sabato 2 luglio 2016
UN CASO DI COSCIENZA SUGLI ERRORI CONDANNATI DALLA SANTA SEDE NEL 1864...
I giornali così irreligiosi come cattolici si sono recentemente
occupati, e si occupano ancora, nel parlare di un caso di coscienza,
proposto al clero di Parigi e risoluto da esso, nel mese di Febbraio
del corrente anno. Il qual caso, benchè per via indiretta, pur
nondimeno andava principalmente a ferire nella Enciclica
Quanta cura, che
l'augusto Pontefice Pio IX diresse nel Dicembre del 1864 a tutt'i
Patriarchi, Primati, Arcivescovi e Vescovi, che hanno la grazia e la
comunione della Sede Apostolica; ed anche principalmente trattava di
alcuni degli errori, già condannati da Sua Santità ed
inseriti in quel Sillabo,
che venne fuori di suo ordine insieme colla Enciclica nominata. Di qui
gli uomini, che stanno sempre pronti ad offendere la Chiesa cattolica
ed a contraddire alla sua dottrina, colsero il destro di falsare il
senso e diminuire il valore di quegli atti rilevantissimi della
Cattedra di Roma; e per mezzo della stampa sparsero a danno altrui il
veleno, che ammorba i loro cervelli e i loro petti.
Ma ad uno stesso
tempo corsero anche per le stampe le risposte degli scrittori
cattolici, i quali confutarono que' miserabili sofismi, e misero in
chiaro la verità de' fatti, narrati falsamente dai giornali
irreligiosi. Un tale argomento è degno, che sia toccato ancora da
noi; e ciò prendiamo a fare nel presente articolo, il quale, come
l'ordine richiede, incomincia colla esposizione del caso.
Stando alle notizie, che attingiamo dai giornali francesi, il clero
di Parigi convenne il dì 5 Febbraio di quest'anno nella chiesa di
san Rocco, per la consueta conferenza, detta del caso di coscienza.
Presedeva in quel giorno lo stesso Arcivescovo, e fu proposta a
discutere la seguente questione: «Un uomo impegnato nella
politica dichiara al suo confessore di non voler punto rinunziare alle
dottrine, che ora prevalgono presso le nazioni moderne; i cui
principali capi sono la libertà de' culti, la libertà della
stampa e l'intervento dello Stato nelle materie miste. Ecco in qual
modo egli ragiona: — Voi, confessor mio, non avete il
dritto di prescrivermi, come ad uomo privato, che io assegni tal
giorno e che adoperi tal mezzo, per convertire questa o quella
persona. Non vi ha dubbio, che io debba adoperarmi colle mie parole
e coi miei esempii, per la conversione e per la edificazione de'
prossimi; ma appartiene a me, agente libero, être
responsable, scegliere i mezzi o discernere le occasioni.
Similmente per una stessa ragione voi non potete comandarmi, come ad
uomo politico, legislatore, principe, che io prenda oggi stesso
questo o quel provvedimento contro la bestemmia, per cagion
d'esempio, o contro il lavoro della domenica, o contro la
sfrenatezza della stampa. Imponetemi pure, che io attenda a
propagare la giustizia e la verità; ma lasciate a me il
giudizio e la scelta delle occasioni e dei mezzi.
Ed in effetto
notate di grazia i motivi, sopra i quali io fondo la mia opinione.
In primo luogo ogni qual volta noi operiamo o parliamo, noi abbiamo
di qui la verità e il d[i]ritto, che certamente si deve
rispettare; ma di là vi è la convenienza e
l'opportunità, di cui bisogna tener conto, se pure vogliamo
parlare ed operare efficacemente. Or, quanto a questo, io conosco
meglio di ogni altro ciò, che posso e ciò che non posso
nella mia famiglia, in una assemblea politica, nella nazione. In
secondo luogo, non vedete forse l'assurdo che seguiterebbe dalla
opinione contraria? Seguiterebbe, che voi avete il dritto di
decidere o di regolare tutte le mie azioni; perchè in tutte vi
può entrare la morale, e tutte si possono connettere colla
religione. Voi dovreste dettarmi il mio testamento, dirmi il voto
che debbo dare, determinare se ho a dichiarare la pace o la guerra.
Piccole bagattelle! Perchè allora che altro sarebbe il potere
temporale, se non istrumento passivo e mera macchina del potere
spirituale? Per tali motivi io mi sto colle mie vecchie idee su
questi particolari; nè intendo scambiarle' con altre.
— Così parla il penitente al suo confessore; ed il
confessore domanda: Se ad un penitente così disposto si debba
negare o concedere l'assoluzione?» Tale fu il caso di coscienza,
la cui discussione e la risposta che si ebbe somministrò, come
sopra abbiamo detto, copiosa materia di discorso ai giornali, tanto
irreligiosi quanto cattolici.
I primi fanno comparire sulla scena cinque interlocutori: l'abbate
M... del clero della Maddalena, il qual sostiene, che il penitente
deve essere assoluto; l'abbate G... del clero di san Tommaso d'Aquino,
il quale, come colui che in simili conferenze ha l'ufficio di
contraddittore, cerca di provare l'opinione contraria a quella
dell'abbate M...; l'Arcivescovo, che corregge o modera qualche
proposizione di questo contraddittore; un oltramontano eccessivo, un ultramontain-ultrà, che
non sapendosi contenere, interrompe l'Arcivescovo e dichiara, che egli
negherà sempre l'assoluzione al supposto penitente, il quale,
secondo lui, non è per niuna guisa meritevole di riceverla.
