"...Che cosa di più
bello Gesù poteva dare all'umanità, che cosa di più prezioso, di più Santo,
quando moriva sulla croce? Il Suo Sacrificio. La messa è il tesoro più grande e
il più ricco dell'umanità che Nostro Signore ci abbia donato...La Messa è "tutto
per Dio". Perciò vi dico: per la gloria della Santissima Trinità, per
l'amore di Nostro Signore Gesù Cristo, per la devozione della Santissima
Vergine Maria, per l'amore della Chiesa, per l'amore del Papa, per l'amore dei
Vescovi, dei Sacerdoti, di tutti i fedeli, per la salvezza del
mondo...custodite il testamento di Gesù Cristo, custodite il Sacrificio di
Nostro Signore! Conservate la Messa di Sempre!..." (Mons. Marcel Lefebvre)
EVANGÉLIUM
Sequéntia S. Evangélii secundum Ioánnem, 6, 56-59
In illo témpore: Dixit Iesus turbis Iudæórum: Caro mea vere est cibus, et sánguis meus vere est potus. Qui
mandúcat meam carnem, et bibit meum sánguinem, in me manet, et ego in
illo. Sicut misit me vivens Pater, et ego vivo propter Patrem: et qui
mandúcat me, et ipse vivet propter me. Hic est panis, qui de coelo
descéndit. Non sicut manducavérunt patres vestri manna, et mórtui sunt.
Qui mandúcat hunc panem, vivet in ætérnum.
M. - Laus tibi Christe.
In quel tempo: Gesú disse alle folle dei Guidei: La mia
carne è veramente cibo, e il mio sangue è veramente bevanda. Chi mangia
la mia carne e beve il mio sangue, vive in me e io in lui. Come è vivo
il Padre che mi ha mandato, e io vivo del Padre, cosí chi mangia la mia
carne vive di me. Questo è il pane che discende dal cielo. Non come i
vostri padri che mangiarono la manna e sono morti. Chi mangia questo
pane vivrà in eterno.
FESTA DEL CORPUS DOMINI
di dom Prosper Guéranger
Il Ss. Sacramento al centro della Liturgia.
Il
lume dello Spirito Santo che è venuto ad accrescere nella Chiesa
l'intelligenza sempre più viva del mistero dell'augusta Trinità la porta
a contemplare in seguito quell'altra meraviglia che racchiude per se
stessa tutte le operazioni del Verbo incarnato, e ci conduce fin da
questa vita all'unione divina. Il mistero della Santissima Eucaristia
sta per apparire in tutto il suo splendore, ed è necessario disporre gli
occhi della nostra anima a ricevere in modo salutare l'irradiazione che
ci attende. Come non siano stati mai senza la nozione del mistero della
Santissima Trinità e i nostri omaggi si sono sempre rivolti ad essa,
così pure la Santissima Eucaristia non ha mai cessato di accompagnarci
lungo tutto il corso di questo Anno liturgico sia come mezzo per rendere
i nostri omaggi alla suprema Maestà, sia come alimento della vita
soprannaturale. Possiamo dire che questi due ineffabili misteri ci sono
noti, che li amiamo; ma le grazie della Pentecoste ci hanno aperto un
nuovo ingresso in quello che hanno di più intimo, e se il primo ci è
apparso ieri circonfuso dai raggi d'una luce più viva, il secondo
risplenderà presto per noi d'una chiarezza che l'occhio della nostra
anima non aveva ancora percepita.
Essendo
la Santissima Trinità, come abbiamo mostrato, l'oggetto essenziale di
tutta la religione, il centro a cui convergono tutti i nostri omaggi
anche quando sembra che non ne abbiamo una intenzione immediata, si può
anche dire che la divina Eucaristia è il mezzo più potente di rendere a
Dio il culto che gli è dovuto, ed è per essa che la terra si unisce al
cielo. È dunque facile comprendere la ragione del ritardo che la santa
Chiesa ha avuto nell'istituire le due solennità che succedono
immediatamente a quella della Pentecoste. Tutti i misteri che abbiamo
celebrati finora erano contenuti nell'augusto Sacramento che è il
memoriale e come il compendio delle meraviglie che il Signore ha operate
per noi (Sal 110,4). La realtà della presenza di Cristo sotto le specie
sacramentali faceva sì che nell'Ostia noi riconoscessimo nel tempo di
Natale il Bambino che ci era nato, nel tempo della Passione la vittima
che ci riscattava, nel tempo Pasquale il trionfatore della morte. Non
potevamo celebrare tutti quei misteri senza chiamare in nostro aiuto
l'immortale Sacrificio, ed esso non poteva essere offerto senza
rinnovarli e riprodurli.
Le
feste stesse della Santissima Vergine e dei Santi ci mantenevano nella
contemplazione del divin Sacramento. Maria, che abbiamo onorata nelle
sue solennità dell'Immacolata Concezione, della Purificazione,
dell'Annunciazione, non ha forse alimentato con la propria sostanza quel
corpo e quel sangue che offriamo sull'altare? La forza invincibile
degli Apostoli e dei Martiri che abbiamo celebrati, non l'hanno forse
essi attinta nel sacro alimento che dà l'ardore e la costanza? I
Confessori e i Vergini non ci sono apparsi come il fiorire del campo
della Chiesa che si copre di spighe e di grappoli d'uva grazie alla
fecondità che gli dona Colui che è insieme il frumento e la vite (Zac
9,17)?
Raccogliendo
tutti i mezzi a nostra disposizione per onorare quei beati abitatori
della corte celeste, siamo ricorsi alla salmodia, agli inni, ai cantici,
alle formule più solenni e più tenere; ma, in fatto di omaggi alla loro
gloria, nulla eguaglia l'offerta del Sacrificio. Con questo noi
entriamo in comunicazione diretta con essi, secondo l'energica
espressione della Chiesa nel Canone della Messa (communicantes).
