Da: Catechismo ad uso dei
Parroci pubblicato da S. Pio V Pont. Mass. per Decreto del Concilio
di Trento, nuova traduzione a cura di Mons. Enrico Benedetti,
Roma 1918 pag. 497-511 e 599-611
PARTE TERZA
I PRECETTI DEL DECALOGO
Importanza del Decalogo. Cat. 161.
298. Sant'Agostino esalta apertamente il
Decalogo come sintesi e riassunto di tutte le leggi: Molte
cose aveva detto il Signore, e pure due sole tavole di pietra sono
date a Mosè, dette tavole della testimonianza futura nell'arca;
perchè tutto il resto
che il Signore aveva comandato si intende compreso nei dieci
comandamenti incisi nelle due tavole. Come del resto i medesimi
dieci comandamenti dipendono a loro volta dai due dell'amore di
Dio e del prossimo, in cui sta in sintesi tutta la Legge e tutto
l'insegnamento dei Profeti. [S. August., Questionum in Heptateuchum
libri septem, liber II, Quaestiones in Exodum. N.d.R.]
Essendo qui il nocciolo di
tutta la Legge, occorre che i Pastori attendano giorno e notte ad
enuclearlo, non soltanto per uniformarvi la propria vita, bensì
anche per istruire nella disciplina del Signore il gregge loro
affidato. È detto: Le labbra sacerdotali custodiranno la
scienza, e dalla loro parola attingeranno la legge, poichè il
sacerdote e l'angelo degli eserciti del Signore (Mal. II, 7).
Sentenza cotesta che si applica in modo particolare ai Pastori della
nuova Alleanza che, più vicini a Dio, debbono ascendere di
splendore in splendore, in virtù dello spirito del Signore (II
Cor. III, 17). Avendoli
Gesù Cristo insigniti del nome di luminari (Matt. V, 14),
è loro stretto compito fornir luce a coloro che giacciono nelle
tenebre, costituirsi istruttori degli ignoranti, educatori dei
fanciulli (Rom. II, 19),
di più essi che sono spirituali dovranno soccorrere chi sia
irretito nel delitto (Gal.
VI, 1). Inoltre essi sono giudici nelle confessioni ed emanano
sentenze secondo la qualità e la gravita dei peccati. Onde se
non vogliono essere imputati di incapacità, se non vogliono
frodare gli altri, debbono essere vigilantissimi nell'adempimento di
simile compito e sperimentati nella interpretazione dei divini
precetti, in base ai quali debbono giudicare ogni azione ed ogni
omissione. Secondo l'ammonimento dell'Apostolo, impartiscano la sana
dottrina (II Tim. IV, 3),
immune cioè da ogni errore e curino le malattie dell'anima, i
peccati, sicchè il loro popolo appaia caro a Dio, praticante le
opere buone (Tit. II, 14).
Esposizione del Decalogo. Cat. 162-167.
299. In simili esposizioni il Pastore proponga a sè e agli altri
argomenti capaci di indurre alla obbedienza alla Legge.
Ora, tra le ragioni che possono istigare gli spiriti degli uomini al
rispetto dei precetti della Legge, quella che riveste maggiore forza
è questa: Dio ne è l'autore. Sebbene si dica consegnata
dagli angeli (Gal. III, 19),
nessuno può revocare in dubbio il fatto che Dio stesso ne è
l'autore. Ne danno ampio affidamento non solamente le parole dello
stesso Legislatore che commenteremo fra poco, ma passi quasi
innumerevoli delle Scritture, che agevolmente soccorreranno ai
Pastori. Del resto chi non sente una legge divina inserita nel proprio
cuore, in virtù della quale sa distinguere il bene dal male,
l'onesto dal turpe, il giusto dall'ingiusto? E perchè la forza
regolatrice di questa legge naturale non e diversa affatto da quella
scritta, chi mai oserà negare che come Dio è l'Autore della
legge naturale non lo sia anche della Legge scritta? Ora deve
insegnarsi che consegnando la Legge a Mosè, Dio non conferì
una luce nuova, bensì rinnovo il fulgore di una luce che i
costumi perversi e una diuturna negligenza avevano miseramente
oscurato. Non creda anzi il popolo che egli sia esonerato dal vincolo
di queste leggi, perchè fu derogato già alla Legge di
Mosè. È certissimo
infatti che dobbiamo obbedire a questi comandamenti non perchè
sono stati imposti per mezzo di Mosè, ma perchè scolpiti
nell'anima di ciascuno, e da nostro Signore spiegati e ratificati.