Questi parlò con franchezza ed ardore, procacciando stima a
sè stesso, e movendo ad ilarità l'assemblea: La
franchise et la chaleur, avec lesquelles il a fait cette
déclaration, lui ont valu un légitime succès d'estime
et d'hilarité. — Ciò vuol dire in sostanza,
che egli non ebbe altro, che un succès
de rire. Infine l'ultimo interlocutore fu il parroco di san
Sulpizio, moderatore della conferenza, il quale approvò
pienamente la sentenza affermativa e benigna dell'abbate M...;
ciò che senza alcuna riserva fece anche l'Arcivescovo: Mgr.
l'Archevêque y a adhéré à son tour sans
réserve. Tanto narra la Patrie.
Il qual giornale osserva, che il ragguardevole Prelato diede con tale
atto mostra di coraggio, e rese un utilissimo servigio, per la
ragione, che l'Enciclica
Quanta cura ed il Sillabo,
invece di sedar la discordia onde era diviso il clero, intorno alle
grandi questioni del nostro secolo, l'avevano fatta crescere di
vantaggio. Or dunque l'Arcivescovo, col proporre quel caso di
coscienza, erasi prefisso di dare una regola di condotta, la quale
evitasse nella pratica ogni difficoltà; e raggiunse a pieno un
tale scopo. Mgr. Darboy a fait
acte de courage, en même temps qu'il a rendu un vrai service...
L'encyclique Quanta cura et
le Syllabus loin de faire
cesser les dissidences, qui existent au sein du clergé, n'a
servi, au contraire, qu'à les faire éclater plus vivement
aux yeux du public... Le but que nous paraît s'être
proposé Mgr. l’archevêque, c'est de suggérer
à son clergé, au moyen d'un principe indirect
universellement admis, une règle de conduite, qui lui permette
de résoudre toutes les difficultés au point de vue
pratique, tout en laissant subsister la liberté des opinions
sur le terrain purement spéculatif. Ce but, à notre avis,
a été parfaitement atteint.
L'Opinion national rende
grazie al clero di Parigi; perchè con ciò ha sostenuto, come
essa dice, i d[i]ritti imperscrittibili della coscienza
umana, e ha fatto vedere a che finalmente si riducano nella pratica il
Sillabo, le decisioni della romana curia e gli anatemi del Vaticano. Voilà donc à quoi aboutissent
pour la pratique; et le Syllabus,
et les décisions de la curie romaine, et les anathèmes du
Vatican! Il faut féliciter le clergé de Paris de cet
hommage rendu aux droits imprescriptibles de la conscience humaine.
Chi ha l'intelletto sano non s'indurrà facilmente a credere, che
gli scrittori di simili giornali, nel parlare di queste cose e
nell'attribuirle ai nominati interlocutori, abbiano osservato il
precetto di Orazio: Aut famam
sequere, aut sibi convenientia finge, Scriptor [1]. [«Scrittore, attieniti alla fama,
ovvero inventa caratteri che siano ad essa coerenti.» N.d.R.]
Potranno di ciò meglio giudicare gl'interlocutori medesimi. Noi
intanto ci occuperemo qui nell'esporre e nell'esaminare quello che
vien riferito del primo di loro, cioè dell'abbate M... del clero
della Maddalena.
Egli ridusse la principal parte del suo discorso a questa forma
sillogistica. — Il confessore non ha dritto di domandare dal suo
penitente, quale che ei sia uomo pubblico o privato, il sacrificio di
opinioni probabili, cioè di opinioni fondate sopra valide
ragioni, e sopra gravi autorità. Ma tali sono le opinioni, che
favoriscono alla libertà di culti, alla libertà della
stampa, e al dritto dello Stato di intervenire nelle materie miste.
Dunque non può ingiungersi a quel penitente, che egli deponga
simili opinioni, e gli fa ingiustizia chi gli nega il beneficio
dell'assoluzione, perchè egli ama di ritenere le opinioni
medesime. — La prima proposizione o la maggiore di questo
sillogismo non aveva bisogno di prova. Giacchè i teologi
comunemente ammettono come principio sicuro, che il confessore non
può obbligare il penitente a seguire la opinione che egli segue,
allorchè questa non è evidentemente certa. E però in
tal caso non solamente può, ma altresì deve dare
l'assoluzione; benchè il penitente segua l'opinione contraria. La
difficoltà dunque consisteva tutta nel dimostrare la minore;
cioè che sieno veramente opinioni probabili, e fondate sopra
salde ragioni e sopra gravi autorità, quelle opinioni moderne,
che favoriscono la libertà de' culti la libertà della
stampa, e l'intervento dello Stato nelle materie miste. Hoc
opus, hic labor.
A tale uopo l'Abbate fece da principio osservare, che la questione
era intorno ad una libertà di culto e di stampa, saggia e
moderata; non già intorno a quella libertà senza freno, o
piuttosto intorno a quella licenza, per la quale si calpestano tutte
le leggi divine ed umane. Quindi venne subito all'argomento di
autorità, e disse, che gli atti pontificii, i quali concernono le
mentovate libertà, non condannano affatto le libertà
medesime, ove esse si contengano tra saggi limiti; ma bensì
riprovano quella sfrenata licenza, la quale scuote i fondamenti di
qualsivoglia religione o di qualsivoglia società, e conduce
fatalmente all'indifferentismo; cioè a quel sistema che
ugualmente rispetta, o, per dir meglio, ugualmente disprezza tutte le
religioni. E così egli conchiuse, che la ragione e
l'autorità stanno per le opinioni, le quali favoriscono la
libertà de' culti o la libertà della stampa.
