integrale del Prof. de Mattei del suo intervento al Convegno sul Concilio Vaticano II, organizzato dai Francescani dell'Immacolata.
 
Fonte:http://chiesaepostconcilio.blogspot.com/2010/12/convegno-di-roma-sul-vaticano-ii-16.html
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Istituto Maria Santissima Bambina
Roma, 16 dicembre 2010
Concilio Vaticano II

1. L’immagine della Chiesa nel 1962

Eccellenze reverendissime, Monsignori, Reverendi Padri, Signore e Signori,

chi vi parla è uno storico ed è dalla storia che vorrei partire, tornando assieme a voi a quel giorno dell’11 ottobre 1962, in cui si aprì a Roma il Concilio Vaticano II, ventunesimo Concilio ecumenico della storia della Chiesa.

Il lungo corteo dei Padri conciliari, che quella mattina uscì dalla Porta di Bronzo e avanzò lentamente all’interno della Basilica di San Pietro stracolma, offriva una straordinaria immagine della Chiesa militante sulla terra.

In testa i superiori di ordini religiosi, gli abati generali e i prelati nullius; quindi i vescovi, gli arcivescovi, i patriarchi, i cardinali, e per ultimo, in sedia gestatoria, scortato dalla Guardia nobile, tra gli applausi della folla, il Papa Giovanni XXIII. Mentre il corteo dei padri incedeva con solennità, i cantori intonarono il Credo e poi il Magnificat. Il corteo era lungo complessivamente circa 4 chilometri; vi partecipavano quasi tremila dignitari della Chiesa. Di essi 2.381 vescovi, direttamente collegati mediante la successione apostolica ai primi Apostoli. Essi erano riuniti attorno al sovrano supremo, il Papa, Vicario di Cristo, con giurisdizione piena e diretta su tutti i vescovi e su tutti i fedeli del mondo.

La presenza del Vicario di Cristo e dei successori degli Apostoli, nel quadro incomparabile della Basilica di San Pietro, fecero di quella cerimonia uno spettacolo unico al mondo. Mai come in questo momento la Chiesa cattolica manifestò il suo carattere, gerarchico e visibile: visibile perché la Chiesa militante, in quanto fondata sull’Incarnazione del Verbo, deve rendere manifesto nella sua struttura il suo aspetto invisibile, come l’organismo umano rende tutto l’uomo visibile, benché la sua anima in sé resti invisibile. Per amare questa gerarchia era, ed è, necessaria una profonda umiltà. Bisogna ammettere che non esiste uguaglianza nel mondo creato, che tutto dipende da Dio, che partecipa l’essere a ogni creatura in maniera diversa: e con l’essere ogni creatura riceve qualità, doni, grazie in base alle quali occupa nella società terrena e in quella soprannaturale un posto diverso. Il primo peccato, quello degli angeli ribelli, fu il rifiuto di riconoscere la sapienza di Dio, nel calare la propria divinità nel seno di un'umile creatura, come avvenne per il Verbo Incarnato, e per elevare questa creatura, Maria, al vertice dell’universo creato. I cori degli Angeli Fedeli esprimono nel cielo questa sublime dipendenza gerarchica e la Chiesa e la società cristiana sono chiamate a riflettere sulla terra la gerarchia dei cori celesti.

Universalità, sacralità, gerarchia: questa era l’immagine che l’11 ottobre del 1962 di sé dava al mondo la Chiesa militante sulla terra, soprannaturalmente unita alla Chiesa sofferente e alla Chiesa trionfante nell’unica Comunione dei Santi. La Chiesa appariva davvero la città posta sul monte di cui parla il Vangelo (Mt, 5,14).

2. Il rapporto tra la Chiesa e il mondo

Ma qual era l’immagine che di sé offriva il mondo all’inizio degli anni Sessanta?
Il mondo di quegli anni era immerso in un clima psicologico di ottimismo, se non di euforia. Tre icone brillavano nel firmamento internazionale, incarnando questo clima di ottimismo: Nikita Sergeevic Krusciov, dal 27 marzo 1958 premier dell’Unione Sovietica; Angelo Giuseppe Roncalli, asceso al soglio pontificio il 28 ottobre di quello stesso 1958 con il nome di Giovanni XXIII e John Fitzgerald Kennedy, che il 21 gennaio 1961 aveva assunto la carica di Presidente degli Stati Uniti.

Il 12 aprile 1961 il maggiore sovietico Yuri Gagarin aveva compiuto il primo volo di un uomo nello spazio. La sua impresa sembrava suggellare un’epoca di trionfo della scienza, campo in cui l’Unione Sovietica contendeva agli Stati Uniti il primato nel mondo. Ma il 13 agosto di quello stesso 1961 era iniziata la costruzione del Muro di Berlino e l’imperialismo sovietico estendeva la sua ombra minacciosa su larga parte del mondo.