Ad ogni modo gioverà moltissimo e rivestirà una singolare
virtù dimostrativa la considerazione che Dio, sulla sapienza e
giustizia del quale non è lecito sollevare dubbi e alla cui
infinita e vigorosa potenza non possiamo sottrarci, emanò la
Legge. Perciò comandando per mezzo dei profeti di rispettare la
legge, Dio dichiarava apertamente chi era, e nell'esordio stesso del
Decalogo leggiamo: Io sono il Signore Iddio tuo (Esod.
XX, 2). Altrove: Se io sono il Signore, dove è il timore dovuto a
me? (Mal. I, 6). Cotesto pensiero non solamente stimolerà le
anime fedeli al rispetto dei precetti divini, ma anche ad azioni di
grazie, per avere Iddio spiegata la sua volontà, via alla nostra
salvezza. Ripetute volte la sacra Scrittura esaltando questo
straordinario beneficio, ammonisce il popolo di riconoscere la propria
dignità e la benevolenza del Signore. Nel Deuteronomio
è scritto: Qui la vostra saggezza e la vostra prudenza
di fronte ai popoli, che udendo il mondo questi comandamenti, esclami:
Ecco un popolo saggio e prudente, ecco una grande razza (Deut.
IV, 6). E nei Salmi: Non si portò così con ogni popolo e non
rivelò i suoi voleri a tutti (Salm.
CXLVII, 10).
Che se il Parroco additerà inoltre, sulla fede della Scrittura,
il modo in cui la Legge fu consegnata, i fedeli comprenderanno anche
più agevolmente con quanta pia devozione debba essere rispettata
la legge ricevuta da Dio. Tre giorni prima infatti per comando di Dio
tutti dovettero lavare le proprie vesti, astenersi dai rapporti
coniugali, per meglio predisporsi a ricevere la Legge; per il terzo
giorno tutti dovettero radunarsi, ma, pervenuti al monte da cui il
Signore voleva impartire loro le leggi per mezzo di Mosè, al solo
Mosè fu concesso di salirvi. E allora Dio vi discese con grande
sfoggio di maestà, fra tuoni, lampi, fuoco, dense nuvole, e
comincio a parlare a Mosè, consegnandogli le leggi (Esod.
XIX, 10). Per una sola ragione la divina sapienza volle tutto
ciò, per mostrarci cioè che la legge del Signore va accolta
con animo casto ed umile, e che, trasgredendo i comandamenti, noi
andiamo incontro a serie pene divine.
Il Parroco mostrerà del
resto come i precetti della Legge non implichino una seria
difficoltà, e lo potrà fare adducendo questa sola
ragione, prospettata da sant'Agostino, quando dice: Chi, di grazia,
vorrà definire impossibile per l'uomo l'amare, l'amare un
Creatore benefico, un Padre amantissimo, e, in linea subordinata, la
carne propria nei propri fratelli? Orbene, chi ama, ha adempito la
legge (Dei costumi della Chiesa,
XXV). Onde già l'apostolo Giovanni assicurava nettamente che i
comandamenti di Dio non sono onerosi (I Giov. V, 3), perchè
secondo la frase di san Bernardo, non si sarebbe potuto chiedere
all'uomo nulla di più giusto, di più dignitoso, di più
fruttifero (Del dovere di amare
Iddio, c. I). Per questo, ammirando la infinita bontà di
Dio, Agostino esclama: Che cosa e mai l'uomo, che tu vuoi esserne
amato e minacci gravi pene a chi non voglia farlo, come se non
già fosse pena immensa il non amarti? (Conf.
I, 5). Che se alcuno accampi a
sua scusa l'infermità della natura che gli impedisce di amar
Dio, gli si mostrerà come lo stesso Dio il quale chiede amore,
instilla nei cuori la capacita di amare, per mezzo dello Spirito
santo, che viene dal Padre celeste concesso a chi lo invoca (Luc.
XI, 13). Onde è giusta la formola di preghiera di
sant'Agostino: Concedi quel che comandi e comanda quel che vuoi (Conf. X, 29). E poichè
l'aiuto di Dio è a nostra disposizione, specialmente dopo la
morte di nostro Signore Gesù Cristo, per merito della quale il
sovrano di questo mondo è stato debellato, non c'è ragione
che ci si spaventi delle difficoltà dei precetti, poichè
nulla appare arduo a chi ama.
