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sabato 16 aprile 2016

San Paolo diceva: Dio vuole la vostra santificazione; che vi asteniate da atti impuri; che ciascuno di voi sappia mantenere il proprio vaso carnale in santità e dignità, non già nella irrequietezza del desiderio, come i pagani che ignorano Dio (I Tess. IV, 5).

 Fonte: Progetto Barruel...

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Da: Catechismo ad uso dei Parroci pubblicato da S. Pio V Pont. Mass. per Decreto del Concilio di Trento, nuova traduzione a cura di Mons. Enrico Benedetti, Roma 1918 pag. 497-511 e 599-611

PARTE TERZA

I PRECETTI DEL DECALOGO

Importanza del Decalogo. Cat. 161.
298. Sant'Agostino esalta apertamente il Decalogo come sintesi e riassunto di tutte le leggi: Molte cose aveva detto il Signore, e pure due sole tavole di pietra sono date a Mosè, dette tavole della testimonianza futura nell'arca; perchè tutto il resto che il Signore aveva comandato si intende compreso nei dieci comandamenti incisi nelle due tavole. Come del resto i medesimi dieci comandamenti dipendono a loro volta dai due dell'amore di Dio e del prossimo, in cui sta in sintesi tutta la Legge e tutto l'insegnamento dei Profeti. [S. August., Questionum in Heptateuchum libri septem, liber II, Quaestiones in Exodum. N.d.R.]
Essendo qui il nocciolo di tutta la Legge, occorre che i Pastori attendano giorno e notte ad enuclearlo, non soltanto per uniformarvi la propria vita, bensì anche per istruire nella disciplina del Signore il gregge loro affidato. È detto: Le labbra sacerdotali custodiranno la scienza, e dalla loro parola attingeranno la legge, poichè il sacerdote e l'angelo degli eserciti del Signore (Mal. II, 7). Sentenza cotesta che si applica in modo particolare ai Pastori della nuova Alleanza che, più vicini a Dio, debbono ascendere di splendore in splendore, in virtù dello spirito del Signore (II Cor. III, 17). Avendoli Gesù Cristo insigniti del nome di luminari (Matt. V, 14), è loro stretto compito fornir luce a coloro che giacciono nelle tenebre, costituirsi istruttori degli ignoranti, educatori dei fanciulli (Rom. II, 19), di più essi che sono spirituali dovranno soccorrere chi sia irretito nel delitto (Gal. VI, 1). Inoltre essi sono giudici nelle confessioni ed emanano sentenze secondo la qualità e la gravita dei peccati. Onde se non vogliono essere imputati di incapacità, se non vogliono frodare gli altri, debbono essere vigilantissimi nell'adempimento di simile compito e sperimentati nella interpretazione dei divini precetti, in base ai quali debbono giudicare ogni azione ed ogni omissione. Secondo l'ammonimento dell'Apostolo, impartiscano la sana dottrina (II Tim. IV, 3), immune cioè da ogni errore e curino le malattie dell'anima, i peccati, sicchè il loro popolo appaia caro a Dio, praticante le opere buone (Tit. II, 14).
Esposizione del Decalogo. Cat. 162-167.