Essi adorano in eterno la Santissima Trinità per Gesù Cristo e in Gesù
Cristo; con il Sacrificio noi ci univamo ad essi nello stesso centro,
mescolavamo i nostri omaggi ai loro, e ne risultava per loro un aumento
di onore e di beatitudine. La divina Eucaristia, Sacrificio e
Sacramento, ci è dunque stata sempre presente; e se, in questi giorni,
dobbiamo raccoglierci per meglio comprenderne la grandezza e la potenza
infinite, se dobbiamo sforzarci di gustarne con maggior pienezza
l'ineffabile soavità, non è una scoperta che ci appare d'improvviso: si
tratta dell'elemento che l'amore di Cristo ci ha preparato e di cui già
facciamo uso per entrare in rapporto diretto con Dio e rendergli i
nostri omaggi più solenni e insieme più intimi.
Prima festa del Sacramento.
Tuttavia lo Spirito che dirige la Chiesa doveva ispirarle un giorno il pensiero di istituire una solennità [1]
particolare in onore del mistero augusto in cui sono racchiusi tutti
gli altri. L'elemento sacro che dà a tutte le feste dell'anno la loro
ragione d'essere e le illumina del loro splendore, la Santissima
Eucaristia, richiedeva per se stessa una festa in rapporto con la
magnificenza del suo oggetto.
Ma
questa esaltazione dell'Ostia, queste marce trionfali così giustamente
care alla pietà cristiana dei nostri i giorni, erano impossibili nella
Chiesa al tempo dei martiri. Esse non furono usate dopo la vittoria,
quasi che non rientrassero nella consuetudine e nello spirito delle
forme liturgiche primitive, che continuarono per lungo tempo ad essere
in uso. Erano d'altronde meno necessarie e quasi superflue per la viva
fede di quel tempo: la solennità del Sacrificio stesso, la
partecipazione comune ai Misteri sacri, la lode ininterrotta dei canti
liturgici che risuonavano intorno all'altare rendevano a Dio omaggio e
gloria, mantenevano l'esatta nozione del dogma, e conservavano nel
popolo cristiano una sovrabbondanza di vita spirituale che non si
riscontra più nell'età seguente. Il memoriale divino recava i suoi
frutti; le intenzioni del Signore nell'istituire il mistero erano
compiute, e il ricordo di quella istituzione, celebrato fin d'allora
come ai nostri giorni nella Messa del Giovedì santo, rimaneva impresso
profondamente nel cuore dei fedeli.
L'indebolimento della fede.
Fu
così fino al secolo XIII. Ma allora, e in seguito al raffreddamento che
la Chiesa deve costatare all'inizio di quel secolo (Orazione della
festa delle Stimmate di san Francesco) si indebolì la fede, e con essa
la profonda pietà delle antiche genti cristiane. In questa decadenza
progressiva che miracoli di santità individuale non riuscivano ad
arrestare, c'era da temere che l'adorabile Sacramento che è il mistero
della fede per essenza, avesse a soffrire più di ogni altro per
l'indifferenza e la freddezza delle nuove generazioni. Già qua e là,
ispirata dall'inferno, era risonata più d'una negazione sacrilega,
spaventando i popoli, ancora troppo fedeli in generale per essere
sedotti, ma stimolando la vigilanza dei pastori e facendo già numerose
vittime.
Scoto
Eriugena aveva tirato fuori la formula dell'eresia sacramentaria:
l'Eucaristia non era per lui "che un segno, figura dell'unione
spirituale con Gesù, percepita mediante il solo intelletto" [2].
Il suo oscuro pedantismo ebbe scarsa risonanza, e non prevalse contro
la tradizione cattolica esposta nei profondi scritti di Pascasio
Radberto, Abate di Gorbia. Riportati a galla nel secolo XI da
Berengario, i sofismi di Scoto turbarono allora più seriamente e più a
lungo la Chiesa di Francia, senza tuttavia sopravvivere all'astuta
vanità del loro secondo padre. L'inferno avanzava poco in questi
attacchi ancora troppo diretti; raggiunse meglio il suo scopo per vie
traverse. L'impero bizantino nutriva i resti della setta manichea che,
considerando la carne come l'opera del principio perverso, rovesciava
l'Eucaristia dalla base. Mentre, avido di fama, Berengario dogmatizzava
ad alta voce senza alcun vantaggio per l'errore, la Tracia e la Bulgaria
inviavano sotto sotto i loro apostoli verso l'Occidente. La Lombardia,
le Marche e la Toscana furono infestate; oltrepassando i monti, l'impura
fiamma si sprigionò insieme in parecchi punti del regno cristianissimo:
Orléans, Tolosa, Arras videro il veleno penetrare nelle proprie mura.
Si credette di aver soffocato il male in radice con energiche
repressioni; ma il contagio si estendeva nell'ombra. Prendendo il
mezzogiorno della Francia come base delle sue operazioni, l'eresia si
organizzò subdolamente per tutta la durata del secolo XII, e furono tali
i suoi progressi latenti che, scoprendosi infine all'inizio del secolo
XIII, pretese di sostenere con le armi alla mano i suoi perversi dogmi.
Furono necessari spargimenti di sangue per vincerla e sottrarle le sue
roccheforti; e ancora per lungo tempo dopo la sconfitta
dell'insurrezione armata, l'Inquisizione dovette sorvegliare attivamente
le province percosse dal flagello degli Albigesi.
La visione della beata Giuliana.
