mercoledì 10 febbraio 2016
FOIBE IL GIORNO DEL RICORDO DEL GENOCIDIO COMUNISTA DIMENTICATO...
Centro studi Giuseppe Federici - Per una nuova insorgenza
Comunicato n. 13/16 del 9 febbraio 2016, Sant’Apollonia
I crimini dei comunisti titini e italiani: le foibe e l’esodo
«Qua no se pol viver!», del prof. Giovanni Stelli
(…)
Agli inizi del maggio 1945 i reparti partigiani jugoslavi comunisti di
Tito occuparono Trieste (che però dovettero abbandonare circa 40 giorni
dopo), Fiume e quasi tutta l’Istria, mentre Lubiana e Zagabria, le
capitali rispettivamente della Slovenia e della Croazia, erano ancora in
mano tedesca. Lo scopo era realizzare un’annessione di fatto di questi
territori contestati (mentre ovviamente nessuno poteva contestare
l’appartenenza di Lubiana e Zagabria alla Jugoslavia).
L’occupazione
su tradusse immediatamente in una durissima repressione contro ogni
forma di dissenso e qui si inserisce la questione foibe. Qui occorre
precisare che il termine foibe ha assunto ormai, al di là del suo
significato letterale che indica, come è noto, una depressione del
terreno a forma di imbuto, tipica delle zone carsiche), una valenza
simbolica ed è usato comunemente in senso generale per indicare le
eliminazioni fisiche, i massacri e le persecuzioni avvenuti ai confini
orientali nel periodo 1943-1945 (ma la data finale andrebbe spostata in
avanti di qualche anno) ad opera dei partigiani titoisti jugoslavi.
Nella
categoria degli “infoibati” vanno quindi incluse tutte le vittime del
terrore, ossia, oltre agli infoibati veri e propri fatti precipitare
nelle foibe carsiche e anche nelle numerose cave di bauxite sparse per
tutta l’Istria, anche le numerose vittime annegate in mare, come a Zara,
fucilate o uccise in vario modo, come i fiumani eliminati il 3-4 maggio
1945, tra cui l’antifascista Mario Blasich, strangolato nel suo letto, e
il senatore Riccardo Gigante, ucciso insieme ad altri a Castua, i molti
sacerdoti seviziati e infoibati, come don Angelo Tarticchio, parroco di
Villa di Rovino, o scomparsi nel nulla, come don Francesco Bonifacio,
parroco del paesino istriano Villa Gardossi, ecc. Qualche altro esempio:
il 19 ottobre 1943, 19 persone vengono fatte uscire dal carcere di
Albona, mitragliate e gettate in mare legate insieme con delle grosse
pietre; il 20 maggio 1945, 161 deportati di Albona (civili e militari,
uomini e donne) sono caricati, legati, sulla nave Lina Campanella che
salta in aria per una mina nel canale d’Arsa; quelli che restano a galla
sono mitragliati dai soldati di Tito che scortano il carico su un’altra
motobarca.
Il
nesso tra foibe ed esodo è quindi evidente ed è essenziale per capire
la tragedia vissuta dalle popolazioni della Venezia Giulia: la
repressione – che in Istria, a Trieste, nel Goriziano, a Fiume e a Zara,
dal 1943 al 1948 e anni seguenti, colpisce soprattutto (ma non
soltanto) la popolazione italiana – è la premessa dell’esodo del 90%
della popolazione italiana, che ha avuto come conseguenza uno
stravolgimento etnico di quelle terre e segna una cesura storica senza
precedenti.
Posso
citare un paio di testimonianze che riguardano la mia famiglia che è di
Fiume: mio padre, Mario Stelli, fervente italiano e ufficiale decorato,
dopo l’arrivo dell’esercito partigiano titoista in città, nonostante la
sorpresa (i fiumani, per quanto possa sembrare incredibile, si
aspettavano l’arrivo degli anglo-americani!) e il dolore, ha lasciato
scritto in una sua memoria: «In quel momento non pensammo affatto che
saremmo stati costretti ad andare via; cercammo anzi un conforto
reciproco, ci riunimmo tra amici in ufficio, e dicemmo: pazienza, faremo
gli italiani all'estero, rimarremmo insieme tra di noi. Non
sospettavamo quello che stava succedendo nella notte del 3 maggio.
Il
giorno dopo cominciarono a trapelare le tragiche notizie
dell'eliminazione di Mario Blasich, Nevio Skull e altri autonomisti.