Rimaneva la terza questione, cioè il d[i]ritto
dell'intervento dello Stato nelle materie miste. Or questo d[i]ritto,
egli disse, sgorga direttamente dalla indipendenza sovrana, che ha il
potere temporale nel proprio ordine; indipendenza, che fu proclamata
colle più formali ed esplicite parole da molti grandi e santi
pontefici, tra i quali si noverano un san Gelasio I, un san Gregorio
II, ed un san Niccolò I, detto il Grande. Da ciò, ei
soggiunse, derivasi manifestamente, che il potere spirituale e il
potere temporale hanno per lo stesso titolo il dritto d'intervenire
nelle materie miste, senza però uscire da quei limiti, che a
ciascuno di loro sono determinati dalla stessa natura delle cose.
Ma a fine di chiarir viemeglio la sua tesi, egli giudicò bene di
raccontare un fatto, accaduto nell'anno 1828. Carlo X, così egli
disse, riunì una commissione, composta da monsignor Quélen,
arcivescovo di Parigi, da monsignor Frayssinous, ministro de' culti,
dal cardinal de Cheverus [2], e
dal signor Desjardins, vicario generale dell'Arcivescovo. Il dubbio,
che il Re propose alla detta commissione, fu questo. —
L'espulsione de' gesuiti mi si domanda imperiosamente dalla pubblica
opinione. Posso io decretarla nel caso che la reputo necessaria?
— I nominati ecclesiastici risposero, che la questione intorno
alla necessità apparteneva unicamente alla politica; e quindi,
perchè uomini di Chiesa, si dichiararono incompetenti a
giudicarla. Nondimeno soggiunsero, che se la detta espulsione era
riputata politicamente necessaria, poteva ben legittimamente essere
decretata. A questa decisione, osserva l'Abbate, aderirono
spontaneamente alcuni altri Vescovi.
Noi incominceremo subito a discutere la soluzione del caso, che egli
ha data; ma prima vogliamo riferire ciò, che parve ai giornali
irreligiosi di questa prima parte del suo ragionamento.
Parve loro necessario fare una riserva, e manifestare un dispiacere.
La riserva si riferisce al modo, con cui egli parlò della
risposta, che ebbe Carlo X dalla commissione ecclesiastica da lui
riunita. Se noi, dicono cotesti giornali, abbiamo ben compresa la
mente dell'oratore, quella decisione, secondo che da lui è stata
esposta, avrebbe subordinata in materia politica la questione di
giustizia a quella di utilità, ed aperto così un vasto campo
all'arbitrio. Or questo sistema, essi soggiungono, il quale in
sostanza non differisce dal sistema degli utilitarii e da quello della
sovranità del fine, è al presente confutato dai più
dotti giuristi de' nostri giorni; i quali hanno stabilito il
principio, che qualsivoglia atto politico non è legittimo se non
a questa condizione, che sia primieramente giusto in sè stesso, e
in secondo luogo necessario o almeno utile. Quello poi che ha recato
dispiacere agli scrittori di tali giornali fu, che l'Abbate si
trattenne a spilluzzicare alquanti fatti della storia moderna, invece
di spaziarsi pe' grandi secoli del cristianesimo. Colà, a loro
dire, avrebbe egli potuto raccogliere a piene mani, in favore dei
grandi principii della tolleranza civile e della libertà di
coscienza, sì chiaramente insegnati da Gesù Cristo medesimo,
fatti e testimonii di tale autorità e di tale evidenza, che a
loro riscontro le vane arguzie d'una scuola al tutto recente non
compariscono di altro degne, che di commiserazione.
Con tutto questo l'Abbate ha riportate ampie lodi da simili giornali,
i quali affermano esser egli venuto a capo di dimostrare il suo
assunto con forte nerbo di logica, e con molta lucidezza di discorso:
Avec une dialectique et une
netteté remarquables [3].
Ben altra stima v'è tra noi della chiesa illustre di Parigi, da
quella che mostrano di averne così tristi scrittori. Dal che
siamo indotti a credere, che l'Abbate, appunto perchè
appartenente a quel dotto clero, nel dare la soluzione del caso che
gli è attribuita, nè dovè rimanere molto pago di
sè medesimo, nè restò egli stesso persuaso da quelle
ragioni, con cui cercava di persuadere l'assemblea. Ma oltre a questo
argomento, che può dirsi a
priori, poichè procede dal considerare le chiare doti,
che adornano gli ecclesiastici di quella metropoli, ne abbiamo un
altro più convincente, il quale si fonda sull'altra parte del
discorso dello stesso Abbate. Di questo argomento, che è a
posteriori, parleremo più innanzi; prima argomentiamo a priori, e
ad uno stesso tratto discutiamo la sua soluzione.
Ci par dunque, che essendo egli in luogo, ove la natura è larga
di prontissimi ingegni, e l'industria fornisce innumerabili mezzi a
raccogliere senza fatica e in breve tempo tesori di scienza e di
erudizione ecclesiastica, esso poteva e doveva scorgere di leggeri,
che le idee sparse da lui nel suo discorso non erano tutte consentanee
al vero, che le prove non ferivano nel segno, che le citazioni de'
Padri non erano esatte, e che le storie narrate non facevano a
proposito. Ci si permetta di accennare almeno la dimostrazione, di
ciò che affermiamo.