Simone
di Montfort era stato il vindice della fede. Ma nel tempo stesso in cui
il braccio vittorioso dell'eroe cristiano sbaragliava l'eresia, Dio
preparava al suo Figliolo indegnamente oltraggiato dai settari nel
Sacramento del suo amore un trionfo più pacifico e una riparazione più
completa. Nel 1208, un'umile religiosa ospedaliera, la Beata Giuliana di
Mont-Cornillon presso Liegi, aveva una visione misteriosa, in cui le
appariva la luna nella sua pienezza, che mostrava sul proprio disco una
incrinatura. Due anni dopo, le fu rivelato che la luna significava la
Chiesa del suo tempo, e l'incrinatura che vi rilevava, l'assenza d'una
solennità nel Ciclo liturgico, poiché Dio voleva che una nuova festa
fosse celebrata ogni anno per onorare solennemente e in modo distinto
l'istituzione della Santissima Eucaristia: il ricordo storico della Cena del Signore
il Giovedì santo non rispondeva ai nuovi bisogni dei popoli turbati
dall'eresia; non bastava più alla Chiesa, distratta del resto allora
dalle importanti funzioni di quel giorno, e presto assorbita dalla
tristezza del Venerdì santo.
Nel tempo stesso che Giuliana riceveva tale comunicazione, le fu ingiunto di porre ella stessa mano all'opera e di far conoscere al mondo i voleri divini. Passarono vent'anni prima che l'umile e timida vergine potesse trovare il coraggio d'una simile iniziativa. Si confidò infine con un canonico di S. Martino di Liegi, Giovanni di Losanna, che stimava in modo singolare per la sua grande santità, e lo pregò di discutere sull'oggetto della sua missione con i dottori. Tutti furono d'accordo nel riconoscere che non solo nulla si opponeva all'istituzione della festa progettata, ma che ne derivava al contrario un aumento della gloria divina e un gran bene nelle anime. Riconfortata da questa decisione, la Beata fece comporre e approvare per la futura festa un Ufficio proprio che cominciava con le parole: Animarum cibus, e di cui rimangono ancor oggi dei frammenti.
La festa del Corpus Domini.
La
Chiesa di Liegi, a cui la Chiesa universale era già debitrice della
festa della Santissima Trinità, era predestinata al nuovo onore di dar
origine alla festa del Santissimo Sacramento. Fu un giorno radioso,
quando, nel 1246, dopo
così lungo tempo e innumerevoli ostacoli, Roberto di Torote, vescovo di
Liegi, ordinò con un decreto sinodale che ogni anno, il Giovedì dopo la
Santissima Trinità, tutte le Chiese della sua diocesi avrebbero dovuto
osservare d'ora in poi, astenendosi dalle opere servili e praticando un
digiuno di preparazione, una festa solenne in onore dell'ineffabile
Sacramento del Corpo del Signore.
La festa del Corpus Domini fu dunque celebrata per la prima volta in quella insigne Chiesa, nel 1247. Il successore di Roberto, Enrico di Gueldre, uomo d'armi e gran signore, aveva altre preoccupazioni che quelle del suo predecessore. Ugo di San Caro, cardinale di Santa Sabina, legato in Germania, venuto a Liegi per porre riparo ai disordini che vi accadevano sotto il nuovo governo, sentì parlare del decreto di Roberto e della nuova solennità. Già priore e provinciale dei Frati Predicatori, era stato fra quelli che, consultati da Giovanni di Losanna, ne avevano favorito il progetto. Volle avere l'onore di celebrare egli stesso la festa, e di cantarvi la Messa in pompa magna. Inoltre, con mandato del 29 dicembre 1253 indirizzato agli Arcivescovi, Vescovi, Abati e fedeli del territorio della sua legislazione, confermò il decreto del vescovo di Liegi e lo estese a tutte le terre di sua giurisdizione, concedendo una indulgenza di cento giorni a tutti coloro che, contriti e confessati, avessero visitato devotamente le chiese in cui si celebrava l'Ufficio della festa, il giorno stesso oppure durante l'Ottava. L'anno seguente, il cardinale di Saint-Georges-au-Voile-d'Or, che gli succedette nella legazione, confermò e rinnovò le ordinanze del cardinale di Santa Sabina. Ma quei reiterati decreti non poterono vincere la freddezza generale; e furono tali le manovre dell'inferno il quale si vedeva raggiunto nei suoi profondi abissi, che dopo la partenza dei legati si videro degli ecclesiastici di gran nome e costituiti in dignità opporre alle ordinanze le loro decisioni particolari. Quando morì la Beata Giuliana, nel 1258, la Chiesa di S. Martino era sempre l'unica in cui si celebrasse la festa che ella aveva avuto la missione di stabilire nel mondo intero. Ma lasciava, perché continuasse la sua opera, una pia reclusa chiamata Eva, che era stata la confidente dei suoi desideri.
L'estensione della festa alla Chiesa Universale.
Il
29 agosto 1261 saliva al trono pontificio Giacomo Pantaleone assumendo
il nome di Urbano IV. Aveva conosciuto la Beata Giuliana quando era
ancora arcidiacono di Liegi, e ne aveva approvato i progetti. Eva
credette di vedere in quell'esaltazione il segno della Provvidenza.
Dietro le insistenze della monaca, Enrico di Gueldre scrisse al nuovo
Papa per congratularsi con lui e per pregarlo di confermare con la sua
sovrana approvazione la festa istituita da Roberto di Torote. Nello
stesso tempo diversi prodigi, e in special modo quello del corporale di
Bolsena insanguinato da un'ostia miracolosa quasi sotto gli occhi della
corte pontificia che risiedeva allora ad Orvieto, parvero spingere
Urbano da parte del cielo e rafforzare il grande zelo che egli aveva un
tempo manifestato in onore del divin Sacramento. San Tommaso d'Aquino fu
incaricato di comporre secondo il rito romano l'Ufficio che doveva
sostituire nella Chiesa quello della Beata Giuliana, adattato da essa al
rito dell'antica liturgia francese. La bolla Transiturus fece
quindi conoscere al mondo le intenzioni del Pontefice: ricordando le
rivelazioni di cui aveva avuto un giorno notizia, Urbano IV stabiliva
nella Chiesa universale, per la confusione dell'eresia e l'esaltazione
della fede ortodossa, una speciale solennità in onore dell'augusto
memoriale lasciato da Cristo alla sua Chiesa. Il giorno fissato per tale
festa era la Feria quinta ossia il Giovedì dopo l'ottava della Pentecoste.