Iniziò il periodo del terrore. La città fu addobbata con striscioni di
viva Stalin, Tito è il pupillo di Stalin, ecc. Arresti e deportazioni si
succedevano in continuazione. La gente che veniva arrestata
scompariva...». Dopo un anno, nell’aprile del 1946, la mia famiglia
esodò da Fiume. Passò un altro anno e anche mio nonno, autonomista
fiumano e antifascista (nel 1922 gli squadristi l’avevano più volte
cercato per somministrargli l’olio di ricino), fu costretto,
ultrasessantenne, ad abbandonare Fiume, andando incontro alla
disoccupazione a una vita grama, perché, come diceva nel suo dialetto:
«Qua no se pol viver!» (qui non si può vivere).
È
necessario aggiungere una precisazione storica e una considerazione più
generale. Occorre distinguere due fasi degli infoibamenti. La prima
fase va, grosso modo, dal 9 settembre al 13 ottobre 1943, ossia si
colloca all’indomani dell’armistizio italiano durante il breve periodo
di occupazione slava interrotto dalla controffensiva e dalla conseguente
occupazione tedesca dell’ottobre, e interessò l’Istria, soprattutto
centrale e meridionale. La seconda fase, più importante, si colloca
nella tarda primavera del 1945, ossia dal 1° maggio 1945 per continuare
fino a date diverse a seconda delle zone. Trieste e Gorizia furono
particolarmente colpite, anche se in queste città e a Pola l’occupazione
jugoslava durò “soltanto” quaranta giorni circa, poiché fu sostituita a
giugno da un’amministrazione militare alleata. Negli anni successivi le
sopraffazioni comunque assegnate alla Jugoslavia, e quindi in Istria, a
Fiume e in Dalmazia.
Le
due foibe più importanti sono quella di Basovizza e quella di
Monrupino, entrambe nei pressi di Trieste. La prima era originariamente
un pozzo di miniera che nel 1918 misurava 300 m di profondità; dopo i
“quaranta giorni” dell’occupazione titoista fu verificato un innalzarsi
del livello: vi furono estratte circa 600 salme, tra cui quelle di 23
soldati neozelandesi; poi si dovette interrompere l’opera di recupero e
la voragine fu chiusa con una grande lastra. Nella foiba di Monrupino,
profonda 126 m, si pensa che vi siano circa 2.000 infoibati. Le ricerche
furono impossibili perché la foiba raccoglie le acque di un vasto
impluvio che si disperde in vari canali sotterranei, per cui i cadaveri
sono stati man mano trasportati in voragini ancora più profonde. Per
parecchi mesi la foiba emanò il fetore della decomposizione nelle
campagne circostanti.
Tra
le altre foibe individuate, vanno ricordate quelle di Vines (vicino
Albona), di Gallignana, di Lindaro, di Drenchia, dove finirono anche
partigiani bianchi della Osoppo; di recente è stata scoperta una foiba a
Costrena, nei pressi di Fiume. (…)
Agli
italiani delle terre occupate dalla Jugoslavia e poi ad essa cedute col
Trattato di pace del 10 febbraio 1947, fu data la possibilità di optare
per l’Italia o per la Jugoslavia; gli optanti per l’Italia poterono
espatriare col consenso delle autorità jugoslave. Molte domande di
opzione furono accolte tardivamente dopo ripetute istanze, e questo
spiega il protrarsi dell’esodo per parecchi anni. Altre infine furono
respinte. L’atteggiamento delle autorità comuniste dell’epoca nei
confronti dell’esodo (lo favorirono o cercarono invece di ostacolarlo?)
non è stato ancora chiarito e attende uno studio approfondito.
Per
quanto riguarda la condizione degli esuli arrivati in Italia, bisogna
distinguere tra chi nelle località di provenienza aveva un lavoro
nell’amministrazione pubblica o in aziende italiane, e chi invece era
lavoratore autonomo o dipendente da aziende locali. I primi mantennero
il posto di lavoro e, pur dovendo affrontare una serie di immaginabili
gravi difficoltà, ebbero una sorte migliore degli altri, ossia della
stragrande maggioranza, che trovò rifugio per vari anni nei “campi
profughi” sparsi un po’ in tutta Italia; si consideri che gli operai
costituivano il 60% dei profughi e gli impiegati il 23%, a dispetto
della propaganda comunista che bollava gli esuli come “borghesi”. La
vita di questi profughi fu veramente pesante soprattutto nei primi anni
di un dopoguerra di per sé difficile per tutti gli italiani: lontani
dalle loro terre, in cui sapevano, si badi, di non poter tornare più,
lontani spesso da parenti e amici che non avevano ottenuto il permesso
di raggiungerli, in precarie e anguste baracche di legno in cui si
coabitava, privi di lavoro, accolti spesso con diffidenza se non
addirittura con ostilità a causa di una propaganda che li dipingeva come
“fascisti” o come strani individui che avevano “inspiegabilmente”
rifiutato di vivere nel “paradiso socialista” e venivano a togliere il
lavoro agli italiani... Fu una situazione terribile.