Dapprima egli s'inclina alle falsissime idee moderne, le quali
magnificano la libertà di coscienza, e pretendono che debba
esservi una certa universale tolleranza de' culti, fondata sulla
convenienza e sul rispetto, che devesi alle altrui opinioni; quasi che
non sia degna di altissima condanna qualsivoglia opinione contraria
alla religione cattolica, la quale sola è la vera religione, e
quindi è la sola che può liberare l'uomo dalla eterna
perdizione e condurlo alla eterna salute. Nè si può
dubitare, che esso non s'inchini alle dette opinioni, mentre nel suo
sillogismo appella probabili le opinioni del preteso penitente; il
quale, nel caso di coscienza, apertamente dichiara di pensare alla
moderna su questo e sugli altri due punti. Vero è che costui
chiama vecchie le sue idee; ma è evidente, che questa parola gli
è stata messa in bocca ad
ornatum fabulae.
Dall'altro canto, che dobbiamo
fare noi cattolici, se non attenerci di cuore alla nostra fede, che
è come l'àncora di salvezza; e quindi abborrire e
condannare tutti gli altri culti come falsi; non avere rispetto ma
compassione verso quelli che li professano, risguardandoli, quali
sono, infelicissimi naufraghi, che vanno incontro ad irreparabile
morte? Nè solo dobbiamo tenere, che la libertà di
religione è in sè medesima illecita e ripugnante al divino
precetto; ma che essa è altresì perniciosissima alla
repubblica. Per lo che non può niun Principe o Magistrato
prescriverla o approvarla o introdurla nei suoi dominii; ma per lo
contrario la deve impedire e rimuovere con tutti i mezzi, di cui
possa lecitamente disporre. E se a questo non si può riuscire,
senza perturbare e mettere a soqquadro lo Stato, allora solamente
è lecito tollerare i falsi culti; tollerandoli però nella
guisa, che si tollerano i mali gravissimi, cioè con adoperare
ogni cautela, acciocchè i cattolici non sieno ammorbati, e con
fare caritatevoli pratiche, acciocchè coloro che versano
nell'errore si riconducano nella vera Chiesa. Ogni altro concetto di
tolleranza religiosa, diverso da questo che abbiamo descritto, si
avvicina più o meno a quell'indifferentismo, il quale non
curasi di niuna religione, e perverte tutto l'ordine delle cose
divine e umane. Così deve pensare ogni cattolico, e,
massimamente se egli è costituito nell'ordine ecclesiastico,
deve procurare che anche gli altri così pensino.
Nè potevasi ignorare, che tale dottrina è insegnata dalla
Sede romana. L'augusto Pontefice Pio IX nella sua Enciclica
Quanta cura del 1861,
riferì e confermò i detti del suo predecessore Gregorio XVI,
il quale nella Enciclica
Mirari del 1832,
parlò in questi termini: «Dalla
corrottissima sorgente dell'indifferentismo scaturisce quell'assurda
ed erronea sentenza, o piuttosto delirio, che debbasi ammettere o
guarentire per ciascuno la libertà di coscienza. Errore
velenosissimo, a cui spiana il sentiero quella piena e smodata
libertà di opinare, che va sempre aumentandosi a danno della
Chiesa e dello Stato; non mancando chi osa vantare con impudenza
sfrontata provenire da siffatta licenza alcun comodo alla religione.
Ma — qual morte peggiore dell'anima può darsi, che la
libertà dell'errore? — esclamava sant'Agostino. Tolto
infatti ogni freno che contenga nelle vie della verità gli
uomini, i quali da loro stessi volgono al precipizio per la natura
inclinata al male, possiamo veramente dire aprirsi il pozzo di
abisso; dal quale san Giovanni vide salire tal fumo, che ne rimase
oscurato il sole, uscendone schiere di locuste a divorare la terra.
A questo si deve ascrivere il cangiamento degli spiriti, la
depravazione della gioventù, il comune disprezzo delle cose
sacre e delle leggi più sante; e, in una parola, la peste della
società più di ogni altra esiziale. L'esperienza di tutt'i
secoli, fin dalla più rimota antichità, luminosamente
dimostra, che le città più fiorenti per opulenza, per
dominazione, per gloria, andarono infelicemente in rovina per questa
sola ragione, cioè per la smodata libertà di opinare, per
la licenza delle conventicole, e per la smania di novità
[4].»
Ad uno stesso modo è da pensare e discorrere della libertà
di stampa. S'ascolti il medesimo Gregorio XVI, il quale parla di essa,
come segue: «Simile alla
libertà di coscienza, è quella pessima, nè mai
abbastanza esecrata ed abborrita libertà della stampa, che
taluni osano d'invocare e promuovere con tanto clamore. Inorridiamo,
Venerabili Fratelli, al vederci oppressi da tante stravaganze di
dottrine, e portentose mostruosità di errori, i quali si
spargono e disseminano per ogni dove da una straordinaria
moltitudine di libri, di opuscoli e di scritti, piccoli bensì
di mole, ma smisurati per la malizia. Veggiamo colle lagrime agli
occhi, uscire da questa sorgente la maledizione, che invade tutta la
terra. Contuttociò (cosa dolorosa a dirsi!) vi ha di quelli,
che giungono alla sfrontatezza di asserire con insultante protervia,
che questa diffusione di errori è più che abbondevolmente
compensata per qualche opera, che in mezzo a tanta sciagura
comparisce alla luce, in difesa della religione e della verità.