299. In simili esposizioni il Pastore proponga a sè e agli altri argomenti capaci di indurre alla obbedienza alla Legge.
Ora, tra le ragioni che possono istigare gli spiriti degli uomini al rispetto dei precetti della Legge, quella che riveste maggiore forza è questa: Dio ne è l'autore. Sebbene si dica consegnata dagli angeli (Gal. III, 19), nessuno può revocare in dubbio il fatto che Dio stesso ne è l'autore. Ne danno ampio affidamento non solamente le parole dello stesso Legislatore che commenteremo fra poco, ma passi quasi innumerevoli delle Scritture, che agevolmente soccorreranno ai Pastori. Del resto chi non sente una legge divina inserita nel proprio cuore, in virtù della quale sa distinguere il bene dal male, l'onesto dal turpe, il giusto dall'ingiusto? E perchè la forza regolatrice di questa legge naturale non e diversa affatto da quella scritta, chi mai oserà negare che come Dio è l'Autore della legge naturale non lo sia anche della Legge scritta? Ora deve insegnarsi che consegnando la Legge a Mosè, Dio non conferì una luce nuova, bensì rinnovo il fulgore di una luce che i costumi perversi e una diuturna negligenza avevano miseramente oscurato. Non creda anzi il popolo che egli sia esonerato dal vincolo di queste leggi, perchè fu derogato già alla Legge di Mosè. È certissimo infatti che dobbiamo obbedire a questi comandamenti non perchè sono stati imposti per mezzo di Mosè, ma perchè scolpiti nell'anima di ciascuno, e da nostro Signore spiegati e ratificati. Ad ogni modo gioverà moltissimo e rivestirà una singolare virtù dimostrativa la considerazione che Dio, sulla sapienza e giustizia del quale non è lecito sollevare dubbi e alla cui infinita e vigorosa potenza non possiamo sottrarci, emanò la Legge. Perciò comandando per mezzo dei profeti di rispettare la legge, Dio dichiarava apertamente chi era, e nell'esordio stesso del Decalogo leggiamo: Io sono il Signore Iddio tuo (Esod. XX, 2). Altrove: Se io sono il Signore, dove è il timore dovuto a me? (Mal. I, 6). Cotesto pensiero non solamente stimolerà le anime fedeli al rispetto dei precetti divini, ma anche ad azioni di grazie, per avere Iddio spiegata la sua volontà, via alla nostra salvezza. Ripetute volte la sacra Scrittura esaltando questo straordinario beneficio, ammonisce il popolo di riconoscere la propria dignità e la benevolenza del Signore. Nel Deuteronomio è scritto: Qui la vostra saggezza e la vostra prudenza di fronte ai popoli, che udendo il mondo questi comandamenti, esclami:
Ecco un popolo saggio e prudente, ecco una grande razza (Deut. IV, 6). E nei Salmi: Non si portò così con ogni popolo e non rivelò i suoi voleri a tutti (Salm. CXLVII, 10).

Che se il Parroco additerà inoltre, sulla fede della Scrittura, il modo in cui la Legge fu consegnata, i fedeli comprenderanno anche più agevolmente con quanta pia devozione debba essere rispettata la legge ricevuta da Dio. Tre giorni prima infatti per comando di Dio tutti dovettero lavare le proprie vesti, astenersi dai rapporti coniugali, per meglio predisporsi a ricevere la Legge; per il terzo giorno tutti dovettero radunarsi, ma, pervenuti al monte da cui il Signore voleva impartire loro le leggi per mezzo di Mosè, al solo Mosè fu concesso di salirvi. E allora Dio vi discese con grande sfoggio di maestà, fra tuoni, lampi, fuoco, dense nuvole, e comincio a parlare a Mosè, consegnandogli le leggi (Esod. XIX, 10). Per una sola ragione la divina sapienza volle tutto ciò, per mostrarci cioè che la legge del Signore va accolta con animo casto ed umile, e che, trasgredendo i comandamenti, noi andiamo incontro a serie pene divine.
Il Parroco mostrerà del resto come i precetti della Legge non implichino una seria difficoltà, e lo potrà fare adducendo questa sola ragione, prospettata da sant'Agostino, quando dice: Chi, di grazia, vorrà definire impossibile per l'uomo l'amare, l'amare un Creatore benefico, un Padre amantissimo, e, in linea subordinata, la carne propria nei propri fratelli? Orbene, chi ama, ha adempito la legge (Dei costumi della Chiesa, XXV). Onde già l'apostolo Giovanni assicurava nettamente che i comandamenti di Dio non sono onerosi (I Giov. V, 3), perchè secondo la frase di san Bernardo, non si sarebbe potuto chiedere all'uomo nulla di più giusto, di più dignitoso, di più fruttifero (Del dovere di amare Iddio, c. I). Per questo, ammirando la infinita bontà di Dio, Agostino esclama: Che cosa e mai l'uomo, che tu vuoi esserne amato e minacci gravi pene a chi non voglia farlo, come se non già fosse pena immensa il non amarti? (Conf. I, 5). Che se alcuno accampi a sua scusa l'infermità della natura che gli impedisce di amar Dio, gli si mostrerà come lo stesso Dio il quale chiede amore, instilla nei cuori la capacita di amare, per mezzo dello Spirito santo, che viene dal Padre celeste concesso a chi lo invoca (Luc. XI, 13). Onde è giusta la formola di preghiera di sant'Agostino: Concedi quel che comandi e comanda quel che vuoi (Conf. X, 29). E poichè l'aiuto di Dio è a nostra disposizione, specialmente dopo la morte di nostro Signore Gesù Cristo, per merito della quale il sovrano di questo mondo è stato debellato, non c'è ragione che ci si spaventi delle difficoltà dei precetti, poichè nulla appare arduo a chi ama.