L’influenza che il comunismo esercitava sul mondo, più che politica e militare, era culturale e psicologica. La filosofia marx-hegeliana dominava negli ambienti accademici e mediatici e anche nel linguaggio comune correvano termini mutuati da quella filosofia immanentista, come “senso della storia”, “corso dei tempi”, “apertura e chiusura”, “liberazione e repressione”. Si trattava di una visione dialettica che si esprimeva nelle nuove parole d’ordine lanciata dalla propaganda comunista: il “dialogo”, inteso come dissolvimento di ogni certezza e verità; la “coesistenza pacifica”, intesa come processo per disarmare psicologicamente l’avversario; lo “sviluppo” e l’“emancipazione” dei popoli, intesi come rifiuto di ogni autorità e tradizione del passato. L’ideologia soggiacente era quello del progresso inteso come marcia irreversibile e ascensionale dell’umanità per raggiungere una “felicità” sociale presentata come la trasposizione sulla terra del Paradiso celeste.

Nel corso della sua storia, la Chiesa aveva parlato al mondo con il linguaggio dei confessori senza macchia e senza paura, dei dottori inflessibili nelle loro controversie, dei martiri intransigenti nella testimonianza della verità, delle vergini immacolate nella loro fedeltà sponsale. Questi uomini e queste donne avevano preferito essere esclusi, disprezzati, perseguitati, messi a morte dal mondo piuttosto che rinunciare a proclamare la verità e a lottare contro gli errori e le false dottrine. Era questa la strada indicata da confessori della fede come il cardinale Aloisio Stepinac, morto alla vigilia del Concilio, e il cardinale Josef Mindszenty, recluso dal 1956 nell’ambasciata americana a Budapest.

La cultura progressista degli anni Sessanta esercitava il suo fascino anche su alcuni uomini di Chiesa, convinti che fosse necessario mutare l’atteggiamento nei confronti del mondo: rinunciare agli anatemi e alle condanne degli errori per scorgere ciò che di positivo il mondo presentava. Era questa la tesi espressa dal padre domenicano Yves Congar, a cui si deve una delle prime enunciazioni della distinzione tra i dogmi e la loro formulazione. In un’opera di successo, Vera e falsa riforma della Chiesa, Congar affermava che non esistono “germi attivi nei quali non siano pure presenti dei microbi”: ossia errori, in cui non esistono verità. Poiché uccidere i microbi significherebbe uccidere anche i germi vivi, occorreva, a suo avviso, lasciare prosperare gli uni e gli altri. La condanna degli errori da parte della Chiesa, dalle eresie medievali fino al modernismo, aveva spento secondo lui le istanze positive in essi presenti, qualcuno le chiama oggi le istanze “esigenziali”: meglio avrebbe fatto la Chiesa a lasciar vivere e diffondere questi errori. Con questo atteggiamento Congar proponeva di cambiare la Chiesa dall’interno, attraverso “una riforma senza scisma”. “Non bisogna fare un’altra Chiesa – spiegava – bisogna fare una Chiesa diversa”. Quello di modificare la Chiesa dall’interno era l’antico sogno, irrealizzato, dei modernisti. “Fino ad oggi – aveva spiegato il sacerdote apostata Ernesto Buonaiuti – si è voluto riformare Roma senza Roma, o magari contro Roma. Bisogna riformare Roma con Roma; fare che la riforma passi attraverso le mani di coloro i quali devono essere riformati. Ecco il vero e difficile metodo; ma è difficile. Hic opus, hic labor”.

Tra coloro che accoglievano le tesi di Congar era un gruppo di Padri conciliari del Centro-Europa, tra cui spiccava il neo-eletto primate del Belgio, il cardinale Léo-Joseph Suenens. Suenens non aveva ancora 60 anni. Dopo essere stato consacrato arcivescovo di Malines-Bruxelles nel marzo 1962, aveva incontrato a Roma Giovanni XXIII che fu affascinato dalla sua figura e gli chiese di preparargli una nota per il Concilio. Nel mese di giugno 1962 Suenens riunì un gruppo di cardinali al Collegio belga di Roma, tra i quali gli arcivescovi di Monaco Döpfner, di Lille Liénart, di Milano Montini, per discutere un “piano” e una strategia per il prossimo Concilio.

Nel documento che fu redatto, il cardinale Primate del Belgio lanciava la parola d’ordine del “Concilio pastorale”, definendo ciò “un beneficio immenso”, una “grazia di Pentecoste per la Chiesa”. Giovanni XXIII avrebbe seguito questa linea strategica.

3. Giovanni XXIII apre il Concilio

L’allocuzione inaugurale del Papa, Gaudet mater ecclesia dell’11 ottobre fu – come osserva il padre Wenger – la chiave per comprendere il Concilio. “Più che un ordine del giorno, esso definiva uno spirito; più che un programma, dava un orientamento”. La novità non era nella dottrina, ma nella nuova disposizione psicologica ottimistica con cui si impostavano i rapporti tra la Chiesa e il mondo: un rapporto dialogico di simpatia e “apertura”. Coloro che mettevano in dubbio questo spirito irenico e ottimistico venivano definiti dal Papa “profeti di sventura”.

Per Giovanni XXIII, compito principale del Concilio era quello di custodire il Magistero della Chiesa e insegnarlo “in forma più efficace”. Nel suo discorso di apertura egli affermava: “Altro è il deposito o le verità della fede, altro è il modo in cui vengono enunziate, rimanendo pur sempre lo stesso significato e il senso profondo”. “Altra è la sostanza dell’antica dottrina del depositum fidei, ed altra è la formulazione del suo rivestimento: ed è di questo che si deve – con pazienza se occorre – tener gran conto”.