È cosa perversa e riprovata da ogni legge, commettere a bello
studio un male certo e più grave, perchè vi è
speranza, che si potrà ricavare da esso qualche bene. Chi mai
dirà, se pure è sano di mente, che il veleno si debba
spargere liberamente o vendere in pubblico, ed anche bere,
perchè vi è per avventura qualche antidoto, il quale
può forse scampare dalla morte? [5]»
Per tali insegnamenti, tutti
confermati e ripetuti dal regnante Pontefice Pio IX, conchiudiamo,
che non val punto distinguere in fatto di religione e di stampa, due
sorte di libertà, una saggia ed una sfrenata, come vediamo aver
fatto l'Abbate. Ogni libertà, in simili materie, è delirio
e pestilenza. Non vi è niun delirio di uomo sano, ma ogni
delirio è degli uomini infermi. Non havvi niuna peste lodevole
e innocua, ma ogni peste è mortifera, ed è quindi
necessario guardarsene con somma diligenza. I quali principii non
appartengono solamente alla teorica, ma sono di grandissima
importanza anche nella pratica. E però nella civile repubblica
non è mai cosa onesta introdurre o approvare somiglianti
libertà; è solo permesso tollerarle in alcuni casi, come
sopra abbiamo detto, in quella guisa che si tollera la peste. E se
nelle pestilenze che uccidono i corpi si osservano grandi cautele,
non è egli una cosa ragionevole, che se ne osservino anche
maggiori in quelle, che uccidono le anime?
Diciamo ora del dritto, che s'attribuisce allo Stato d'intervenire
nelle materie miste. L'Abbate, come narrano i mentovati giornali,
definì che esso ha un tal d[i]ritto au
même titre, che la Chiesa; e ciò per ragione della
indipendenza sovrana della potestà civile nel suo ordine.
Nel che si vuol notare in primo luogo la dura condizione di colui,
che è costretto a parlare di simili materie, per loro stesse
malagevoli, specialmente se gli si concede breve spazio a ragionare,
come di necessità suole accadere nelle conferenze de' casi di
coscienza. In si difficili congiunture il miglior partito è
scegliere e convalidare quelle sentenze, le quali, ove siano
divolgate, possono conferire a correggere la società; e lasciar
da banda quelle altre, che valgono a confermarla ne' suoi traviamenti.
La società è oggi grandemente sconvolta ed afflitta, non
perchè il Sacerdozio invade i dritti dell'Impero; ma perchè
l'Impero per lo contrario ha invaso quelli del Sacerdozio. Ed a
ciò è stato un forte stimolo quell'idea, nata ad uno stesso
parto col protestantesimo, della indipendenza del potere civile dal
potere ecclesiastico; idea, ricevuta anche da alcuni cattolici,
sinceri sì, ma non abbastanza accorti.
Se questa indipendenza si affermasse solamente quanto alla origine
del potere civile, non vi sarebbe a ridire. È certo di fede, che
la potestà ecclesiastica proviene immediatamente da Dio, senza il
concorso della potestà civile. Se dunque piace a qualcuno dire,
che anche la potestà civile viene in natura immediatamente da
Dio, senza nascere dalla potestà ecclesiastica, lo dica pure.
Allora per questo solo rispetto di origine, le due potestà si
potrebbero dire indipendenti l'una dall'altra; siccome per un rispetto
medesimo si dicono indipendenti tra loro il corpo e l'anima dell'uomo.
Giacchè il corpo non è prodotto dall'anima, che lo informa;
nè, ciò che è impossibile, l'anima è creata dal
corpo. Ma però siccome è capitale errore inferire da questo,
che nell'umano composto il corpo sussista indipendentemente
dall'anima; così è ancora un errore capitale dedurre da
quello che abbiamo concesso, che nella società il potere
temporale non dipenda per niuna guisa dal potere spirituale.
Che il Principe temporale sia investito d'una potestà o
autorità sovrana nel suo ordine, è cosa verissima. Ma da
ciò seguita solamente, che egli non è soggetto a niun'altra
potestà terrena. Non segue, che l'autorità di lui, sovrana
nel suo ordine, non possa essere nè sia per niuna maniera
subordinata all'autorità d'un ordine più perfetto, qual
è la potestà spirituale.
Ogni potestà è da Dio, come afferma san Paolo: Non
est potestas, nisi a Deo [6];
e per queste parole i regalisti e i gallicani dicono, che la
potestà regia viene immediatamente da Dio. Ma di qui essi
argomentano falsamente, che la potestà medesima sia affatto
indipendente dalla potestà ecclesiastica. Un tale errore si
confuta per le altre parole, che l'Apostolo soggiunge immediatamente:
Quae autem sunt, a Deo ordinatae
sunt [7]. [«Quelle
(potestà) che sono,
son da Dio ordinate.» N.d.R.]