Del resto a persuadere tutti di
ciò gioverà sopra tutto la spiegazione che è
necessario obbedire alla Legge, non essendo mancato ai nostri tempi
chi, empiamente e con massimo proprio danno, ha osato sostenere,
che, facile o difficile, la Legge non è necessaria alla
salvezza. Il Parroco confuterà con le testimonianze bibliche
questa insana e dannabile sentenza, riferendosi specialmente
all'Apostolo, della cui autorità si cerca abusare per
sostenerla. Che cosa dice in sostanza l'Apostolo? Che non il
prepuzio o la circoncisione valgono qualcosa, ma solamente il rispetto
dei precetti di Dio (I Cor.
VII, 19). E ripetendo altrove la medesima sentenza, aggiungendo che in
Gesù Cristo conta solamente la nuova creatura (Gal.
VI, 15), noi intendiamo come egli chiama così colui che si
uniforma ai comandamenti divini. Chi li conosce e rispetta, ama Iddio,
come il Signore stesso dichiara presso san Giovanni: Chi mi ama,
osserverà i miei discorsi (Giov. XIV, 21). Che se l'uomo può
essere giustificato e da malvagio divenir buono anche prima di
applicare nelle azioni esterne le singole prescrizioni della Legge;
non può però chi abbia già l'uso della ragione
trasformarsi da empio in giusto, se non sia disposto a osservare tutti
i comandamenti di Dio.
Frutti del Decalogo.
300. Infine per non dimenticare nulla di ciò che può
indurre il popolo fedele all'osservanza della Legge, il Parroco
mostrerà di quanto ricchi e dolci frutti essa sia causa. E lo
potrà fare facilmente ricordando quanto è scritto nel Salmo
decimottavo, consacrato a cantare le lodi della Legge divina, fra cui
massima appare la capacità di dare risalto alla gloria e alla
maestà di Dio, molto più di come non possano fare i corpi
celesti, con il loro splendore e il loro ordine, i quali, strappando
l'ammirazione alle più barbare genti le portano a riconoscere la
saggezza, la potenza, l'altitudine del Fattore primo d'ogni cosa.
Così la Legge divina volge le anime a Dio (Psal.
XVIII, 8); che scoprendo i suoi sentieri e la sua santa volontà
attraverso la Legge, là dirigiamo i nostri passi. E poichè
sono veramente sapienti solo coloro che temono Dio, Dio ha dato alla
Legge la capacità di infondere sapienza ai piccioletti. In
verità sono in possesso di autentici godimenti, e della
conoscenza dei misteri divini, e di intense gioie e ricompense, in
questa vita come nella futura, coloro che osservano la Legge di Dio.
Del resto la Legge deve essere da noi rispettata non solo per il
nostro vantaggio, ma anche per l'onore di Dio, il quale manifestò
nella Legge la sua volontà al genere umano. E perchè tutte
le creature vi sottostanno, non è anche più equo che l'uomo
pure la rispetti? Nè va dimenticata la singolarissima clemenza e
bontà di Dio verso di noi, a questo proposito. Avrebbe potuto
infatti costringerci, senza la prospettiva di alcun premio, a servire
alla sua gloria. E pure volle armonizzare questa con il nostro
vantaggio, affinchè ciò che ci è utile tornasse anche
ad onor di Dio. Particolare cotesto rimarchevolissimo, che il Parroco
ricorderà con le ultime parole del Profeta: Nel custodire i tuoi
precetti, o Signore, generosa è la mercede (Salm.
XVIII, 12). Esso non abbraccia solamente benedizioni riguardanti la
felicità terrena, come la prosperità delle città, la
pinguedine dei campi (Deut.
XXVIII, 3): ma anche frutti copiosi in cielo (Matt. V, 12), una misura
buona, pigiata, scossa e straboccante (Luc. VI, 38), meritata con le
opere buone, compiute con l'aiuto della divina misericordia.
Istituzione del Decalogo. Cat. 161.
301. Sebbene questa Legge sia
stata consegnata dal Signore sul monte ai Giudei, tuttavia,
poichè per virtù di natura era impressa, da molto tempo
prima, nelle anime di tutti, e Dio ha sempre voluto che tutti gli
uomini vi si uniformassero, sarà bene spiegare con cura
le parole con le quali da Mosè, strumento ed interprete, essa fu
annunciata agli Ebrei, insieme alla storia Israelitica che è
tutta piena di misteri.