Già
a partire dai primi anni cinquanta, però, le cose andarono migliorando:
il popolo dell’esodo dette una grande prova di civiltà e di
abnegazione, inserendosi progressivamente in modo stabile nella società
italiana e superando la precarietà lavorativa dei primi anni. I campi
profughi vennero man mano chiusi. Si tratta di una grande pagina di
storia, ancora da studiare: nonostante le sofferenze, le violenze e i
torti subiti, i profughi giuliano-dalmati si sono rapidamente e
pienamente integrati nella società italiana, non si sono abbandonati al
rancore e tanto meno alla violenza, ma hanno custodito con dignità le
loro memorie e le loro tradizioni, e rivendicato in modo pacifico e
democratico i loro diritti attraverso le loro associazioni, nonostante
le censure e i prolungati silenzi, riuscendo infine ad ottenere dal
Parlamento italiano l’istituzione di una Giornata del Ricordo. (…)
Preghiera per i martiri delle foibe
O
Dio, Signore della vita e della morte, della luce e delle tenebre,
dalle profondità di questa terra e di questo nostro dolore noi gridiamo a
Te. Ascolta, o Signore, la nostra voce. De profundis clamo ad Te,
Domine. Domine, audi vocem meam. Oggi tutti i Morti attendono una
preghiera, un gesto di pietà, un ricordo di affetto. E anche noi siamo
venuti qui per innalzare le nostre povere preghiere e deporre i nostri
fiori, ma anche per apprendere l’insegnamento che sale dal sacrificio di
questi Morti. E ci rivolgiamo a Te, perché tu hai raccolto l’ultimo
loro grido, l’ultimo loro respiro. Questo calvario, col vertice
sprofondato nelle viscere della terra, costituisce una grande cattedra,
che indica nella giustizia e nell’amore le vie della pace. In trent’anni
due guerre, come due bufere di fuoco, sono passate attraverso queste
colline carsiche; hanno seminato la morte tra queste rocce e questi
cespugli; hanno riempito cimiteri e ospedali; hanno anche scatenato
qualche volta l’incontrollata violenza, seminatrice di delitti e di
odio. Ebbene, Signore, Principe della Pace, concedi a noi la Tua Pace,
una pace che sia riposo tranquillo per i Morti e sia serenità di lavoro e
di fede per i vivi. Fa che gli uomini, spaventati dalle conseguenze
terribili del loro odio e attratti dalla soavità del Tuo Vangelo,
ritornino, come il figlio prodigo, nella Tua casa per sentirsi e amarsi
tutti come figli dello stesso Padre. Padre nostro, che sei nei cieli,
sia santificato il Tuo Nome, venga il Tuo regno, sia fatta la Tua
volontà.
Dona conforto alle spose, alle madri, alle sorelle, ai figli di
coloro che si trovano in tutte le foibe di questa nostra triste terra, e
a tutti noi che siamo vivi e sentiamo pesare ogni giorno sul cuore la
pena per questi nostri Morti, profonda come le voragini che li
accolgono. Tu sei il Vivente, o Signore, e in Te essi vivono. Che se
ancora la loro purificazione non è perfetta, noi Ti offriamo, o Dio
Santo e Giusto, la nostra preghiera, la nostra angoscia, i nostri
sacrifici, perché giungano presto a gioire dello splendore dei Tuo
Volto. E a noi dona rassegnazione e fortezza, saggezza e bontà. Tu ci
hai detto: Beati i misericordiosi perché otterranno misericordia, beati i
pacificatori perché saranno chiamati figli di Dio, beati coloro che
piangono perché saranno consolati, ma anche beati quelli che hanno fame e
sete di giustizia perché saranno saziati in Te, o Signore, perché è
sempre apparente e transeunte il trionfo dell’iniquità. O signore, a
questi nostri Morti senza nome ma da Te conosciuti e amati, dona la Tua
pace. Risplenda a loro la Luce perpetua e brilli la Tua Luce anche sulla
nostra terra e nei nostri cuori, E per il loro sacrificio fa che le
speranze dei buoni fioriscano. Domine, coram te est omne desiderium meum
et gemitus meus te non latet. Così sia.
Mons. Antonio Santin, Arcivescovo di Trieste e Capodistria, 1959.
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