Il Concilio era stato indetto, non per condannare errori o formulare nuovi dogmi, ma per proporre, con linguaggio adatto ai tempi nuovi, il perenne insegnamento della Chiesa. La forma pastorale, cioè il rinnovamento del linguaggio dei metodi di azioni e di apostolato, con Giovanni XXIII, diventava la forma del Magistero per eccellenza. Si tratta di un punto centrale. Giovanni XXIII non intendeva avviare una Rivoluzione all’interno della Chiesa. Il suo temperamento era inclinato a un ottimismo che aveva come conseguenza psicologica, più che ideologica, l’idea di “adattamento” o, come poi si dirà, di “aggiornamento”. Egli pensava che il Concilio potesse tenersi in tempi brevi, giungendo ad approvare pochi documenti, magari per acclamazione. Nel luglio del 1962, ricevette in udienza mons. Pericle Felici, che gli presentò gli schemi conciliari rivisti e approvati. “Il Concilio è fatto – esclamò con entusiasmo Papa Roncalli – a Natale possiamo concludere”.

4. Le due minoranze

Il Concilio non durò tre mesi, come aveva immaginato Giovanni XXIII. E Papa Roncalli, che morì il 3 giugno 1963, poté seguirne solo la prima sessione. Paolo VI, eletto il 21 giugno guidò le successive tre sessioni e ne fu il protagonista. Il Concilio non si svolse neppure nell’atmosfera di gioioso consenso immaginata da Giovanni XXIII, ma fu il luogo di drammatici contrasti.

Se ci si limitasse a una storia “ufficiale”, basata sui risultati dalle votazioni, si dovrebbe negare l’esistenza di una lotta interna al Concilio tra opposti schieramenti, visto che i documenti conciliari furono tutti approvati da una schiacciante maggioranza. In realtà, nessun Concilio conobbe, più del Vaticano II, tensioni e conflitti tra gruppi contrapposti.

Gli storici pur non negando quest’evidenza, la riconducono al contrasto tra una “maggioranza” progressista e una “minoranza” conservatrice, destinata ad essere sconfitta. In realtà lo scontro avvenne tra due minoranze che, nel 1963, il teologo di Lovanio Gerard Philips descriveva come due “tendenze” contrapposte della filosofia e della teologia del ventesimo secolo: l’una nelle parole di Philips più preoccupata di essere fedele agli enunciati tradizionali, l’altra più attenta alla diffusione del messaggio presso l’uomo contemporaneo. Nell’articolo del teologo belga le due posizioni venivano poste sullo stesso piano con una netta preferenza dell’autore verso la seconda. La prima “tendenza” era però la posizione ufficiale del Magistero della Chiesa, sempre ribadita fino al pontificato di Pio XII; la seconda “tendenza” era quella eterodossa, ripetutamente censurata e condannata dallo stesso Magistero ecclesiastico.

Per questa seconda tendenza il Concilio rappresentava una straordinaria opportunità. La natura dell’evento avrebbe permesso alle diverse posizioni, la conservatrice e la progressista, di confrontarsi su di un piano di parità ideologica e di affidare alle regole del gioco parlamentare la prevalenza nei dibattiti. Nel Concilio si crearono gruppi e correnti definiti dai mass media come una destra, una sinistra, un centro. L’uso di questi termini, per quanto improprio, non deve sorprendere e può essere, per comodità, accettato. Lo storico dei Concili Hefele scrive che, nel 325, a Nicea, i vescovi ortodossi formavano con sant’Atanasio e i suoi seguaci la destra, Ario e i suoi partigiani rappresentavano la sinistra, mentre il centro-sinistra era occupato da Eusebio di Nicomedia e il centro-destra da Eusebio di Cesarea. La posizione giusta, quella autenticamente cattolica, non era quella del centro dei due Eusebi, che formava un “terzo partito” tra l’ortodossia e l’eresia, ma era quella incarnata dalla destra di sant’Atanasio, accusato dai suoi avversari di estremismo e di fanatismo. Fu sant’Atanasio però, autore del Simbolo della fede che ancora oggi professiamo, a tracciare la storia della Chiesa nei secoli futuri.

All’interno delle aule conciliari, tra le due minoranze conservatrici e progressiste ondeggiava, come sempre, la massa di coloro che esitavano a schierarsi.

Qual era il pensiero e la posizione di questo centro maggioritario? Abbiamo uno strumento per conoscerne i pensieri. In aula e nelle commissioni solo una minoranza dei Padri conciliari prese la parola, ma pressoché tutti risposero alla richiesta che nel 1959 venne fatta loro dal cardinale Segretario di Stato Domenico Tardini di proporre temi e suggerimenti per l’imminente Concilio.
Le risposte dei vescovi, dei superiori degli ordini religiosi e delle università cattoliche alla richiesta di pareri del card. Tardini giunsero, in forma di “vota” nell’estate del 1959. Lo spoglio dell’enorme materiale, iniziò nel mese di settembre e si concluse alla fine del gennaio 1960. Un attento esame dei vota permette oggi allo storico, come permetteva allora al Papa, alla Curia e alla Commissione preparatoria, di avere un quadro dei “desiderata” dell’episcopato mondiale alla vigilia del Concilio.