Del resto a persuadere tutti di ciò gioverà sopra tutto la spiegazione che è necessario obbedire alla Legge, non essendo mancato ai nostri tempi chi, empiamente e con massimo proprio danno, ha osato sostenere, che, facile o difficile, la Legge non è necessaria alla salvezza. Il Parroco confuterà con le testimonianze bibliche questa insana e dannabile sentenza, riferendosi specialmente all'Apostolo, della cui autorità si cerca abusare per sostenerla. Che cosa dice in sostanza l'Apostolo? Che non il prepuzio o la circoncisione valgono qualcosa, ma solamente il rispetto dei precetti di Dio (I Cor. VII, 19). E ripetendo altrove la medesima sentenza, aggiungendo che in Gesù Cristo conta solamente la nuova creatura (Gal. VI, 15), noi intendiamo come egli chiama così colui che si uniforma ai comandamenti divini. Chi li conosce e rispetta, ama Iddio, come il Signore stesso dichiara presso san Giovanni: Chi mi ama, osserverà i miei discorsi (Giov. XIV, 21). Che se l'uomo può essere giustificato e da malvagio divenir buono anche prima di applicare nelle azioni esterne le singole prescrizioni della Legge; non può però chi abbia già l'uso della ragione trasformarsi da empio in giusto, se non sia disposto a osservare tutti i comandamenti di Dio.
Frutti del Decalogo.
300. Infine per non dimenticare nulla di ciò che può indurre il popolo fedele all'osservanza della Legge, il Parroco mostrerà di quanto ricchi e dolci frutti essa sia causa. E lo potrà fare facilmente ricordando quanto è scritto nel Salmo decimottavo, consacrato a cantare le lodi della Legge divina, fra cui massima appare la capacità di dare risalto alla gloria e alla maestà di Dio, molto più di come non possano fare i corpi celesti, con il loro splendore e il loro ordine, i quali, strappando l'ammirazione alle più barbare genti le portano a riconoscere la saggezza, la potenza, l'altitudine del Fattore primo d'ogni cosa. Così la Legge divina volge le anime a Dio (Psal. XVIII, 8); che scoprendo i suoi sentieri e la sua santa volontà attraverso la Legge, là dirigiamo i nostri passi. E poichè sono veramente sapienti solo coloro che temono Dio, Dio ha dato alla Legge la capacità di infondere sapienza ai piccioletti. In verità sono in possesso di autentici godimenti, e della conoscenza dei misteri divini, e di intense gioie e ricompense, in questa vita come nella futura, coloro che osservano la Legge di Dio. Del resto la Legge deve essere da noi rispettata non solo per il nostro vantaggio, ma anche per l'onore di Dio, il quale manifestò nella Legge la sua volontà al genere umano. E perchè tutte le creature vi sottostanno, non è anche più equo che l'uomo pure la rispetti? Nè va dimenticata la singolarissima clemenza e bontà di Dio verso di noi, a questo proposito. Avrebbe potuto infatti costringerci, senza la prospettiva di alcun premio, a servire alla sua gloria. E pure volle armonizzare questa con il nostro vantaggio, affinchè ciò che ci è utile tornasse anche ad onor di Dio. Particolare cotesto rimarchevolissimo, che il Parroco ricorderà con le ultime parole del Profeta: Nel custodire i tuoi precetti, o Signore, generosa è la mercede (Salm. XVIII, 12). Esso non abbraccia solamente benedizioni riguardanti la felicità terrena, come la prosperità delle città, la pinguedine dei campi (Deut. XXVIII, 3): ma anche frutti copiosi in cielo (Matt. V, 12), una misura buona, pigiata, scossa e straboccante (Luc. VI, 38), meritata con le opere buone, compiute con l'aiuto della divina misericordia.
Istituzione del Decalogo. Cat. 161.
301. Sebbene questa Legge sia stata consegnata dal Signore sul monte ai Giudei, tuttavia, poichè per virtù di natura era impressa, da molto tempo prima, nelle anime di tutti, e Dio ha sempre voluto che tutti gli uomini vi si uniformassero, sarà bene spiegare con cura le parole con le quali da Mosè, strumento ed interprete, essa fu annunciata agli Ebrei, insieme alla storia Israelitica che è tutta piena di misteri.