Sembrava
che la causa fosse finalmente giunta al termine. Ma i torbidi che
agitavano allora l'Italia e l'Impero fecero dimenticare la bolla di
Urbano IV prima ancora che fosse messa in esecuzione. Quarant'anni e più
passarono prima che essa fosse di nuovo promulgata e confermata da
Clemente V nel concilio di Vienna. Giovanni XXII le diede la forza di
legge definitiva inserendola nel Corpo del Diritto nelle Clementine,
ed ebbe così il vanto di dare l'ultima mano, verso il 1318, a quella
grande opera il cui compimento aveva richiesto più d'un secolo.
Il desiderio del cuore umano.
Nondimeno, contro questa festa e il suo divino oggetto, alcuni hanno ripetuto le parole: Come possono avvenire queste cose? (Gv 3,9; 6,53).
La ragione sembrava giustificare le loro affermazioni contro ciò che
essi chiamavano le pretese insensate del cuore dell'uomo.
Ogni
essere ha sete di felicità, e tuttavia non aspira se non al bene di cui
è capace, poiché la condizione della felicità è appunto nella piena
soddisfazione del desiderio che lo domina.
Come tutto ciò che vive intorno a lui, l'uomo ha sete di felicità; e
tuttavia, trovandosi solo su questa terra, sente in sé aspirazioni che
sorpassano infinitamente i limiti della sua fragile natura. Dio che si
rivela a lui, mediante le sue opere, in un modo corrispondente alla sua
natura creata; Dio causa prima e fine universale, perfezione senza
limiti, bellezza infinita, somma bontà, oggetto certamente degno di
fissare per sempre colmandogli il suo intelletto e il suo cuore: Dio
così conosciuto, così gustato non basta più all'uomo. Questo essere da
nulla vuole l'infinito nella sua sostanza, anela a conoscere il volto
del Signore e la sua vita intima. La terra non è ai suoi occhi che un
deserto senza uscita, senz'acque per estinguere la sua sete (Sal 62,2):
"Come il cervo anela all'acqua delle fonti - esclama - così l'anima mia
anela a te, o Dio! L'anima mia ha sete del Dio forte, del Dio vivo. Oh,
quando verrò, quando pascolerò dinanzi al volto di Dio?" (Sal 41,2-3).
Strano
entusiasmo, senza dubbio, per la fredda ragione; pretese, si direbbe,
veramente insensate! Questa visione di Dio, questa vita divina, questo
banchetto del quale Dio stesso sarebbe il cibo, potrebbe mai l'uomo far
sì che queste sublimità non rimangano infinitamente al disopra delle
potenze della sua natura, come di ogni natura creata? Un abisso lo
separa dall'oggetto che lo affascina, abisso che non è altro se non la
spaventosa sproporzione dal nulla all'essere. L'atto creatore nella sua
onnipotenza non potrebbe da sé solo colmare tale abisso; e perché la
sproporzione cessasse di essere un ostacolo alla bramata unione,
bisognerebbe che Dio stesso colmasse la distanza e si degnasse di
comunicare a questo rampollo del nulla le sue stesse forze. Ma che è
dunque l'uomo, perché l'Essere supremo, la cui magnificenza sorpassa i
cieli, si abbassi fino a lui? (Sal 143,5).
La risposta dell'amore infinito.
Dio
è amore; e il miracolo non sta nel fatto che noi abbiamo a-mato Dio,
ma che egli stesso ci abbia amati (1Gv 4,10). Ora l'amore richiede
l'unione, e l'unione richiede degli esseri simili. O ricchezza della
divina natura in cui si effondono, ugualmente infiniti, Potenza,
Sapienza e Amore, che costituiscono l'augusta Trinità! Gloria a te,
Spirito Santo, il cui regno appena iniziato illumina di simili raggi i
nostri occhi mortali! In questa settimana che ci vede dare inizio
insieme a te all'inventario dei doni preziosi lasciati nelle nostre mani
dallo Sposo che saliva al cielo (cfr. Sal 67,19; Ef 4,8), in questo
primo Giovedì che ci ricorda la Cena del Signore, tu riveli ai nostri
cuori la pienezza e insieme il fine e la mirabile armonia delle opere
che compie il Dio uno nella sua essenza e trino nelle sue persone; sotto
il velo delle sacre specie, tu offri ai nostri occhi il memoriale
vivo delle meraviglie compiute dall'accordo dell'Onnipotenza, della
Sapienza e dell'Amore (Sal 110,4)! Solo l'Eucaristia poteva infatti
mettere in piena luce lo sviluppo nel tempo, il progressivo avanzare
delle divine risoluzioni ispirate dall'amore infinito che le guida sino alla fine (Gv 13,1).
Lode all'eterna Sapienza.
O
Sapienza, che sei uscita dalla bocca dell'Altissimo, che corri da
un'estremità all'altra e disponi ogni cosa con forza e dolcezza (la
prima delle Antifone maggiori dell'Avvento), noi imploravamo nel tempo
dell'Avvento la tua venuta in Betlemme, la casa del pane; tu eri
la prima aspirazione dei nostri cuori. Il giorno della tua gloriosa
Epifania manifestò il mistero delle nozze, e rivelò lo Sposo; la Sposa
fu preparata nelle acque del Giordano; cantammo i Magi che accorrevano
portando doni al banchetto rappresentativo, e gli invitati che bevevano
un vino miracoloso. Ma l'acqua mutata in vino presagiva più sublimi
meraviglie. La vite, la vera vite di cui noi siamo i tralci (Gv 15,5),
ha dato i suoi magnifici fiori, i suoi frutti di grazia e di onore
(Eccli 24,23). Il frumento abbonda nelle valli, e queste cantano un inno
di lode (Sal 64,14).