Le richieste dei futuri Padri conciliari, considerate nel loro insieme, non esprimevano il desiderio di una svolta radicale, e tantomeno di una “Rivoluzione” all’interno della Chiesa. Se le tendenze antiromane di alcuni episcopati affioravano nettamente in alcune risposte come quelle del card. Alfrink, arcivescovo di Utrecht, in generale gli auspici dei padri erano quelli di una moderata “riforma” sulla linea della tradizione. La maggioranza dei vota chiedeva una condanna dei mali moderni, interni ed esterni alla Chiesa, soprattutto del comunismo, e nuove definizioni dottrinarie, in particolare riguardanti la Beata Vergine Maria. Tra gli stessi vescovi francesi, considerati tra i più progressisti, molti domandavano la condanna del marxismo e del comunismo e una consistente minoranza chiedeva la definizione del dogma della mediazione di Maria.

I vescovi italiani, i più numerosi, avrebbero voluto che il Concilio proclamasse il dogma della “mediazione universale della Beata Vergine Maria”. Il secondo dogma di cui essi richiedevano la definizione era quello della Regalità di Cristo, da opporre al laicismo imperante. Molti inoltre chiedevano al Concilio la condanna degli errori dottrinali: il comunismo, l’esistenzialismo ateo, il relativismo morale, il materialismo, il modernismo.

È interessante l’analogia tra i “vota” dei Padri conciliari e i Cahiers de doléance redatti in Francia, in vista degli Stati Generali del 1789. Prima della Rivoluzione francese, nessun “cahier de doléance” si proponeva di sovvertire le basi dell’Ancien Régime, e in particolare la Monarchia e la Chiesa. Ciò che veniva richiesta era una moderata riforma delle istituzioni, non il loro sovvertimento, come accadde inaspettatamente, quando si riunirono gli Stati generali.

Qualcosa di simile alla Rivoluzione francese accadde tra il 1962 e il 1965. Il Concilio non esaudì le richieste che emergevano dai “vota” dei Padri conciliari, ma assecondò le rivendicazioni della minoranza progressista che, fin dall’inizio, riuscì a porsi alla testa dell’assemblea e ad orientarne le decisioni. È quanto emerge inconfutabilmente dai dati storici. E come accadde nella Rivoluzione francese, i giorni decisivi furono i primi, quelli in cui avvenne la rottura della legalità. A Versailles successe il 17 giugno 1789, quando gli Stati Generali si trasformarono in assemblea costituente; a Roma il 13 ottobre 1962, quando, su richiesta del card. Liénart, ma la mossa era stata accuratamente preparata, le Conferenze episcopali entrarono come gruppi organizzati nella dinamica conciliare.

Dietro questi gruppi organizzati si muovevano altri gruppi organizzati, di vescovi e di teologi, che formarono un partito apertamente antiromano, perché vedeva nella Curia di Roma il nemico da battere. La rete di relazioni, che preesisteva al Concilio, era forte e ramificata e comprendeva oltre alle conferenze nazionali, famiglie religiose, gruppi linguistici, ma soprattutto laboratori ideologici, come quello di Cuernavaca in Messico, di Bologna in Italia, di Lovanio in Belgio. Il padre Congar, il propugnatore della vera Riforma della Chiesa, nel suo Diario del Concilio ha chiarito come il nemico da abbattere fosse la teologia romana, soprattutto nella forma in cui era allora insegnata alla Lateranense.

Di fronte a questa minoranza organizzata, i vescovi e teologi fedeli a Roma reagirono solo tardivamente e senza l’intelligenza strategica dei loro avversari. Secondo una studiosa, Melissa Wilde, il successo dei progressisti può essere spiegato la minoranza progressista prevalse anche grazie alla migliore strategia e organizzazione, occorre dire che la storia è sempre fatta da minoranze e ciò che prevale, nello scontro, non è il numero e neanche l’organizzazione, ma la determinazione e l’intensità con cui queste minoranze combattono le loro battaglie. Fu questa una delle cause del successo dell’ala progressista. Successo o sconfitta? Le rivendicazioni dell’ala giacobina furono certo respinte. I documenti non corrisposero alle attese dei progressisti più audaci ed è grazie ai compromessi raggiunti in extremis che oggi quei documenti possono essere letti anche alla luce della Tradizione. Ma l’immagine che il mondo aveva della Chiesa cambiò. Quando il 12 ottobre 1963 mons. Franić, vescovo di Spalato, propose che nello schema De Ecclesia al nuovo titolo di Chiesa “pellegrinante” fosse aggiunto quello, tradizionale, di “militante”, la sua proposta fu respinta. L’immagine che la Chiesa doveva offrire di sé al mondo non era quella della lotta, della condanna, della controversia, ma del dialogo, della pace, della collaborazione ecumenica e fraterna.