Ecco infatti come discorrono i dottori della Chiesa, e con essi i
teologi più sani. — Dio, essi dicono, ha stabilito per
l'esteriore e visibile governo del mondo la potestà civile e la
potestà ecclesiastica; ed insieme ha messo un ordine tra questi
due poteri, come chiaramente insegna san Paolo nelle parole citate, e
come altresì persuade la ragione; giacchè se non vi fosse un
tal ordine, ma fossero per lo contrario le dette potestà
indipendenti l'una dall'altra, non si otterrebbe l'intento
dell'esteriore e perfetto governo delle cose umane. Ma è cosa
assurda affermare, che la potestà ecclesiastica sia subordinata
alla civile; poichè si pervertirebbe l'ordine, ove le cose
spirituali fossero subordinate alle temporali. Resta dunque, che sia
invece il potere temporale subordinato allo spirituale. — Essi,
al medesimo effetto, si valgono comunemente della similitudine che si
trae dall'uomo, nel quale il corpo è soggetto allo spirito [8]. E meritamente; poichè siccome al corpo
è necessario lo spirito, acciocchè sia corpo umano;
così al governo temporale è necessaria una regola
spirituale, acciocchè sia governo retto ed onesto. È dunque
necessario, che colui, il quale ha potestà anche sovrana di
reggere temporalmente, sia regolato dal romano Pontefice, che Iddio ha
costituito sulla terra capo della Chiesa, maestro supremo e custode
della verità e delle immutabili norme della giustizia.
Nè vale opporre, che a questo modo il Papa dovrebbe dettare i
testamenti, prescrivere i suffragi, e dichiarare negli altrui Stati la
guerra e la pace. A così frivoli difficoltà si risponde, che
queste e le altre simili azioni si fanno da chi ha il dritto e il
potere di farle; ma le leggi infallibili, perchè in tutte esse si
operi sempre secondo la religione e la giustizia, si prescrivono dalla
sola Chiesa; la quale ha il dritto d'invigilare, acciocchè queste
sue leggi, che sono leggi di Dio, siano custodite in tutta la
cristianità, ed insieme ha quello di punire i trasgressori. Non
sappiamo poi indurci a credere, che gli uomini di senno reputino
veramente, che lo Stato civile diventi uno stromento passivo ed una
mera macchina della potestà ecclesiastica, quando esso osservi la
subordinazione, che abbiamo detta. La storia smentisce apertamente
questa falsa persuasione. I principi più gloriosi e più
potenti furono quelli, che più docilmente si sottomisero alla
Chiesa; laddove quelli che prestarono facile orecchio ai regalisti,
furono ludibrio dei loro popoli, o perchè divisero con essi la
loro autorità, o anche perchè discesero dai loro troni.
Colla scorta di tali principii, più sicuri, più veri e
più conformi alla tradizione ecclesiastica, era conveniente che
si toccasse quell'ardua questione dell'intervento nelle materie miste.
Messa da parte l'indipendenza del potere secolare, e chiarita la sua
subordinazione al potere ecclesiastico, non sarebbesi facilmente
conchiuso che lo Stato ha il medesimo titolo della Chiesa ad
intervenire in tali materie; ma piuttosto si sarebbe detto, che esso
deve prima sapere dalla Chiesa quali sieno le materie miste,
acciocchè non prenda le materie spirituali per materie miste, e
confonda le une e le altre con quelle che si dicono temporali, facendo
così d'ogni erba fascio; e che deve convenire colla Chiesa ogni
qual volta mette mano in ciò che quelle materie miste hanno di
temporale, acciocchè non violi quello che hanno di spirituale.
Era poi facile provare l'utilità anzi la necessità di queste
avvertenze, rammentando quello che vediamo ne' nostri giorni
praticarsi da alcune autorità civili; le quali, col pretesto di
poter liberamente intervenire nelle materie miste, s'appropriano i
beni ecclesiastici, aboliscono la professione della vita religiosa,
offendono la personale immunità de' sacri ministri, e corrompono
la santità del matrimonio cristiano, con somma ingiuria non pure
della Chiesa, ma altresì della legge ed onestà naturale.
L'opinione contraria, la quale attribuisce al potere civile
l'indipendenza dalla Chiesa, è svolta in tutta la sua ampiezza,
ed è sostenuta, come si può fare d'una causa perduta, nella
famosa Difesa della Dichiarazione
del clero gallicano. E questa è una delle ragioni, per
le quali la detta opera fu sempre dai migliori teologi stimata
meritevole di condanna; ma, ciò che è più, lo stesso
giudicarono altresì i romani Pontefici. «È difficile,
scrisse Benedetto XIV, trovare un altro libro così avverso come
questo alla dottrina, ricevuta fuori della Gallia in tutto il
rimanente della Chiesa, intorno alla infallibilità del sommo
Pontefice, allorquando definisce ex
cathedra; intorno alla sua superiorità sopra ogni
concilio, anche ecumenico; e (si notino queste parole) intorno al
potere indiretto, che egli ha sopra i principi temporali anche
supremi, specialmente se l'esercizio di questo potere torni a
vantaggio della religione e della Chiesa.» E se quest'opera non
fu condannata in effetto, ciò fu, come dice il citato Pontefice,
sì per una certa riverenza verso fa memoria dell'Autore,
benemerito per molti altri capi colla Chiesa; e sì per non dare
occasione a nuovi dissidii [9].»
Razzolando in quest'opera del Bossuet, l'Abbate ha scoperto quei
testi, che cita, di san Gelasio I, di san Gregorio II, e di san
Niccolò I. Simili citazioni non provano nulla, e, quel che è
peggio, per far apparire che provavano qualche cosa, furono travolte
dal proprio senso, ed anche interpolate dall'Autore della Difesa.