O
Sapienza, nobile sovrana, le cui attrattive divine conquistano fin
dall'infanzia i cuori bramosi della vera bellezza (Sap 8,2), è dunque
giunto il giorno del vero banchetto nuziale! Come una madre colma
d'onore, tu accorri per nutrirci del pane di vita, e inebriarci della
bevanda salutare (Eccli 15,2-3). Il tuo frutto è migliore dell'oro e
della pietra preziosa, e la tua sostanza migliore dell'argento più puro
(Prov 8,19). Quelli che ti mangiano avranno ancora fame, quelli che ti
bevono non estingueranno la loro sete (Eccli 24,29), poiché la tua
compagnia non ha amarezze, la tua società non dà disgusto; con te sono
la letizia e il gaudio (Sap 8,16), le ricchezze, la gloria e la virtù
(Prov 8,18).
In
questi giorni in cui tu elevi il tuo trono nell'assemblea dei santi,
penetrando con agio i misteri del divino banchetto, noi vogliamo render
note le tue meraviglie e con il tuo consenso cantare le tue lodi davanti
agli eserciti dell'Altissimo (Eccli 1,4). Degnati di aprire la tua
bocca e di riempirci del tuo Spirito, o divina Sapienza, affinché la
nostra lode sia degna del suo oggetto, e abbondi, secondo la tua
promessa, nella bocca dei tuoi adoratori (Gv 12,24-25).
MESSA
EPISTOLA
(1Cor 11,23-29). - Fratelli: Io ho ricevuto dal Signore quello che ho
insegnato a voi, che il Signore Gesù, nella notte in cui era tradito,
prese del pane e, dopo aver rese le grazie, lo spezzò e disse: Prendete e
mangiate: questo è il mio corpo, che sarà dato a morte per voi: fate
questo in memoria di me. Parimenti, dopo aver cenato, prese anche il
calice, dicendo: Questo calice è il nuovo testamento nel mio sangue:
fate questo, tutte le volte che ne berrete, in memoria di me. Or dunque,
tutte le volte che mangerete questo pane e berrete questo calice,
annunzierete la morte del Signore, finché egli non venga. Pertanto
chiunque mangerà questo pane o berrà il calice del Signore indegnamente,
sarà reo del corpo e del sangue del Signore. Provi dunque ciascuno se
stesso, e così mangi di quel pane e beva di quel calice; perché chi ne
mangia e ne beve indegnamente, mangia e beve la sua condanna, non
distinguendo il corpo del Signore.
"Annunciare la morte del Signore".
La
Santissima Eucaristia, come Sacrificio e come Sacramento, è il centro
della religione cristiana, sicché il Signore ha voluto che il fatto
della sua istituzione fosse basato, negli scritti ispirati, su una
quadruplice testimonianza. San Paolo, che abbiamo ora sentito, unisce la
sua voce a quelle di san Matteo, di san Marco e di san Luca. Egli basa
il suo racconto, in tutto conforme a quello degli Evangelisti, sulle
parole stesse del Signore, che si degnò di apparirgli e di ammaestrarlo
personalmente dopo la sua conversione.
L'Apostolo
insiste sul potere che il Salvatore diede ai suoi discepoli di
rinnovare l'atto che egli aveva compiuto, e ci insegna in particolare
che ogni qualvolta il Sacerdote consacra il corpo e il sangue di Gesù
Cristo, annuncia la morte del Signore, esprimendo con tali parole
l'unità del Sacrificio sulla croce e sull'altare. Con l'immolazione del
Redentore sulla croce la carne di questo Agnello di Dio è diventata
"veramente un cibo", e il suo sangue "veramente una bevanda", come ci
dirà presto il Vangelo. Non lo dimentichi dunque il cristiano, anche in
questo giorno di trionfo. Lo si costata subito: la Chiesa nella Colletta
non aveva altro scopo che di inculcare profondamente nell'anima dei
suoi figli l'estrema e così commovente raccomandazione del Signore:
"Ogni qualvolta berrete di questo calice del nuovo testamento, fatelo in
memoria di me". La scelta di questo passo del grande Apostolo come
Epistola fa sempre più comprendere al cristiano che la carne divina che
nutre l'anima sua è stata preparata sul Calvario e che, se l'Agnello è
oggi vivo e, immortale, è diventato nostro cibo attraverso una morte
dolorosa. Il peccatore riconciliato riceverà con compunzione quel corpo
santo, di cui si rimprovera amaramente di aver versato tutto il sangue
con i suoi innumerevoli peccati; il giusto vi parteciperà nell'umiltà,
ricordando che anche lui ha avuto la sua parte fin troppo grande ai
dolori dell'innocente Agnello e che se oggi sente in sé la vita della
grazia, non lo deve che al sangue della Vittima la cui carne gli sarà
data in cibo.
Ma temiamo soprattutto il tremendo sacrilegio condannato dall'Apostolo e che non esiterebbe ad infliggere, con uno spaventoso rovesciamento, una nuova morte all'Autore della vita, nel banchetto stesso del quale il suo sangue fu il prezzo! "Giudichi dunque l'uomo sé stesso - dice san Paolo - e solo allora mangi di quel pane e beva di quel calice". Questa prova, è la confessione sacramentale per chiunque abbia coscienza d'un peccato grave non ancora confessato: qualunque pentimento egli possa averne, e fosse anche già riconciliato con Dio mediante un atto di contrizione perfetta, il precetto dell'Apostolo, interpretato dall'usanza della Chiesa e dalle sue definizioni conciliari (Concilio di Trento, Sess. XIII, c. VII, can. 11), gli vieta l'accesso alla sacra mensa, finché non abbia sottoposto la sua colpa al potere delle Chiavi.