La minoranza progressista si propose non tanto di mutare la dottrina della Chiesa, ma di sostituire all’immagine sacrale e gerarchica della Chiesa quella di un’assemblea democratica, aperta alle novità, immersa nella storia. Ciò avvenne soprattutto attraverso la Rivoluzione del linguaggio, metodo pastorale per eccellenza. Alle professioni di fede e dei canoni si sostituì un “genere letterario” che uno studioso del Concilio, il padre O’Malley chiama “epidittico”. Questo modo di esprimersi, secondo lo storico gesuita, “segnò una rottura definitiva con i Concili precedenti”. Esprimersi in termini diversi dal passato, significa accettare una trasformazione culturale più profonda di quanto possa sembrare. Lo stile del discorso rivela infatti, prima ancora che le idee, le tendenze profonde dell’animo di chi si esprime. “Lo stile – sottolineò O’Malley – è l’espressione ultima del significato, è significato e non ornamento, ed è anche lo strumento ermeneutico per eccellenza”. L’aspetto pastorale è, di norma, accidentale e secondario rispetto a quello dottrinale, ma nel momento in cui diviene una dimensione sostanziale e prioritaria, il modo in cui la dottrina viene formulata si trasforma esso stesso in dottrina, più importante di quella che, oggettivamente, viene veicolata.

I leader del Concilio, continua O’Malley, “capivano benissimo che il Vaticano II, essendosi autoproclamato concilio pastorale, era proprio per questo anche un Concilio docente (…). Lo stile discorsivo del Concilio era il mezzo, ma il mezzo comunicava il messaggio”. “Questo significa che il Vaticano II, il ‘Concilio pastorale’, ha un insegnamento, una ‘dottrina’, che in gran parte è stato difficile per noi formulare, poiché in questo caso dottrina e spirito sono due facce della stessa medaglia”. La scelta di uno “stile” di linguaggio con cui parlare al proprio tempo rivela un modo di essere e di pensare e in questo senso si deve ammettere che il genere letterario e lo stile pastorale del Vaticano II non solo esprimono l’unità organica dell’evento, ma veicolano implicitamente una coerente dottrina.

Sotto questo aspetto il Concilio segnò indubbiamente un profondo cambiamento nella vita della Chiesa. I contemporanei ne avvertirono il carattere epocale. “Si parlò – ricorda lo storico americano Josef Komonchak – di una svolta storica; la fine della controriforma o dell’epoca tridentina, la fine del Medioevo, la fine dell’era costantiniana”. “Semplicemente – rileva Melissa Wilde – il Vaticano II rappresenta l’esempio più significativo di cambiamento religioso istituzionalizzato dal tempo della Riforma”.

Sotto questo aspetto, non si può negarlo, il Concilio costituì una Rivoluzione. A questo punto potrei essere accusato, come è già avvenuto, di essere un fautore della ermeneutica della discontinuità, in contrasto con la ermeneutica della continuità di Benedetto XVI. Queste accuse che hanno accompagnato la pubblicazione del mio recente libro sono arrivate al punto di cercare di mettermi contro Benedetto XVI (così Massimo Introvigne su “Avvenire”) e perfino contro Pio XII (così lo storico Alberto Melloni sul “Corriere della Sera”). Si tratta di palesi distorsioni del mio pensiero che esigono una rettifica per il profondo amore e rispetto che provo verso Pio XII e verso il regnante Pontefice Benedetto XVI.

Per quanto riguarda Pio XII il discorso è molto semplice: ho una somma venerazione verso il suo Magistero che rappresenta, come ho scritto nel mio libro, una vera summa dottrinale, una preziosa miniera a cui è ancora oggi utilissimo attingere. Ma Pio XII, che fu uno straordinario diplomatico, non ebbe l’esperienza di Pastore che aveva avuto il Papa che pure tanto amava, Pio X. E nella repressione del male che serpeggiava nella Chiesa – uso il termine serpeggiare che a Melloni non piace, perché indica bene l’atteggiamento infido del serpe che striscia nella penombra per colpire all’improvviso con il suo veleno – il venerabile Pio XII non fu, a mio parere, altrettanto pronto e vigoroso di san Pio X.

Va precisato che lo storico differisce dall’agiografo. Chi legge l’intramontabile Storia dei Papi di Ludwig von Pastor sa che lo storico tedesco non lesinò rispettose critiche ai numerosi pontefici da lui presi in esame. È sul piano storico che io esprimo giudizi nei confronti di Pio XII, Giovanni XXIII; Paolo VI, senza che ciò debba scandalizzare nessuno. Tra questi è proprio verso Pio XII che esprimo la maggiore ammirazione. Chi critica Pio XII non sono io, ma lo storico Alberto Melloni, che sul “Corriere della Sera” del 9 gennaio 2005 si è pronunciato contro la sua beatificazione definendolo “un Papa solitario e calcolatore, nella cui figura gli elementi politici dominano per logica interna”.

Ma l’accusa di fondo che è stata rivolta al mio testo è un’altra: nel mio libro non distinguerei i testi del Concilio dal suo contesto storico, fondendo e unificando testi e contesto in unico evento. Con ciò assorbirei e fagociterei il testo nel contesto cadendo in una sorta di strutturalismo come, in ultima analisi, fa la scuola di Bologna.