L'angustia dello spazio non ci consente di stenderci su di ciò
nell'articolo presente. Potremo farlo a miglior agio in un altro
quaderno; nel quale toccheremo altresì di quegli sciagurati
provvedimenti di Carlo X, riferiti dall'Abbate; e faremo vedere, che
tali storie si dovevano raccontare, piuttosto per ammonire utilmente i
Principi e i loro consiglieri a non ingerirsi nelle faccende di
Chiesa, e non già proporsi come buoni esempii da imitare.
Finalmente anche ivi potremo aggiungere qualche parola, intorno a
quello notizie pellegrine, che danno gli scrittori della Patrie:
cioè, che i giuristi di oggi hanno trovato il principio, che un
atto politico non è legittimo, se non è giusto; e che la
tolleranza civile e la libertà di coscienza furono messe in opera
ne' grandi secoli della Chiesa, e vennero chiaramente insegnate dallo
stesso Gesù Cristo.
Ma torniamo al discorso dell'Abbate, perchè giova mettere in
chiaro quanto di sopra abbiamo detto, cioè che egli non
aggiustava poi tutta la fede a quelle sentenze medesime, che sembrava
difendere. Aveva preso a dimostrare, che le opinioni del penitente
erano probabili, perchè fondate su buone ragioni, e sostenute da
gravi autorità; e quindi inferiva che esso meritava di ricevere
l'assoluzione, come qualsivoglia altro penitente, che seguita opinioni
probabili, contuttochè quelle del confessore siano contrarie. Ma
pure mentre egli così discorreva, altre idee si rappresentavano
al suo animo, ed esso le accoglieva; e così imbrogliava tutto
l'ordine della soluzione del caso di coscienza, anzi troncava i nervi
dello stesso sillogismo che aveva proposto. Gli entrava nel capo che
quel penitente doveva essere un uomo ignorante, ancorchè si
dicesse personaggio politico e di alto affare, ed ancorchè fosse
venuto al confessionale per fare scuola al confessore. Stando in tale
persuasione o sospetto, egli proseguiva que' primi ragionamenti, che
abbiamo riferiti, ed insieme di tratto in tratto spiegava le
qualità e le differenti specie d'ignoranza.
Notò la distinzione tra l'errore obbiettivo, o, com'egli diceva,
per parlare più esattamente, tra l'errore considerato in sè
medesimo, e l'errore subbiettivo, cioè l'errore considerato nella
persona. Partendo da questa distinzione, ragionò in questa forma:
— L'errore considerato astrattamente o in sè medesimo non
può avere alcun dritto, e ciò è evidente da sè,
perchè l'errore così considerato si risolve in una mera
negazione; ma la cosa è ben diversa per l'errore subbiettivo.
Corre ad uno stesso tempo un d[i]ritto o un dovere per
ciascun uomo di scegliere e di seguire nella pratica ciò, che la
sua coscienza, o sufficientemente rischiarata o invincibilmente
erronea, gli rappresenta per vero. — Indi fece avvertire, che
per coscienza invincibilmente erronea, bisogna intendere quella, la
quale persiste nell'errore, dopo avere moralmente fatto tutto il
possibile per discoprire la verità.
Un tale ondeggiamento di spirito prova, che non rimaneva egli stesso
soddisfatto del primo suo sillogismo. Invece di dire, che il penitente
doveva essere assoluto, perchè seguitava opinioni probabili, ei
dubitava non dovesse piuttosto dirsi, che poteva essere assoluto,
perchè versava in una ignoranza invincibile. Queste sono due
soluzioni del caso proposto, diversissime tra loro, e l'una esclude
l'altra. Tutte e due gli tenzonavano nel capo. Se è vero,
così egli doveva discorrere tra sè, se è vero che il
penitente si attiene a sentenze probabili, e se veramente ho io
dimostrata la probabilità di tali sentenze; perchè ora mi
travaglio indarno a dimostrare, che esso è un ignorante e che la
sua ignoranza è invincibile? E se dall'altra parte io lo dimostro
ignorante, allora per necessaria conseguenza vengo a dire, che sono
probabili e vere non già le sentenze che egli tiene, ma
bensì quelle che egli ignora o nega. Come poi poss'io dimostrare,
che l'ignoranza in tali materie, e in mezzo a tanta luce, colla quale
risplendono le verità opposte, sia un'ignoranza invincibile? E,
supposto ancora che il penitente ignori invincibilmente tali
verità, come mai riuscirò a dimostrare potere il confessore
lasciarlo nella sua ignoranza e dargli l'assoluzione? Tanto più,
che qui trattasi di un penitente, il qual dice di esser uomo politico
ed anche principe! Trattasi di errori, i quali hanno una funestissima
influenza nella società, specialmente se sono tenuti da coloro
che la governano; e per questo i romani Pontefici gli hanno
qualificati e proscritti, come errori velenosi e pestiferi!
L'Abbate non rispose altrimenti a niuna di tali questioni; e
però il caso, dopo la soluzione da lui data, si ritrovò in
quei nodi medesimi, dai quali era già prima inviluppato. Se pure
non andiamo ingannati, in quelle risposte è la chiave della
soluzione; e cercheremo di dichiararlo in un altro quaderno, ove
insieme riferiremo il giudizio de' giornali cattolici su questo caso
di coscienza.
[CONTINUA]
[1] Epistola ai Pisoni.
[2] Questo nome ne' fogli
francesi è stato cambiato in quello di de
Chevreuse, e ne' fogli belgi in quello di de
Chevenes. Il cardinale consultato da Carlo X fu il cardinal
arcivescovo di Bordeaux, che aveva nome Jean-Louis-Anne-Madeleine
Lefebvre de Cheverus.