Nella
Sequenza, celebre opera del Dottor Angelico, la Chiesa, la vera Sion,
manifesta il suo entusiasmo ed effonde il suo amore per il Pane vivo e
vivificante, in termini d'una precisione scolastica che sembrerebbe
sfidare qualunque poesia nella sua forma. Il mistero eucaristico vi si
svolge con la pienezza concisa e la maestà semplice e grandiosa di cui
san Tommaso possedette il meraviglioso segreto. Questa esposizione
sostanziale dell'oggetto della festa, sostenuta da un canto in armonia
con il pensiero, giustifica pienamente l'entusiasmo prodotto nell'anima
dal susseguirsi di quelle magnifiche strofe.
SEQUENZA
Loda, o Sion, il Salvatore, loda il duce ed il pastore con inni e canti.
Quanto puoi tanto ardisci, perché egli è superiore ad ogni lode e tu non basti a lodarlo.
Come tema di lode speciale, è il pane vivo e datore di vita che vien proposto oggi.
Quel pane che nella mensa della sacra cena, alla turba dei dodici fratelli, fu dato realmente.
La lode sia piena e sonora, sia gioconda e piena di decoro la gioia dello spirito.
Perché si celebra il giorno solenne, che di questa mensa ricorda la prima istituzione.
In questa mensa del nuovo Re, la novella Pasqua della nuova legge pone fine alla Pasqua antica.
Il nuovo fa cessar l'antico, la verità fa dileguare le ombre, la luce toglie la notte.
Cristo ciò che fece nella cena, comandò che si facesse in suo ricordo.
Ammaestrati dai sacri insegnamenti, noi consacriamo il pane e il vino, ostia di salute.
È un domma per i cristiani, che il pane si converte in carne, e il vino in sangue.
Ciò che non comprendi, ciò che non vedi, l'animosa fede l'assicura, trascendendo ogni ordine naturale.
Sotto diverse specie, che son parvenze e non sostanze, si nascondono cose sublimi.
La carne è cibo, il sangue è bevanda, ma Cristo rimane intero, sotto l'una e l'altra specie.
Da chi lo riceve non è fatto a pezzi, non è rotto, non è diviso: è ricevuto intero.
Lo riceve uno, lo ricevon mille, tanto questi che quelli, e, ricevuto, non si consuma.
Lo ricevono i buoni, lo ricevono i cattivi, ma con sorte diversa: di vita o di morte.
È morte per i cattivi, è vita per i buoni: guarda come la stessa comunione abbia effetti diversi.
Se il sacramento viene spezzato, non vacillare, ma ricordati che è tanto, in un frammento quanto in tutta l'ostia.
La
divisione non è della sostanza, ma solo della specie: senza diminuzione
dello stato o della grandezza di ciò che sotto le specie è nascosto.
Ecco il pane degli Angeli divenuto cibo dei pellegrini: è il vero pane dei figli, da non gettarsi ai cani.
Fu simboleggiato con figure nell’immolazione di Isacco, nel sacrificio dell'agnello pasquale, nella manna data ai padri.
Buon pastore, pane vero, o Gesù, abbi pietà di noi, nutriscici, difendici, facci vedere i beni nella terra dei viventi.
Tu,
che sai tutto e tutto puoi, e ci nutrisci qui, mortali, rendici, lassù,
tuoi commensali e coeredi e compagni dei santi cittadini. Amen.
Alleluia.
VANGELO (Gv 6,56-59).
- In quel tempo, disse Gesù ai Giudei: La mia carne è veramente cibo e
il mio sangue è veramente bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio
sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre vivente mi inviò ed io
vivo per il Padre, così chi mangia me, vivrà anch'egli per me. Questo è
il pane disceso dal cielo; e non sarà come la manna che i vostri padri
mangiarono e morirono. Chi mangia di questo pane vivrà in eterno.
L'Eucaristia, alimento di vita per l’anima…
Il
discepolo prediletto non poteva rimanere silenzioso sul Mistero
d'amore. Tuttavia, quando scrisse il suo Vangelo l'istituzione di questo
Sacramento era già abbastanza narrata dai tre Evangelisti che l'avevano
preceduto e dall'Apostolo delle Genti. Senza tornare dunque su quella
divina storia, egli completò il loro racconto con quello della solenne
promessa che aveva fatta il Signore un anno prima della Cena sulle rive
del lago di Tiberiade.
All'innumerevole
moltitudine che attira al suo seguito il recente miracolo della
moltiplicazione dei pani e dei pesci, Gesù si presenta come il vero pane
di vita disceso dal cielo e che preserva dalla morte, a differenza
della manna data da Mosè ai loro padri. La vita è il primo dei beni,
come la morte l'estremo dei mali. La vita risiede in Dio come nella sua
sorgente (Sal 35,10); egli solo può comunicarla a chi vuole, e
restituirla a chi l'ha perduta.
Il
Verbo di Dio è venuto in mezzo agli uomini perché avessero la vita e
l'avessero in abbondanza (Gv 10,10). E siccome è proprio del cibo
accrescere e mantenere la vita, si è fatto cibo, cibo vivo, vivificante,
disceso dal cielo. Partecipando essa stessa della vita eterna che
attinge direttamente al seno del Padre, la carne del Verbo comunica
questa vita a chi la mangia. Ciò che è per sua natura corruttibile -
dice san Cirillo Alessandrino - non può essere vivificato diversamente
che con l'unione corporea al corpo di colui è vita per natura; ora, come
due pezzi di cera fusi insieme dal fuoco non ne formano più che uno
solo, così fa di noi e di Cristo la partecipazione del suo corpo e del
suo sangue prezioso. Questa vita dunque che risiede nella carne del
Verbo, divenuta nostra in noi stessi, non sarà, come non lo fu in lui,
vinta dalla morte; scuoterà nel giorno stabilito le catene dell'antica
avversaria, e riporterà la vittoria sulla corruzione dei nostri corpi
immortali (san Cirillo Alessandrino, Su san Giovanni, l. x, c. 2).