Esporrà da prima come fra tutte le nazioni sulla faccia della terra Dio ne prescelse una originata da Abramo, che egli volle pellegrino nella terra di Canaan. Di questa aveva promesso a lui il possesso e pure tanto lui che la sua posterità andò vagando per più di quattrocento anni prima di potervi entrare ad abitarla. Mai però lascio di proteggerli durante la diuturna peregrinazione. Passavano, immigravano infatti da popolo a popolo e da regno a regno; mai però tollerò che da alcuno si recasse loro ingiuria; al contrario tenne a bada i re. Prima che essi scendessero in Egitto, mandò innanzi a loro un individuo che con la sua preveggenza doveva salvare dalla fame tanto essi che gli Egiziani. In Egitto poi li circonfuse di una tale affettuosa tutela, che, nonostante l'ostilità e la perenne minaccia del Faraone, poterono moltiplicarsi in maniera mirabile. E quando le afflizioni toccarono il loro apogeo, e cominciarono ad essere trattati durissimamente come schiavi, Dio suscito Mosè quale condottiero, capace di trarli a salvamento con mano energica. Precisamente questa liberazione ricorda il Signore sull'inizio della Legge, con le parole: Io sono il Signore Dio tuo, che ti trassi fuori dalla terra d'Egitto, dalla casa della schiavitù.
Il Parroco baderà a porre bene in luce questa circostanza: che Dio prescelse una fra tutte le nazioni per essere il suo popolo eletto, da cui farsi conoscere e venerare in modo speciale, non già perchè le superasse per numero o per virtù, come del resto il Signore stesso ricorda agli Ebrei, ma solo perchè a Dio piacque sostenere e arricchire una razza modesta e bisognosa, affinchè la sua potenza e la sua bontà ne avessero maggior lustro nell'universo. Appunto per quelle loro qualità, si strinse con essi, li predilesse, non sdegnando neppure di esser detto loro Dio, affinchè gli altri popoli ne fossero stimolati ad emulazione e constatando la felice condizione degli Israeliti, tutti gli uomini si convertissero al vero culto di Dio. Come anche san Paolo testimoniò di sè, di aver voluto cioè stimolare ad emulazione la propria gente, prospettando la beatitudine e la vera conoscenza di Dio da sè impartita ai gentili.
Mostrerà poi ai fedeli come Dio permise che i Padri ebrei peregrinassero a lungo, che i loro posteri fossero premuti e vessati in durissima schiavitù onde noi constatassimo che solo chi è pellegrino sulla terra e osteggiato dal mondo può divenire amico di Dio; sicchè per essere accolti più agevolmente nella dimestichezza di Dio, occorre non aver nulla di comune con il mondo; ed inoltre perchè comprendessimo, una volta passati al vero culto di Dio, quanto più felici siano coloro che servono a Dio, anzichè al mondo. Ci ammonisce appunto la Scrittura: Servano pure ad essi, perchè conoscano l'abisso che separa il servizio mio dal servizio dei re terreni (II Par. XII, 8).
Racconterà inoltre come per più che quattrocento anni, Dio prorogò le sue promesse, affinchè il popolo si alimentasse costantemente nella fede e nella speranza. Poichè Dio vuole che i suoi fedeli dipendano sempre da lui e collochino nella sua bontà tutta la loro fiducia, come diremo nella spiegazione del primo comandamento.
Infine indicherà il tempo e il luogo in cui il popolo di Israele ricevette questa Legge da Dio. Fu precisamente dopo l'uscita dall'Egitto e l'arrivo nel deserto, quando la memoria grata del recente beneficio e l'asprezza paurosa del luogo dove si trovava, lo rendevano particolarmente atto ad accoglierla. Poichè gli uomini si sentono in modo particolare vincolati a coloro di cui hanno sperimentato i beneficî e sogliono ricorrere all'aiuto di Dio quando si sentono abbandonati da ogni speranza umana. Donde è facile arguire come i fedeli saranno tanto più inclinati ad accogliere la celeste dottrina, quanto più si terranno lontani dalle gioie del mondo e dalle soddisfazioni carnali. Come ha detto il Profeta: A chi impartirà la scienza e a chi dischiuderà l'udito? A chi ha abbandonato il latte ed è stato staccato dalle mammelle (Isa. XXVIII, 9).