Esporrà da prima come fra tutte le nazioni sulla faccia della
terra Dio ne prescelse una originata da Abramo, che egli volle
pellegrino nella terra di Canaan. Di questa aveva promesso a lui il
possesso e pure tanto lui che la sua posterità andò vagando
per più di quattrocento anni prima di potervi entrare ad
abitarla. Mai però lascio di proteggerli durante la diuturna
peregrinazione. Passavano, immigravano infatti da popolo a popolo e da
regno a regno; mai però tollerò che da alcuno si recasse
loro ingiuria; al contrario tenne a bada i re. Prima che essi
scendessero in Egitto, mandò innanzi a loro un individuo che con
la sua preveggenza doveva salvare dalla fame tanto essi che gli
Egiziani. In Egitto poi li circonfuse di una tale affettuosa tutela,
che, nonostante l'ostilità e la perenne minaccia del Faraone,
poterono moltiplicarsi in maniera mirabile. E quando le afflizioni
toccarono il loro apogeo, e cominciarono ad essere trattati
durissimamente come schiavi, Dio suscito Mosè quale condottiero,
capace di trarli a salvamento con mano energica. Precisamente questa
liberazione ricorda il Signore sull'inizio della Legge, con le parole:
Io sono il Signore Dio tuo, che ti trassi fuori dalla terra d'Egitto,
dalla casa della schiavitù.
Il Parroco baderà a porre bene in luce questa circostanza: che
Dio prescelse una fra tutte le nazioni per essere il suo popolo
eletto, da cui farsi conoscere e venerare in modo speciale, non
già perchè le superasse per numero o per virtù, come
del resto il Signore stesso ricorda agli Ebrei, ma solo perchè a
Dio piacque sostenere e arricchire una razza modesta e bisognosa,
affinchè la sua potenza e la sua bontà ne avessero maggior
lustro nell'universo. Appunto per quelle loro qualità, si strinse
con essi, li predilesse, non sdegnando neppure di esser detto loro
Dio, affinchè gli altri popoli ne fossero stimolati ad emulazione
e constatando la felice condizione degli Israeliti, tutti gli uomini
si convertissero al vero culto di Dio. Come anche san Paolo
testimoniò di sè, di aver voluto cioè stimolare ad
emulazione la propria gente, prospettando la beatitudine e la vera
conoscenza di Dio da sè impartita ai gentili.
Mostrerà poi ai fedeli come Dio permise che i Padri ebrei
peregrinassero a lungo, che i loro posteri fossero premuti e vessati
in durissima schiavitù onde noi constatassimo che solo chi è
pellegrino sulla terra e osteggiato dal mondo può divenire amico
di Dio; sicchè per essere
accolti più agevolmente nella dimestichezza di Dio, occorre non
aver nulla di comune con il mondo; ed inoltre perchè
comprendessimo, una volta passati al vero culto di Dio, quanto
più felici siano coloro che servono a Dio, anzichè al
mondo. Ci ammonisce appunto la Scrittura: Servano pure ad
essi, perchè conoscano l'abisso che separa il servizio mio dal
servizio dei re terreni (II Par.
XII, 8).
Racconterà inoltre come per più che quattrocento anni, Dio
prorogò le sue promesse, affinchè il popolo si alimentasse
costantemente nella fede e nella speranza. Poichè Dio vuole che i
suoi fedeli dipendano sempre da lui e collochino nella sua bontà
tutta la loro fiducia, come diremo nella spiegazione del primo
comandamento.
Infine indicherà il tempo e il luogo in cui il popolo di Israele
ricevette questa Legge da Dio. Fu precisamente dopo l'uscita
dall'Egitto e l'arrivo nel deserto, quando la memoria grata del
recente beneficio e l'asprezza paurosa del luogo dove si trovava, lo
rendevano particolarmente atto ad accoglierla. Poichè gli uomini
si sentono in modo particolare vincolati a coloro di cui hanno
sperimentato i beneficî e sogliono ricorrere all'aiuto di Dio
quando si sentono abbandonati da ogni speranza umana. Donde
è facile arguire come i fedeli saranno tanto più inclinati
ad accogliere la celeste dottrina, quanto più si terranno
lontani dalle gioie del mondo e dalle soddisfazioni carnali. Come ha
detto il Profeta: A chi impartirà la scienza e a chi
dischiuderà l'udito? A chi ha abbandonato il latte ed è
stato staccato dalle mammelle (Isa. XXVIII, 9).