Così
era necessario che non soltanto l'anima fosse rinnovata dal contatto
del Verbo, ma che questo stesso corpo terreno e grossolano partecipasse
in qualche modo alla virtù vivificante dello Spirito, secondo l'espressione del Signore (Gv 6,64).
"Coloro che hanno sorbito il veleno per l'inganno dei loro nemici -
dice egregiamente san Gregorio Nisseno - uccidono in sé il virus con un
rimedio opposto; ma come è accaduto per la bevanda mortale, bisogna che
la pozione salutare sia introdotta fin nelle loro viscere, affinché di
qui si diffonda in tutto l'organismo la sua virtù curativa. Noi dunque
che abbiamo gustato il frutto deleterio, abbiamo bisogno pure d'un
rimedio di salvezza che nuovamente raccolga e armonizzi in noi gli
elementi disgregati e confusi della nostra natura e che, penetrando
nell'intimo della nostra sostanza, neutralizzi e scacci il veleno con
una forza contraria. E quale sarà questo rimedio? Non altro che quel
corpo che si è mostrato più potente della morte, ed ha posto per noi il
principio della vita. Come un po' di lievito - dice l'Apostolo -
assimila tutta la pasta, così questo corpo, entrando nel nostro, lo
trasforma interamente in sé. Ma nulla può penetrare così la nostra
sostanza corporea se non mediante il mangiare e il bere; è questo il
modo, conforme alla sua natura, secondo il quale giunge fino al nostro
corpo la virtù vivificante" (san Gregorio Nisseno, Catechesi, xxxvii).
PROCESSIONE
Chi
è costei che avanza profumando il deserto del mondo d'una nube
d'incenso, di mirra e di ogni sorta di profumi? La chiesa attornia la
lettiga dorata in cui appare lo Sposo nella sua gloria. Accanto a lui
sono raccolti i forti d'Israele, sacerdoti e leviti del Signore, potenti
presso Dio. Figlie di Sion, uscitegli incontro; contemplate il vero
Salomone sotto lo splendore del diadema di cui l'ha incoronato la madre
nel giorno delle sue nozze e del gaudio del suo cuore (Ct 3,5-11).
Questo diadema è la carne che il Verbo ha ricevuta dalla Vergine
purissima, quando ha preso in isposa l'umanità (san Gregorio, Sul Cantico dei Cantici).
Per quel corpo perfettissimo, per quella carne sacrosanta continua
tutti i giorni, sul santo altare, l'ineffabile mistero delle nozze
dell'uomo e della Sapienza eterna. Non è dunque giusto che una volta
all'anno la santa Chiesa dia libero corso ai suoi trasporti verso lo
Sposo nascosto sotto i veli del Sacramento? Per questo il Sacerdote ha
oggi consacrato due Ostie, e dopo averne consumato una, ha posto l'altra
nell'ostensorio che, recato rispettosamente in mano, attraverserà ora
sotto il baldacchino, al canto degli inni, le file della moltitudine
prostrata.
Questa solenne dimostrazione verso l'Ostia santa, come già abbiamo detto, è più recente della stessa festa del Corpus Domini. Urbano
IV non ne parla nella sua Bolla d'istituzione del 1264. Invece, Martino
V ed Eugenio IV, nelle loro costituzioni più sopra citate (26 maggio
1429 e 26 maggio 1433), ci danno la prova che essa era già in uso fin da
quel tempo, poiché concedono particolari indulgenze a coloro che la
seguono. Il milanese Donato Bossio riferisce nella sua Cronaca che "il
giovedì 29 maggio del 1404 si portò per la prima volta solennemente il
Corpo di Cristo per le strade di Pavia, come è entrato in uso in seguito".
Alcuni autori ne hanno concluso che la Processione del Santissimo
Sacramento non risaliva oltre tale data, e doveva la sua prima origine
alla Chiesa di Pavia. Ma una simile conclusione sorpassa il testo su cui
si basa, e che può benissimo non esprimere altro che un fatto di
cronaca locale.
Troviamo
infatti la Processione menzionata su un titolo manoscritto della Chiesa
di Chartres nel 1330, in un atto del Capitolo di Tournai nel 1325, nel
concilio di Parigi del 1323 e in quello di Sens del 1320. Speciali
indulgenze sono concesse da questi due concili all'astinenza e al
digiuno della Vigilia del Corpus Domini, ed essi aggiungono: "Quanto
alla solenne Processione che si fa il Giovedì della festa portando il
divin Sacramento, siccome pare che essa sia stata introdotta ai giorni
nostri per una specie di divina ispirazione, non stabiliamo nulla per il
momento, lasciando ogni cosa alla devozione del clero e del popolo"
(Labbe, Conc. t. XI, pp. 1680, 1711). L'iniziativa popolare
sembra avere avuto dunque una grande parte in questa istituzione; e come
Dio aveva scelto, nel secolo precedente, un papa francese per istituire
la festa, dalla Francia ancora si diffuse a poco a poco in tutto
l'Occidente questo glorioso complemento della solennità del Mistero
della fede [3].
Sembra
probabile tuttavia che in principio l'Ostia santa non fosse, almeno
dappertutto, portata in mostra come oggi nelle processioni, ma solo
velata e racchiusa in una cassa o in una teca preziosa. C'era l'usanza
di portarla in questa maniera fin dal secolo XI in alcune Chiese nella
Processione delle Palme e in quella del mattino della Risurrezione.