Compia il Parroco ogni sforzo perchè il gregge fedele porti ognora scolpite in cuore le parole: Io sono il Signore Iddio tuo. Per esse intenderà come il suo legislatore è lo stesso Creatore, da cui ebbe l'essere e da cui è conservato. E a buon diritto così potrà esclamare: Egli è il Signore Iddio nostro: noi popolo del suo pascolo, pecore sotto la sua mano (Salm. XCIV, 7) La ripetizione frequente e calorosa di queste parole avrà la capacita di rendere i fedeli più pronti al rispetto della Legge, più disposti a star lontani dal peccato.
Per quanto riguarda le parole che seguono: Io ti trassi dalla terra d'Egitto, dalla casa della schiavitù, sebbene sembrino attagliarsi solamente agli Ebrei, affrancati dal giogo egiziano, in verità se si badi al significato spirituale della salvezza universale, appariranno molto più applicabili ai Cristiani, strappati, non già al servaggio egiziano, bensì alla sfera del peccato, da Dio sottratti alla potenza delle tenebre e trasferiti nel regno del Figlio del suo amore. Intravedendo l'entità di tale beneficio, Geremia annunciava: Ecco, arrivano giorni, dice il Signore, nei quali non si dirà più: Vive il Signore che trasse fuori i figli d'Israele dalla terra d'Egitto, bensì: Vive il Signore che trasse i figliuoli d'Israele dalla terra del borea e da tutte le terre per cui li cacciai: e li raccoglierò nella terra, elargita già ai loro padri. Ecco: invierò numerosi pescatori, dice il Signore, e li pescheranno, con quel che segue (Ger. XVI, 14). II Padre misericordioso, mediante il Figlio suo, radunò i figli dispersi, onde, non più schiavi della colpa, ma della giustizia, lo serviamo nella santità e nel bene, apertamente, per tutti i giorni della nostra vita. Perciò i fedeli sapranno opporre, come uno scudo, a tutte le tentazioni la sentenza dell'Apostolo: Morti al peccato, come potremo ancora vivere in esso? (Rom. VI, 2). Poichè non apparteniamo più a noi stessi, ma a colui che è morto per noi e risorto. Egli il Signore nostro Dio, che ci comprò col suo sangue; come potremo peccare contro il Signore nostro Dio e nuovamente crocifiggerlo? Realmente liberi, di quella libertà conferitaci da Gesù Cristo, come avevamo mostrato le nostre membra strumenti di ingiustizia, mostriamole ormai strumenti del bene, sulle vie della santità.
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SESTO COMANDAMENTO

Non commettere atti impuri. 

Spiegazione del comandamento.
333. Poichè il vincolo tra marito e moglie è il più stretto che esista e nulla può essere loro più dolce, che il sentirsi vicendevolmente stretti da un affetto singolare, nulla, al contrario, può capitar ad uno di essi di più amaro, che sentire il legittimo amore del coniuge rivolgersi altrove. Ragionevolmente perciò alla legge che garantisce la vita umana dall'omicidio segue quella che vieta la fornicazione o l'adulterio, a che nessuno si attenti di contaminare o spezzare quella veneranda unione matrimoniale, da cui suole scaturire così ardente fuoco di carità.
Toccando però questo argomento il Parroco usi la più prudente cautela e con sagge parole alluda a cose che esigono la moderazione, più che l'abbondanza dell'eloquio. È da temersi infatti che diffondendosi troppo a spiegare i modi con cui gli uomini possono trasgredire questo comandamento, finisca con il dire frasi capaci di eccitare la sensualità, anzichè reprimerla.
Ad ogni modo il precetto racchiude molti elementi che non possono essere trascurati, e il Parroco li spiegherà a suo tempo. Esso ha due parti, una vietante apertamente l'adulterio, l'altra, più generica, che impone la castità dell'anima e del corpo.
Dell'adulterio. Cat. 201.
334. Per iniziare l'insegnamento da quel che e vietato, diremo subito che adulterio e violazione del legittimo letto, proprio o altrui. Se un marito ha rapporti carnali con donna non coniugata, viola il proprio vincolo matrimoniale; se un individuo non coniugato abbia rapporti con donna maritata è contaminato dal delitto di adulterio il vincolo altrui.