Compia il Parroco ogni sforzo perchè il gregge fedele porti
ognora scolpite in cuore le parole: Io sono il Signore Iddio tuo. Per
esse intenderà come il suo legislatore è lo stesso Creatore,
da cui ebbe l'essere e da cui è conservato. E a buon diritto
così potrà esclamare: Egli è il Signore Iddio nostro:
noi popolo del suo pascolo, pecore sotto la sua mano (Salm.
XCIV, 7) La ripetizione frequente e calorosa di queste parole
avrà la capacita di rendere i fedeli più pronti al rispetto
della Legge, più disposti a star lontani dal peccato.
Per quanto riguarda le parole
che seguono: Io ti trassi dalla terra d'Egitto, dalla casa della
schiavitù, sebbene sembrino attagliarsi solamente agli Ebrei,
affrancati dal giogo egiziano, in verità se si badi al
significato spirituale della salvezza universale, appariranno molto
più applicabili ai Cristiani, strappati, non già al
servaggio egiziano, bensì alla sfera del peccato, da Dio
sottratti alla potenza delle tenebre e trasferiti nel regno del
Figlio del suo amore. Intravedendo l'entità di tale
beneficio, Geremia annunciava: Ecco, arrivano giorni, dice il Signore,
nei quali non si dirà più: Vive il Signore che trasse fuori
i figli d'Israele dalla terra d'Egitto, bensì: Vive il Signore
che trasse i figliuoli d'Israele dalla terra del borea e da tutte le
terre per cui li cacciai: e li raccoglierò nella terra, elargita
già ai loro padri. Ecco: invierò numerosi pescatori, dice il
Signore, e li pescheranno, con quel che segue (Ger. XVI, 14). II Padre
misericordioso, mediante il Figlio suo, radunò i figli dispersi,
onde, non più schiavi della colpa, ma della giustizia, lo
serviamo nella santità e nel bene, apertamente, per tutti i
giorni della nostra vita. Perciò i fedeli sapranno opporre, come
uno scudo, a tutte le tentazioni la sentenza dell'Apostolo: Morti al
peccato, come potremo ancora vivere in esso? (Rom.
VI, 2). Poichè non apparteniamo più a noi stessi, ma a colui
che è morto per noi e risorto. Egli il Signore nostro Dio, che ci
comprò col suo sangue; come potremo peccare contro il Signore
nostro Dio e nuovamente crocifiggerlo? Realmente liberi, di quella
libertà conferitaci da Gesù Cristo, come avevamo mostrato le
nostre membra strumenti di ingiustizia, mostriamole ormai strumenti
del bene, sulle vie della santità.
SESTO COMANDAMENTO
Non commettere atti impuri.
Spiegazione del comandamento.
333. Poichè il vincolo tra marito e moglie è il più
stretto che esista e nulla può essere loro più dolce, che il
sentirsi vicendevolmente stretti da un affetto singolare, nulla, al
contrario, può capitar ad uno di essi di più amaro, che
sentire il legittimo amore del coniuge rivolgersi altrove.
Ragionevolmente perciò alla legge che garantisce la vita umana
dall'omicidio segue quella che vieta la fornicazione o l'adulterio, a
che nessuno si attenti di contaminare o spezzare quella veneranda
unione matrimoniale, da cui suole scaturire così ardente fuoco di
carità.
Toccando però questo argomento il Parroco usi la più
prudente cautela e con sagge parole alluda a cose che esigono la
moderazione, più che l'abbondanza dell'eloquio. È da temersi
infatti che diffondendosi troppo a spiegare i modi con cui gli uomini
possono trasgredire questo comandamento, finisca con il dire frasi
capaci di eccitare la sensualità, anzichè reprimerla.
Ad ogni modo il precetto
racchiude molti elementi che non possono essere trascurati, e il
Parroco li spiegherà a suo tempo. Esso ha due parti, una
vietante apertamente l'adulterio, l'altra, più generica, che
impone la castità dell'anima e del corpo.
Dell'adulterio. Cat. 201.
334. Per iniziare l'insegnamento da quel che e vietato, diremo subito
che adulterio e violazione del legittimo letto, proprio o altrui. Se
un marito ha rapporti carnali con donna non coniugata, viola il
proprio vincolo matrimoniale; se un individuo non coniugato abbia
rapporti con donna maritata è contaminato dal delitto di
adulterio il vincolo altrui.