Abbiamo parlato altrove di queste solenni manifestazioni che del resto
non avevano tanto per oggetto di onorare direttamente il divin
Sacramento, quanto di rendere più al vivo il mistero del giorno.
Comunque sia, l'uso degli estensori o esposizioni, come le chiama il concilio di Colonia del 1452, seguì quasi subito l'istituzione della nuova Processione.
Dottrina del Concilio di Trento.
Tuttavia, l'eresia protestante tacciò subito di novità, di superstizione e di odiosa idolatria questi naturali sviluppi del culto cattolico ispirati dalla fede e dall'amore. Il concilio di Trento colpì di anatema le recriminazioni dei settari (Sess. XIII, c. VI) e, in un capitolo speciale, giustificò la Chiesa in termini che non possiamo fare a meno di riprodurre: "Il santo Concilio dichiara piissima e santissima l'usanza che si è introdotta nella Chiesa, di consacrare ogni anno una festa speciale a celebrare in tutti i modi l'augusto Sacramento, come pure di portarlo in processione per le vie e le pubbliche piazze con pompa ed onore. È giustissimo infatti che siano stabiliti alcuni giorni in cui i cristiani, con una dimostrazione solenne e specialissima, testimoniano la loro gratitudine e il loro devoto ricordo verso il comune Signore e Redentore, per il beneficio ineffabile e divino che ripropone ai nostri occhi la vittoria e il trionfo della sua morte. Così bisognava ancora che la verità vittoriosa trionfasse sulla menzogna e sull'eresia, in modo che i suoi avversari, in mezzo a tanto splendore e a tanto gaudio di tutta la Chiesa, o perdano il coraggio o, confusi, giungano alfine alla resipiscenza (Sessione XIII, c. V).
Le bellezze della festa del Corpus Domini.
Ma
noi cattolici, fedeli adoratori del Sacramento d'amore, "con quale
gaudio", esclama l'eloquente Padre Faber, "non dobbiamo contemplare
quella splendente e immensa nube di gloria che la Chiesa in questa
occasione fa salire verso Dio! Sì, sembrerebbe che il mondo sia ancora
nel suo stato di fervore e d'innocenza primitiva! Guardate quelle
gloriose processioni che, con i loro stendardi scintillanti al sole, si
snodano attraverso le strade ornate di fiori dei villaggi cristiani,
sotto le volte venerabili delle antiche basiliche e lungo i cortili dei
seminari, asili della pietà. In quel concorso di folle, il colore del
volto e la diversità delle lingue non sono che rinnovate prove
dell'unità di quella fede che tutti sono lieti di professare con la voce
del magnifico rituale di Roma. Su quanti altari di forma diversa, tutti
ornati dei fiori più soavi e risplendenti di luce, tra nuvole
d'incenso, al suono dei sacri cantici e davanti a una moltitudine
prostrata e raccolta, il Santissimo Sacramento viene sollevato per
ricevere le adorazioni dei fedeli, e abbassato per benedirli! E quanti
atti ineffabili di fede e d'amore, di trionfo e di riparazione non ci
rappresenta ognuna di queste cose! Il mondo intero e l'aria della
primavera sono ripieni di canti di letizia. I giardini sono spogli dei
loro più bei fiori, che mani devote gettano sul cammino del Dio che
passa velato nel Sacramento. Le campane fanno risuonare lontano i loro
giocondi concerti. Il Papa sul suo trono e la giovinetta nel suo
villaggio, le religiose di clausura e gli eremiti solitari, i vescovi, i
dignitari e i predicatori, gli imperatori, i re e i principi, tutti
sono oggi ripieni del pensiero del Santissimo Sacramento. Le città sono
illuminate, le abitazioni degli uomini sono animate dai trasporti della
gioia. È tale la letizia universale che gli uomini vi si abbandonano
senza sapere perché, e rinasce su tutti i cuori dove regna la tristezza,
sui poveri, su tutti quelli che rimpiangono la libertà, la famiglia o
la patria. Tutti questi milioni di anime che appartengono alla regale
famiglia e al linguaggio spirituale di san Pietro sono oggi più o meno
prese dal Santissimo Sacramento, sì che tutta la Chiesa militante
trasalisce d'una gioia e d'una emozione simile al fremito dei flutti del
mare agitato. Il peccato sembra dimenticato; le lacrime stesse sembrano
piuttosto strappate dall'eccesso della felicità che dalla penitenza. È
un'ebbrezza simile a quella che trasporta l'anima che fa il suo ingresso
in cielo; o meglio si direbbe che la terra stessa passa nel cielo, come
potrebbe accadere appunto per la gioia di cui l'inonda il Santissimo
Sacramento" (Il Santissimo Sacramento, I, p. 4).
Durante la Processione si cantano gli Inni dell'Ufficio del giorno, il Lauda Sion, il Te Deum e, secondo la lunghezza del percorso, il Benedictus, il Magnificat
o altri canti liturgici che abbiano qualche riferimento all'oggetto
della festa, come gli Inni della Ascensione indicati nel Rituale.
Ritornando alla Chiesa, la funzione termina, come al solito, con il
canto del Tantum ergo, del Versetto e dell'Orazione del
Santissimo Sacramento. Ma, dopo la Benedizione solenne, il Diacono
espone l'Ostia santa sul trono dove i fedeli le faranno una guardia
d'onore.
PREGHIAMO
O
Dio, che in questo mirabile Sacramento ci hai lasciato il ricordo della
tua passione, concedici di venerare i sacri misteri del tuo Corpo e del
tuo Sangue con tanta fede da sentire sempre in noi gli effetti della
tua redenzione.
da: dom Prosper Guéranger, L'anno liturgico. - II. Tempo Pasquale e dopo la Pentecoste, trad. it. L. Roberti, P. Graziani e P. Suffia, Alba, 1959, p. 370-387
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