Sant'Ambrogio e sant'Agostino ci confermano che con simile divieto dell'adulterio è proibito ogni atto inonesto ed impudico. Il che risulta direttamente dalla Scrittura del vecchio come del nuovo Testamento. Nei libri Mosaici noi vediamo puniti altri generi di libidine carnale, oltre l'adulterio. Leggiamo nel Genesi la sentenza pronunciata da Giuda contro la nuora (XXXVIII, 24); nel Deuteronomio è formulata la legge Mosaica: delle figlie d'Israele nessuna sia cortigiana (XXIII, 17). Tobia così esorta il figliuolo: Guárdati, figlio mio, da ogni atto impudico (Tob. IV, 13). E l'Ecclesiastico dice: Vergognati di guardare la donna perduta (XLI, 25). Nel Vangelo poi Gesù Cristo sentenzia che dal cuore emanano gli adulterî e le azioni disoneste che macchiano l'uomo (Matt. XV, 19). E l'apostolo Paolo bolla di frequente, con parole roventi, questo vizio: Dio vuole la vostra santificazione; vuole che vi asteniate dalle impurità (I Tess. IV, 3). E altrove: Evitate ogni fornicazione (I Cor. VI, 18); Non vi mescolate agli impudici (I Cor. V, 9); In mezzo a voi, non siano nè pur nominate la incontinenza, l'impurita di ogni genere, l'avarizia (Efes. V, 3); Disonesti ed adulteri, effeminati e pederasti non possederanno il regno di Dio (I Cor. VI, 9).
L'adulterio e stato espressamente menzionato nel divieto, perchè alla sconcezza che riveste in comune con tutte le altre forme di incontinenza, accoppia un peccato di ingiustizia di fronte al prossimo e di fronte alla civile società. Inoltre è indubitato che chi non si tien lontano dalle forme ordinarie della impudicizia, facilmente incapperà nel crimine di adulterio. Onde e agevole comprendere come nel divieto dell'adulterio, è conglobata la proibizione di ogni genere di impurità contaminante il corpo. Del resto che questo comandamento investa ogni intima cupidigia dell'animo, appare così dalla natura stessa della legge, che è spirituale, come dalle esplicite parole di nostro Signore: Udiste come fu detto agli antichi: non fare adulterio. Ma io vi dico: Chiunque guarda una donna per fine disonesto, in cuor suo ha già commesso adulterio su lei (Matt. V, 27).
A ciò che riteniamo debba essere pubblicamente insegnato ai fedeli, si aggiungano i decreti del concilio di Trento contro gli adulteri e coloro che mantengono prostitute e concubine (Sess. XXIV, c. 8), tralasciando però di parlare dei vari e multiformi generi di libidine sessuale, intorno a cui il Parroco vorrà ammonire i singoli fedeli, qualora le circostanze di tempo e di persona lo richiedessero.
Considerazioni per conservar la castità.
335. Saranno pur qui spiegate le sentenze che hanno forza di precetto. I fedeli debbono essere ammaestrati ed esortati a rispettare con ogni cura la pudicizia e la continenza, a conservarsi mondi da ogni contaminazione della carne o dello spirito, realizzando la santità nel timore di Dio (II Cor. VII, 1).
Si dirà loro che sebbene la virtù della castità debba maggiormente brillare in quella categoria di persone che coltivano il magnifico e pressochè divino proposito della verginità, con più costanza, pure essa conviene anche a coloro che menano la vita celibataria o, congiunti in matrimonio, si mantengono mondi dalla libidine vietata.
Le molte sentenze dei Padri con cui siamo ammaestrati che dobbiamo dominare le passioni sensuali e frenare l'istinto passionale saranno dal Parroco accuratamente esposte al popolo, in una trattazione diligente e costante. Parte di esse riguarda il pensiero, parte l'azione.
Il rimedio che mira all'intelligenza tende a farci comprendere quanto grande siano la turpitudine e il pericolo di questo peccato. In base a simile apprezzamento, più viva arderà in noi l'avversione per esso. Che si tratti di un peccato che è un vero flagello, può ricavarsi dal fatto che a causa di esso agli uomini incombe l'ultima rovina: la espulsione dal regno di Dio e lo sterminio.