Sant'Ambrogio e sant'Agostino ci confermano che con simile divieto
dell'adulterio è proibito ogni atto inonesto ed impudico. Il che
risulta direttamente dalla Scrittura del vecchio come del nuovo
Testamento. Nei libri Mosaici noi vediamo puniti altri generi di
libidine carnale, oltre l'adulterio. Leggiamo nel Genesi
la sentenza pronunciata da Giuda contro la nuora (XXXVIII,
24); nel Deuteronomio è
formulata la legge Mosaica: delle figlie d'Israele nessuna sia
cortigiana (XXIII, 17). Tobia così esorta il figliuolo:
Guárdati, figlio mio, da ogni atto impudico (Tob. IV, 13). E l'Ecclesiastico dice: Vergognati
di guardare la donna perduta (XLI, 25). Nel Vangelo poi Gesù
Cristo sentenzia che dal cuore emanano gli adulterî e le azioni
disoneste che macchiano l'uomo (Matt. XV, 19). E l'apostolo Paolo
bolla di frequente, con parole roventi, questo vizio: Dio vuole la
vostra santificazione; vuole che vi asteniate dalle impurità (I Tess. IV, 3). E altrove: Evitate
ogni fornicazione (I Cor.
VI, 18); Non vi mescolate agli impudici (I Cor.
V, 9); In mezzo a voi, non siano nè pur nominate la incontinenza,
l'impurita di ogni genere, l'avarizia (Efes.
V, 3); Disonesti ed adulteri, effeminati e pederasti non possederanno
il regno di Dio (I Cor. VI,
9).
L'adulterio e stato
espressamente menzionato nel divieto, perchè alla sconcezza che
riveste in comune con tutte le altre forme di incontinenza, accoppia
un peccato di ingiustizia di fronte al prossimo e di fronte alla
civile società. Inoltre è indubitato che chi non
si tien lontano dalle forme ordinarie della impudicizia, facilmente
incapperà nel crimine di adulterio. Onde e agevole comprendere
come nel divieto dell'adulterio, è conglobata la proibizione di
ogni genere di impurità contaminante il corpo. Del resto che
questo comandamento investa ogni intima cupidigia dell'animo, appare
così dalla natura stessa della legge, che è spirituale, come
dalle esplicite parole di nostro Signore: Udiste come fu detto agli
antichi: non fare adulterio. Ma io vi dico: Chiunque guarda una donna
per fine disonesto, in cuor suo ha già commesso adulterio su lei
(Matt. V, 27).
A ciò che riteniamo debba essere pubblicamente insegnato ai
fedeli, si aggiungano i decreti del concilio di Trento contro gli
adulteri e coloro che mantengono prostitute e concubine (Sess. XXIV,
c. 8), tralasciando però di parlare dei vari e multiformi generi
di libidine sessuale, intorno a cui il Parroco vorrà ammonire i
singoli fedeli, qualora le circostanze di tempo e di persona lo
richiedessero.
Considerazioni per conservar la castità.
335. Saranno pur qui spiegate le sentenze che hanno forza di
precetto. I fedeli debbono essere ammaestrati ed esortati a rispettare
con ogni cura la pudicizia e la continenza, a conservarsi mondi da
ogni contaminazione della carne o dello spirito, realizzando la
santità nel timore di Dio (II Cor.
VII, 1).
Si dirà loro che sebbene la virtù della castità debba
maggiormente brillare in quella categoria di persone che coltivano il
magnifico e pressochè divino proposito della verginità, con
più costanza, pure essa conviene anche a coloro che menano la
vita celibataria o, congiunti in matrimonio, si mantengono mondi dalla
libidine vietata.
Le molte sentenze dei Padri con cui siamo ammaestrati che dobbiamo
dominare le passioni sensuali e frenare l'istinto passionale saranno
dal Parroco accuratamente esposte al popolo, in una trattazione
diligente e costante. Parte di esse riguarda il pensiero, parte
l'azione.
Il rimedio che mira all'intelligenza tende a farci comprendere quanto
grande siano la turpitudine e il pericolo di questo peccato. In base a
simile apprezzamento, più viva arderà in noi l'avversione
per esso. Che si tratti di un peccato che è un vero flagello,
può ricavarsi dal fatto che a causa di esso agli uomini incombe
l'ultima rovina: la espulsione dal regno di Dio e lo sterminio.
Che se simile pena può sembrare comune ad ogni genere di
peccato, qui abbiamo questo di caratteristico, che i fornicatori,
secondo la frase dell'Apostolo, peccano contro il proprio corpo:
Fuggite l'impudicizia. Qualunque peccato l'uomo commetta, si svolge
fuori del corpo, ma il fornicatore pecca sul proprio corpo (I Cor.