Chi lancia questa accusa è però un lettore frettoloso o tendenzioso. Infatti io affermo esattamente il contrario di quanto mi si attribuisce. Non ho mai negato la distinzione logica tra testo e contesto. L’impossibilità di separarli non significa impossibilità di distinguerli. Nego la tesi della scuola di Bologna, secondo cui i testi vadano assorbiti nel contesto, ovvero nell’evento e spirito del Concilio. Sostengo invece che vanno ben distinti i testi dottrinali dal contesto storico del Concilio. I testi hanno una loro autonomia, una loro importanza, una loro dignità, ma vanno esaminati in quanto testi sul piano teologico. Non ho l’autorità né la competenza teologica per formulare questa valutazione teologica e mi rimetto al giudizio di un eminente ecclesiologo come mons. Brunero Gherardini, che fin dagli anni Settanta, il mio maestro universitario Augusto Del Noce ricordo definiva il migliore teologo romano.

Dove rivendico competenza è sul piano storico ed è sotto questo aspetto che studio un contesto comprensivo anche, necessariamente, dell’elaborazione dei testi. È sul piano storico, non sul piano teologico, che giudico il Concilio una Rivoluzione nella Chiesa e, per molti aspetti, un evento disastroso. Ed è invece sul piano teologico, e non su quello storico, che Benedetto XVI ci invita a seguire, in modo però non conclusivo né definitorio, l’ermeneutica della continuità.
Ermeneutica della continuità che, d’altra parte, può essere intesa in un solo modo: quello di leggere i documenti del Concilio alla luce del precedente Magistero della Chiesa, attraverso un metodo preciso: laddove si ravvisano ambiguità, incertezze, appunti di contraddizione, assumere come punto di riferimento la Tradizione.

I documenti promulgati dalle supreme autorità ecclesiastiche non hanno infatti, dal punto di vista teologico, il medesimo valore. Se Benedetto XVI esprime alcune opinioni in un’intervista, come è accaduto nel suo ultimo libro Luce del mondo, è evidente che esse vadano accolte con il massimo rispetto, perché chi parla è, comunque, il Vicario di Cristo. Ma è altrettanto evidente che tra un’intervista e la definizione di un dogma c’è una gradazione di autorità che non impegna, al medesimo livello, l’ossequio dei fedeli. Lo stesso può dirsi di un Concilio come il Vaticano II, che in quanto riunione solenne dei vescovi uniti al Papa, ha proposto insegnamenti autentici non certo privi di autorità. Il suo Magistero – come ha ben spiegato mons. Gherardini – è certamente solenne e supremo. Ma solo chi ignora la teologia potrebbe attribuire un grado di “infallibilità” a tutti i suoi insegnamenti.

Perché, se si volesse intendere capovolgere il metodo ed affermare che la continuità va letta assumendo come punto di riferimento non la Tradizione, ma il Concilio: se si volesse cioè leggere la Tradizione alla luce del Concilio e non viceversa, bisognerebbe attribuire al Concilio quel valore di infallibilità, che mai nessun testo del Concilio ha in sé, e allora bisognerebbe cercare l’infallibilità del Concilio nell’evento stesso, nel suo spirito, nell’impalpabile carisma che anima i testi senza tradursi in formule definitorie. Ma questa è esattamente la posizione della scuola di Bologna, non è certo quella di Benedetto XVI.

L’affermazione secondo cui il Concilio II va inteso in continuità con il Magistero della Chiesa presuppone infatti l’esistenza nei documenti conciliari di passaggi dubbi o ambigui, che necessitano una interpretazione. Per Benedetto XVI il criterio di interpretazione del passaggio dubbio non può che essere la Tradizione della Chiesa, come egli stesso ha più volte ribadito. Se si ammettesse invece che il Vaticano II fosse il criterio ermeneutico per rileggere la Tradizione, bisognerebbe attribuire, paradossalmente, forza interpretativa a ciò che ha bisogno di essere interpretato. Interpretare la Tradizione alla luce del Vaticano II, e non il contrario, sarebbe possibile solo se si accettasse la posizione di Alberigo, che attribuisce valore interpretativo non ai testi, ma allo “spirito” del Concilio. Tale non è però la posizione di Benedetto XVI, che critica l’ermeneutica della discontinuità, proprio per il primato che essa attribuisce allo spirito sui testi. O si ritiene, come mons. Gherardini, che le dottrine del Concilio non riconducibili a precedenti definizioni, non sono né infallibili né irreformabili e dunque nemmeno vincolanti, oppure si assegna al Concilio un’autorità tale da oscurare le altre venti precedenti assisi della Chiesa, abrogandole o sostituendole tutte. Su quest’ultimo punto sembra non esserci differenza tra gli storici della scuola di Bologna e sociologi come Massimo Introvigne che sembrano attribuire valore di infallibilità al Vaticano II.