Che se simile pena può sembrare comune ad ogni genere di peccato, qui abbiamo questo di caratteristico, che i fornicatori, secondo la frase dell'Apostolo, peccano contro il proprio corpo: Fuggite l'impudicizia. Qualunque peccato l'uomo commetta, si svolge fuori del corpo, ma il fornicatore pecca sul proprio corpo (I Cor. VI, 18); vale a dire lo tratta ignominiosamente, violandone la santità. A quei di Tessalonica lo stesso san Paolo diceva: Dio vuole la vostra santificazione; che vi asteniate da atti impuri; che ciascuno di voi sappia mantenere il proprio vaso carnale in santità e dignità, non già nella irrequietezza del desiderio, come i pagani che ignorano Dio (I Tess. IV, 5).
Cosa ben più ripugnante, se il Cristiano si unisca turpemente ad una meretrice, fa membra della meretrice le membra di Gesù Cristo, come appunto dice san Paolo: Non sapete che i vostri corpi sono membra di Gesù Cristo? Sottraendo le membra a Gesù Cristo, le faro membra della meretrice? Non sia mai. Ignorate forse che aderendo alla meretrice, ne risulta un solo corpo? (I Cor. VI, 15).
Inoltre, il Cristiano, sempre secondo san Paolo, è tempio dello Spirito santo (I Cor. VI, 19), violare il quale significa espellerne lo Spirito santo stesso.
Particolare malvagità è racchiusa nel delitto di adulterio. Se infatti, come vuole l'Apostolo, i coniugi sono così vincolati da una scambievole sudditanza che nessuno dei due possegga illimitata potestà sul proprio corpo, ma siano così schiavi quasi l'uno dell'altro che il marito debba uniformarsi alla volontà della moglie e la moglie a quella del marito (I Cor. VII, 4); ne consegue che chi dei due separa il proprio corpo che spetta all'altrui diritto, da colui cui è vincolato, si rende reo di specialissima iniquità.
E poichè l'orrore dell'infamia è per gli uomini un valido stimolo a far quanto e prescritto e a sfuggire quanto è vietato, il Parroco insisterà nel mostrare come l'adulterio imprime sugli individui una profonda orma di bruttura. È scritto nelle sacre Carte: L'adultero, a causa della sua fragilità di cuore, perderà l'anima sua; condensa su di sè la vergogna e l'abbominio; la sua turpitudine non sarà mai cancellata (Prov. VI, 32).
La gravità di questa colpa può essere agevolmente ricavata dalla severità della punizione stabilita. Nella legge fissata da Dio nel vecchio Testamento gli adulteri venivano lapidati (Lev. XX, 10; Deut. XXII, 22). Anzi talora per la concupiscenza sfrenata di un solo, non il reo semplicemente, ma l'intiera città fu dannata alla distruzione: tale la sorte dei Sichemiti (Gen. XXXIV, 25). Del resto numerosi appaiono nella sacra Scrittura gli esempi dell'ira divina, che il Parroco potrà evocare, per allontanare gli uomini dalla riprovevole libidine: la sorte di Sodoma e delle città finitime (Gen. XIX, 24), il supplizio degli Israeliti che avevano fornicato nel deserto con le figlie di Moab (Num. XXV): la distruzione dei Beniamiti (Giud. XX). Che se v'è alcuno che sfugge alla morte, non si sottrae però a dolori intollerabili, a tormenti punitivi, che piombano inesorabili. Accecato così ne rimane nella mente (ed e già questa pena gravissima) che non tiene più alcun conto di Dio, della fama, della dignità, dei figli, della propria stessa vita. Ne rimane così depravato e inutilizzato, da non poterglisi affidare nulla di grave, da non poter assegnarlo come idoneo ad alcun ufficio. Possiamo scorgere esempi di questo in David come in Salomone: il primo, resosi reo di adulterio, subitamente cambiò natura e da mitissimo divenne feroce, sì da mandare alla morte l'ottimo Urìa (II Sam. XI); l'altro perduto nei piaceri delle donne, si allontano così dalla vera religione di Dio, da seguire divinità straniere (III Re, XI). Secondo la parola di Osea, questo peccato travia il cuore dell'uomo (Os. IV, 11) e ne acceca la mente.
Azioni dirette a conservar la castità.
336. Veniamo ora ai rimedi che riguardano l'azione. Il primo consiste nel fuggire con ogni cura l'ozio. Impoltronendo nell'ozio, come dice Ezechiele (Ezech. XVI, 49), gli abitanti di Sodoma precipitarono nel più vergognoso crimine di concupiscenza.