VI, 18); vale a dire lo tratta ignominiosamente, violandone la
santità. A quei di Tessalonica lo stesso san Paolo diceva: Dio
vuole la vostra santificazione; che vi asteniate da atti impuri; che
ciascuno di voi sappia mantenere il proprio vaso carnale in
santità e dignità, non già nella irrequietezza del
desiderio, come i pagani che ignorano Dio (I Tess.
IV, 5).
Cosa ben più ripugnante, se il Cristiano si unisca turpemente ad
una meretrice, fa membra della meretrice le membra di Gesù
Cristo, come appunto dice san Paolo: Non sapete che i vostri corpi
sono membra di Gesù Cristo? Sottraendo le membra a Gesù
Cristo, le faro membra della meretrice? Non sia mai. Ignorate forse
che aderendo alla meretrice, ne risulta un solo corpo? (I Cor.
VI, 15).
Inoltre, il Cristiano, sempre secondo san Paolo, è tempio dello
Spirito santo (I Cor. VI,
19), violare il quale significa espellerne lo Spirito santo stesso.
Particolare malvagità
è racchiusa nel delitto di adulterio. Se infatti, come
vuole l'Apostolo, i coniugi sono così vincolati da una
scambievole sudditanza che nessuno dei due possegga illimitata
potestà sul proprio corpo, ma siano così schiavi quasi l'uno
dell'altro che il marito debba uniformarsi alla volontà della
moglie e la moglie a quella del marito (I Cor.
VII, 4); ne consegue che chi dei due separa il proprio corpo che
spetta all'altrui diritto, da colui cui è vincolato, si rende reo
di specialissima iniquità.
E poichè l'orrore dell'infamia è per gli uomini un valido
stimolo a far quanto e prescritto e a sfuggire quanto è vietato,
il Parroco insisterà nel mostrare come l'adulterio imprime sugli
individui una profonda orma di bruttura. È scritto nelle sacre
Carte: L'adultero, a causa della sua fragilità di cuore,
perderà l'anima sua; condensa su di sè la vergogna e
l'abbominio; la sua turpitudine non sarà mai cancellata (Prov.
VI, 32).
La gravità di questa colpa può essere agevolmente ricavata
dalla severità della punizione stabilita. Nella legge fissata da
Dio nel vecchio Testamento gli adulteri venivano lapidati (Lev.
XX, 10; Deut. XXII, 22). Anzi talora per la concupiscenza
sfrenata di un solo, non il reo semplicemente, ma l'intiera
città fu dannata alla distruzione: tale la sorte dei
Sichemiti (Gen. XXXIV, 25).
Del resto numerosi appaiono nella sacra Scrittura gli esempi dell'ira
divina, che il Parroco potrà evocare, per allontanare gli uomini
dalla riprovevole libidine: la sorte di Sodoma e delle città
finitime (Gen. XIX, 24), il
supplizio degli Israeliti che avevano fornicato nel deserto con le
figlie di Moab (Num. XXV):
la distruzione dei Beniamiti (Giud.
XX). Che se v'è alcuno che sfugge alla morte, non si sottrae
però a dolori intollerabili, a tormenti punitivi, che piombano
inesorabili. Accecato così ne rimane nella mente (ed e già
questa pena gravissima) che non tiene più alcun conto di Dio,
della fama, della dignità, dei figli, della propria stessa vita.
Ne rimane così depravato e inutilizzato, da non poterglisi
affidare nulla di grave, da non poter assegnarlo come idoneo ad alcun
ufficio. Possiamo scorgere esempi di questo in David come in Salomone:
il primo, resosi reo di adulterio, subitamente cambiò natura e da
mitissimo divenne feroce, sì da mandare alla morte l'ottimo
Urìa (II Sam. XI); l'altro perduto nei piaceri delle donne, si
allontano così dalla vera religione di Dio, da seguire
divinità straniere (III Re,
XI). Secondo la parola di Osea, questo peccato travia il cuore
dell'uomo (Os. IV, 11) e ne acceca la mente.
Azioni dirette a conservar la castità.
336. Veniamo ora ai rimedi che riguardano l'azione. Il primo consiste
nel fuggire con ogni cura l'ozio. Impoltronendo nell'ozio, come dice
Ezechiele (Ezech. XVI, 49), gli abitanti di Sodoma precipitarono nel
più vergognoso crimine di concupiscenza.