D’altra parte, il lavoro storico è complementare a quello teologico e non dovrebbe preoccupare nessuno. Bisognerebbe rinunziare a scrivere la storia del Concilio Vaticano II in nome della “ermeneutica della continuità”? O lasciare che a scriverla sia solo la scuola di Bologna, che ha offerto contributi scientificamente pregevoli, ma ideologicamente tendenziosi? E se elementi di discontinuità dovessero emergere, sul piano storico, perché temere di portarli alla luce? Come negare una discontinuità, se non nei contenuti, nel nuovo linguaggio del Concilio Vaticano II? Un linguaggio fatto non solo di parole, ma anche di silenzi, di gesti e di omissioni, che possono rivelare le tendenze profonde di un evento più ancora del contenuto di un discorso. La storia dell’inspiegabile silenzio sul comunismo da parte di un Concilio che avrebbe dovuto occuparsi delle principali questioni del mondo è ad esempio un fatto clamoroso e catastrofico che allo storico non è lecito ignorare.

Sono anche stato criticato per aver stabilito una continuità tra Concilio e post-Concilio. Ma il Concilio Vaticano II non può essere presentato come un evento che nasce e muore nello spazio di tre anni senza considerarne le profonde radici e le altrettanto profonde conseguenze che esso ebbe nella Chiesa e nella società.

Già all’indomani del Concilio l’orizzonte della Chiesa vedeva il crollo delle certezze dogmatiche; il relativismo della nuova morale permissiva; l’anarchia in campo disciplinare; le defezioni dal sacerdozio e l’allontanamento dalla pratica religiosa di milioni di fedeli; l’espulsione dalle chiese di altari, balaustre, crocifissi, statue di santi, arredi sacri, ma soprattutto il crollo delle vocazioni e l’abbandono della vita religiosa. È lo storico gesuita Giacomo Martina a scriverlo, nel 1977. “Per la prima volta nella storia – scriveva – si è assistito all’abbandono del sacerdozio, pur con tutte le dispense necessarie, da parte di migliaia di preti, nel giro di pochi anni”.

Il bilancio complessivo del quarantennio postconciliare 1965-2005, riguardo alle perdite totali e percentuali dei principali istituti religiosi, sarà ancora più drammatico. Se i religiosi dei principali istituti maschili erano 329.799 nel 1965, nel 2005 ne restavano 214.913, circa un terzo erano venuti meno nei 40 anni di post-concilio.

Come negare l’esistenza di una profonda crisi della Chiesa post-conciliare più volte ammessa dallo stesso Paolo VI, da Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI? Ogni evento però ha una causa proporzionata. Possibile che il Concilio Vaticano II fosse estraneo alla crisi del post-Concilio e che la cattiva interpretazione dei testi possa essere considerata una causa proporzionata per spiegare ciò che seguì? Si può davvero separare la Rivoluzione postconciliare dal Concilio?

Voglio ricordare solo un episodio, quando nel 1968 Paolo VI fu apertamente contestato dal cardinale Suenens per la promulgazione della enciclica Humanae Vitae. Ma chi era il cardinale Suenens?

Era il prelato a cui Paolo VI aveva concesso un privilegio senza precedenti, quando il 23 giugno 1963, pochi giorni dopo la sua elezione, lo aveva voluto accanto a sé, alla finestra del Palazzo apostolico, presentandolo alla folla riunita in San Pietro per l’Angelus. Era il giovane cardinale di Bruxelles che all’indomani della sua elevazione alla porpora era accorso a Roma per suggerire a Giovanni XXIII di dare un’impronta pastorale al Concilio. Era l’uomo che fin dall’inizio aveva stabilito un patto di ferro con mons. Helder Câmara, vescovo ausiliario di Rio, poi vescovo rosso di Recife, che si rivolgeva a lui, con un codice cifrato, chiamandolo “padre Miguel”. Era l’uomo prescelto per guidare i quattro “moderatori” del Concilio: una posizione chiave che avrebbe assunto per tre anni. Era l’uomo che già in Concilio, il 19 ottobre 1964, aveva sollevato il problema del controllo delle nascite, pronunciando in piena basilica di San Pietro, con tono veemente, le parole: “Non ripetiamo il processo di Galileo!”. Nessuno più di lui aveva vissuto il Concilio da protagonista. Il cardinale Suenens, ribelle a Paolo VI e alla Chiesa nel 1968, era un uomo diverso da quello che tre anni prima, aveva intonato il canto della vittoria alla chiusura del Concilio? Aveva cambiato la sua mentalità, aveva distorto i documenti del Concilio, ne aveva male interpretato lo spirito? Suenens non aveva bisogno di forzare o distorcere i documenti del Concilio perché Suenens, come Frings, Alfrink, Bea e tanti altri, era il Concilio.

Il nesso tra Concilio e post-Concilio non è il nesso dottrinale tra i documenti del Concilio e altri documenti del post-Concilio. È il rapporto storico, stretto e inscindibile, tra il Concilio, in quanto evento che si svolge tra il 1962 e il 1965 e il post-Concilio, in quanto evento che si svolge tra il 1965 e il 1978, e si protrae fino ai nostri giorni. Questo periodo, globalmente considerato, dal 1962 al 1978, anno della morte di Paolo VI, forma un unicum, un’epoca, che può essere definita come l’epoca della Rivoluzione conciliare, così come gli anni tra il 1789 e il 1796, e forse fino al 1815, costituirono l’epoca della Rivoluzione francese.