È da evitarsi parimenti con grande vigilanza la gozzoviglia. Li satollai, dice il Profeta, e fornicarono (Gerem. V, 7). Il ventre ripieno, provoca la libidine, come insinuò il Signore con le parole: Badate, affinchè i vostri cuori non si appesantiscano nella crapula e nell'ebrietà (Luc. XXI, 34), e l'Apostolo con le altre: Non vogliate ubriacarvi, poichè il vino nasconde la lussuria (Efes. V, 18).
Gli occhi però sono veicoli attraverso i quali l'animo suole accendersi a cupidigia. Per questo il Signore ha detto: Se il tuo occhio destro ti scandalizza, cavalo e gettalo via da te (Matt. V, 29). E molte sono in proposito le sentenze dei profeti. Giobbe dice ad esempio: Strinsi un patto con gli occhi miei, onde fantasma di vergine non balenasse al mio pensiero (Giob. XXXI, 1). Come copiosi, quasi innumerevoli sono gli esempi, di azioni perverse, rampollate dalla vista. Pecco così David (II Sam. XI, 2), pecco così il re di Sichem (Gen. XXXIV, 2), così finirono col farsi calunniatori di Susanna i vecchi di cui parla Daniele (XIII, 8).
Spesso incentivo non indifferente alla libidine offre la moda ricercata, che solletica il senso visivo. Per questo ammonisce l'Ecclesiastico: Volta la tua faccia dalla donna elegante (IX, 8). E poichè le donne sogliono badare troppo alla loro acconciatura, non sarà male che il Parroco attenda di frequente a premunirle in proposito, memore delle parole gravissime che l'apostolo Pietro ha dettato sull'argomento: La pettinatura delle donne non sia appariscente, i monili e l'abbigliamento non siano ricercati (I Pietr. III, 3), e di quelle di san Paolo: Non badate ai capelli ben attorcigliati, agli ori, alle pietre preziose, alle vesti sontuose (I Tim. II, 9): molte infatti che erano acconciate con oro e gioielli, smarrirono i veri ornamenti dell'anima e del corpo.
Insieme allo stimolo libidinoso che è dato dalla raffinata ricercatezza delle vesti, occorre considerare quello che emana dai discorsi turpi ed osceni: l'oscenita delle parole, quasi fiaccola ardente, accende gli animi dei giovani : i perversi conversari, dice l'Apostolo, corrompono i buoni costumi (I Cor. XV, 33). E poichè il medesimo effetto producono, in misura anche più notevole, i balli e i canti sdolcinati, occorre tenersi lontani anche da questi. In simile categoria di incitamento alla voluttà vanno annoverati i libri osceni e trattanti dell'amore sessuale, da evitarsi con non minore severità delle figure rappresentanti qualcosa di turpe, la cui capacita di spingere al male e di infiammare i sensi giovanili è straordinaria. Il Parroco curi perciò sopra tutto che siano osservate con il massimo rispetto le costituzioni sapienti del concilio Tridentino in proposito (Sess. XXV).
Se con attenta cura e vigile amore sia evitato quanto siamo venuti commemorando, sarà soppressa ogni occasione alla concupiscenza carnale. A soffocar poi la sua congenita energia valgono in modo eminente la Confessione e la Comunione frequenti; le assidue e umili preci a Dio, accompagnate da elemosine e da digiuni. La castità è in fondo un dono che Dio non nega a chi convenientemente lo cerca (I Cor. VII, 7), poichè Egli non consente che noi siamo tentati sopra le nostre forze (I Cor. X, 13).
Dobbiamo infine mortificare il corpo e i suoi appetiti malsani non solamente con i digiuni, quelli specialmente prescritti dalla santa Chiesa, ma anche con le vigilie, i pii pellegrinaggi e con macerazioni di altro genere. In simili pratiche si manifesta la virtù della temperanza. Scriveva appunto san Paolo a quei di Corinto: Chi si appresta a gareggiare nella palestra, segue un regime di grande astinenza. E pure essi ambiscono una semplice corona corruttibile, mentre noi l'aspettiamo immortale. E poco appresso: Freno il mio corpo e lo tengo in soggezione, affinchè, dopo aver predicato agli altri, io stesso non appaia alla fine, un reprobo (I Cor. IX, 25). E altrove: Non vogliate pascere la carne negli immoderati desideri
(Rom. XIII, 14).

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