È da evitarsi parimenti con grande vigilanza la gozzoviglia. Li
satollai, dice il Profeta, e fornicarono (Gerem. V, 7). Il ventre
ripieno, provoca la libidine, come insinuò il Signore con le
parole: Badate, affinchè i vostri cuori non si appesantiscano
nella crapula e nell'ebrietà (Luc. XXI, 34), e l'Apostolo con le
altre: Non vogliate ubriacarvi, poichè il vino nasconde la
lussuria (Efes. V, 18).
Gli occhi però sono veicoli attraverso i quali l'animo suole
accendersi a cupidigia. Per questo il Signore ha detto: Se il tuo
occhio destro ti scandalizza, cavalo e gettalo via da te (Matt. V,
29). E molte sono in proposito le sentenze dei profeti. Giobbe dice ad
esempio: Strinsi un patto con gli occhi miei, onde fantasma di vergine
non balenasse al mio pensiero (Giob. XXXI, 1). Come copiosi, quasi
innumerevoli sono gli esempi, di azioni perverse, rampollate dalla
vista. Pecco così David (II Sam. XI, 2), pecco così il re di
Sichem (Gen. XXXIV, 2),
così finirono col farsi calunniatori di Susanna i vecchi di cui
parla Daniele (XIII, 8).
Spesso incentivo non
indifferente alla libidine offre la moda ricercata, che solletica il
senso visivo. Per questo ammonisce l'Ecclesiastico:
Volta la tua faccia dalla donna elegante (IX, 8). E poichè le
donne sogliono badare troppo alla loro acconciatura, non sarà
male che il Parroco attenda di frequente a premunirle in proposito,
memore delle parole gravissime che l'apostolo Pietro ha dettato
sull'argomento: La pettinatura delle donne non sia appariscente, i
monili e l'abbigliamento non siano ricercati (I Pietr. III, 3), e di
quelle di san Paolo: Non badate ai capelli ben attorcigliati, agli
ori, alle pietre preziose, alle vesti sontuose (I Tim.
II, 9): molte infatti che erano acconciate con oro e gioielli,
smarrirono i veri ornamenti dell'anima e del corpo.
Insieme allo stimolo libidinoso
che è dato dalla raffinata ricercatezza delle vesti, occorre
considerare quello che emana dai discorsi turpi ed osceni:
l'oscenita delle parole, quasi fiaccola ardente, accende gli animi dei
giovani : i perversi conversari, dice l'Apostolo, corrompono i buoni
costumi (I Cor. XV, 33). E
poichè il medesimo effetto producono, in misura anche più
notevole, i balli e i canti sdolcinati, occorre tenersi lontani anche
da questi. In simile categoria
di incitamento alla voluttà vanno annoverati i libri osceni e
trattanti dell'amore sessuale, da evitarsi con non minore
severità delle figure rappresentanti qualcosa di turpe, la cui
capacita di spingere al male e di infiammare i sensi giovanili
è straordinaria. Il Parroco curi perciò sopra tutto
che siano osservate con il massimo rispetto le costituzioni sapienti
del concilio Tridentino in proposito (Sess. XXV).
Se con attenta cura e vigile amore sia evitato quanto siamo venuti
commemorando, sarà soppressa ogni occasione alla concupiscenza
carnale. A soffocar poi la sua congenita energia valgono in modo
eminente la Confessione e la Comunione frequenti; le assidue e umili
preci a Dio, accompagnate da elemosine e da digiuni. La
castità è in fondo un dono che Dio non nega a chi
convenientemente lo cerca (I Cor. VII, 7), poichè Egli non
consente che noi siamo tentati sopra le nostre forze (I Cor.
X, 13).
Dobbiamo infine mortificare il
corpo e i suoi appetiti malsani non solamente con i digiuni, quelli
specialmente prescritti dalla santa Chiesa, ma anche con le vigilie,
i pii pellegrinaggi e con macerazioni di altro genere. In simili
pratiche si manifesta la virtù della temperanza.
Scriveva appunto san Paolo a quei di Corinto: Chi si appresta a
gareggiare nella palestra, segue un regime di grande astinenza. E pure
essi ambiscono una semplice corona corruttibile, mentre noi
l'aspettiamo immortale. E poco appresso: Freno il mio corpo e lo tengo
in soggezione, affinchè, dopo aver predicato agli altri, io
stesso non appaia alla fine, un reprobo (I Cor.
IX, 25). E altrove: Non vogliate pascere la carne negli immoderati
desideri
(Rom. XIII, 14).
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