[3] La Patrie.
[4] Atque
ex hoc putidissimo indifferentismi fonte
absurda illa fuit ac erronea sententia, seu potius deliramentum,
asserendam esse ac vindicandam cuilibet libertatem
conscientiae. Cui quidem
pestilentissimo errori viam sternit plena illa, atque immoderata
libertas opinionum, quae in sacrae et civilis rei labem late
grassatur, dictitantibus per summam impudentiam nonnullis, aliquid
ex ea commodi in Religionem promanare. At quae peior mors
animae, quam libertas erroris? inquiebat
Augustinus (Epist. 166). Freno quippe omni adempto, quo homines
contineantur in semitis veritatis, proruente iam in praeceps ipsorum
natura ad malum inclinata, vere apertum dicimus puteum abyssi
(Apocalypsis, IX 3), e quo vidit
Ioannes ascendere fumum, quo obscuratus est sol, locustis ex eo
prodeuntibus in vastitatem terrae. Inde enim animorum immutationes,
inde adolescentium in deteriora corruptio, inde in populo sacrorum
rerumque ac legum sanctissimarum contemptus, inde uno verbo pestis
reipublicae prae qualibet capitalior; cum experientia teste vel a
prima antiquitate notum sit, civitates, quae opibus, imperio, gloria
floruere, hoc uno malo concidisse, libertate immoderata opinionum,
licentia concionum, rerum novandarum cupiditate.
[5] Huc
spectat deterrima illa, ac numquam satis execranda et detestabilis
libertas artis librariae ad scripta quaelibet edenda in vulgus, quam
tanto convicio audent nonnulli efflagitare ac promovere.
Perhorrescimus, Venerabiles fratres, intuentes quibus monstris
doctrinarum, seu potius quibus errorum portentis obruamur, quae
longe ac late ubique disseminantur ingenti librorum multitudine,
libellisque, et scriptis mole quidem exiguis, malitia tamen
permagnis, e quibus maledictionem egressam illacrymamur super faciem
terrae. Sunt tamen, proh dolor! qui eo impudentiae abripiantur, ut
asserant pugnaciter, hanc errorum colluviem inde prorumpentem satis
cumulate compensari ex libro aliquo, qui in hac tanta pravitatum
tempestate ad Religionem ac veritatem propugnandam edatur. Nefas
profecto est, omnique iure improbatum, patrari data opera malum
certum ac maius, quia spes sit, inde boni aliquid habitum iri.
Numquid venena libere spargi, ac publice vendi, comportarique, imo
et obbibi debere, sanus quis dixerit, quod remedii quidpiam
habeatur, quo qui utuntur, eripi eos ex interitu identidem
contingat? Enciclica Mirari.
[6] Ai Romani, XIII, 1.
[7] Ivi.
[8] Ecco alquante testimonianze
di questo genere: Vos quoque,
Principes et Praefecti, imperio meo ac throno lex Christi subiicit.
Imperium enim nos quoque gerimus; addo etiam praestantius ac
perfectius: nisi vero aequum sit spiritum carni, et coelestia
terrenis cedere. San
Gregorio il Teologo ,Oraz.
XVII ai cittadini di Nazianzo.
Ex sacerdotio et regno rerum
administratio consurgit: quamvis enim permagna sit utriusque
differentia, illud velut anima est, hoc velut corpus, ad unum tamen
et eumdem finem tendunt. Sant'Isidoro
Pelusiota, lib. III, ep. CCXLIX.
Sicut sensus animalis subditus
esse debet rationi, ita potestas terrena subdita esse debet
ecclesiastico regimini: et quantum valet corpus, nisi regatur ab
anima, tantum valet terrena potestas, nisi informetur et regatur ab
ecclesiastica disciplina. Ivone
Carnotense, epist. LI, ad
Errico re d'Inghilterra.
Quanto vita spiritualis dignior
est quam terrena, et spiritus quam corpus; tanto spiritualis
potestas terrenam potestatem et instituere habet ut sit, et iudicare
si bona non fuerit. Ugone
Vittorino, lib. II, de
Sacram. fidei christ., par. II, cap. IV.
Quamvis in odine potestatum
saecularium nullus est maior rege vel imperatore, quemadmodum in
ordine potestatum spiritualium nullus est maior Papa; sed tamen
collatione facta potestatis spiritualis ad saecularem, potestas
spiritualis est supra corporalem, spiritus supra corpus. L'Alense, p. 3, quaest.
40, membr. 2.
Potestas saeeularis subditur
spirituali, sicut corpus animae. S.
Tommaso, 1a 2ae,
quaest. 60, art. 6, ad 3.
[9] Difficile
est profecto aliud opus reperire, quod aeque adversetur doctrinae
extra Galliam ubique receptae de summi Pontificis ex cathedra
definientis infallibilitate; de eius excellentia supra quodcumque
concilium etiam oecumenicum; de eius iure indirecto, si
potissimum religionis et Ecclesiae commodum id exigat, super iuribus
temporalibus principum supremorum... Tandem
conclusum fuit, ut a proscriptione (operis) abstineretur, nedum ob
memoriam auctoris ex tot aliis capitibus de religione bene meriti,
sed ob iustum novorum dissidiorum timorem. Breve di
Benedetto xiv
all'Inquisitore di Spagna, spedito il 30 Luglio 1748.
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