La pretesa di separare il Concilio dal post-Concilio è altrettanto insostenibile di quella di separare i testi conciliari dal contesto pastorale in cui furono prodotti. Nessuno storico serio, ma neanche nessuna persona di buon senso potrebbe accettare questa artificiale separazione, che nasce da partito preso, più che da serena e oggettiva valutazione dei fatti. Ancora oggi viviamo le conseguenze della “Rivoluzione conciliare” che anticipò e accompagnò quella del Sessantotto. Perché nasconderlo? La Chiesa, come affermò Leone XIII, aprendo agli studiosi l’Archivio Segreto Vaticano, “non deve temere la verità”.

La sua missione, come affermava Pio XII, non può svolgersi ed adempiersi con la benedizione del cielo se non sotto la divisa terrena non metuit! È sotto questa divisa che, seguendo le indicazioni del Santo Padre Benedetto XVI, tutti noi, sacerdoti e laici, dobbiamo assumerci l’impegno, di aprire coraggiosamente nuove strade, di tornare ad essere il sale del mondo.

Io credo che uno dei primi nostri compiti sia oggi quello di rinnovare l’immagine della Chiesa, abbandonando ogni forma di cattiva pastorale. Se infatti una dottrina ha il suo criterio di giudizio ultimo nella verità che essa esprime – una dottrina è buona e giusta se è vera – il metodo pastorale ha il suo criterio di verifica nei risultati che raggiunge: un metodo pastorale è buono e giusto se funziona, se ottiene i risultati previsti. Ciò non fu il caso del Concilio Vaticano II, che si auto qualificò pastorale, ma proprio sul piano pastorale fu contraddetto dai fatti. Molti teologi vollero trasporre il primato marxista della prassi nel primato religioso del pastorale sul dottrinale, ma entrambi i metodi furono condannati dal tribunale immanentistico a cui si appellavano: quello della storia.

Rinnovare la pastorale significa abbandonare il linguaggio sociologico, piegato alle esigenze del mondo e ritrovare il linguaggio perenne e universale della Chiesa, quello che parla alla mente e al cuore degli uomini attraverso la chiarezza della dottrina e la bellezza della verità; significa ritrovare il senso di una Chiesa militante, di una Chiesa che combatte perché vive nella storia, vive nella storia perché è un Corpo gerarchico e visibile, ma nella storia combatte per un fine che è soprannaturale e non terreno, perché il suo Corpo è Mistico, e ha in Gesù Cristo, unica via, verità e vita, il suo Capo e fondatore.

Nel 1953 Papa Pacelli invitava i giovani di Azione Cattolica a combattere contro i nemici della Chiesa, che muovono ad essa “una guerra terribile, con perfida strategia e subdola tattica”. “Muoiono gli uomini, anche quelli che sembrano immortali; crollano le umane istituzioni; si succedono gli uni agli altri, i più impensati tramonti. E a ogni alba nuova la Chiesa assiste serena ed è baciata dal sorgere di ogni nuovo sole”.

Riserva

Dove va la Chiesa?

In queste ore drammatiche ci chiediamo: dove va la Chiesa e, ancora più profondamente, dove è la Chiesa? Non la Chiesa invisibile dei docetisti, degli hussiti, o dei modernisti, ma il Corpo Mistico di Cristo, la Chiesa cattolica, apostolica, romana, riconoscibile dalle sue note visibili.

Ebbene mai come oggi è attuale la intramontabile definizione di san Roberto Bellarmino, che dice: la Chiesa è la comunità dei fedeli uniti dagli stessi sacramenti e dalla stessa fede, sotto la guida degli stessi pastori.

Questa e non altra è Chiesa e questa stessa definizione la ritroviamo nelle parole che il Divino Fondatore della Chiesa, Nostro Signore Gesù Cristo, rivolge ai nostri cuori, invitandoci a seguirlo.
Io – ci dice il Signore con parole forti, dolci, esclusive – sono la via, la verità, la vita”. Potrebbe apparire che di questi attributi il più importante sia la verità: Ego sum veritas. La Chiesa, certo è dove è la verità, secondo la formula di san Vincenzo di Lerins, quella di cui non si può cedere neppure uno iota, quella che è racchiusa nella Tradizione Cristo è verità. Ma questa verità non è astratta come il logos greco, è vivificata dalla Grazia, e la fonte di ogni Grazia che fluisce attraverso i sacramenti è Cristo stesso. La Chiesa è dove sono i suoi sacramenti.

I sacramenti della Chiesa sono la fonte della nostra vita spirituale e questa vita spirituale ha la sua fonte in Cristo stesso. Ma la dottrina e la vita, la fede e i sacramenti non bastano, se non c’è una via da seguire. E nella Chiesa questa via la tracciano i legittimi pastori, che seguono a loro volta il Papa, successore di Pietro, Vicario di Cristo in terra.

La nota della apostolicità ci garantisce questa legittimità dei pastori, che ha la sua fonte ultima nel Buon Pastore per eccellenza, unica via.

Dove è la legittima gerarchia, dove è la vera fede, dove è la santità dei sacramenti, lì è la Chiesa. Cercando questi punti di riferimento, nulla abbiamo da temere perché dove troviamo la Chiesa una nella fede, santa nelle sue opere, e apostolica nella sua gerarchia lì troviamo Gesù stesso, via, verità e vita.