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giovedì 9 luglio 2015

San Vincenzo Lirinese COMMONITORIO PARTE PRIMA (cap. I-IX)...

 Fonte: Progetto barruel...
Da: Antidoto alle massime empie e sovversive. Serie di scritti tendenti a nutrir l'intelletto di sane dottrine ed a ringagliardire nel cuore i più nobili affetti, vol. III, Napoli 1854 pag. 17-43. 
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San Vincenzo Lirinese

COMMONITORIO [1]

[PARTE PRIMA (cap. I-IX)]

CAP. I.

Espone le ragioni, per le quali si è determinato a scrivere questo suo libro.

Poichè dice la divina Parola, e così n'ammonisce: «Interroga i tuoi padri, e te ne daranno novella; i tuoi avi, e te la testificheranno [2]: come: Figlio mio, guarda di non iscordare questi miei insegnamenti, e custodisci quelle mie parole ammezzo il tuo cuore [3]: non che: Porgi le tue orecchie alle parole dei saggi [4]»; a me Peregrino [5], il minimo dei servi del Signore sembra, che mediante l'aiuto celeste sia per essere fatica di non dispregevole utilità, s'io m'accingo a scrivere quelle verità, che senza alterazione di sorta appresi dal santi Padri; e non ha certo dubbio, che ciò non sia necessarissimo alla mia propria fralezza, procurandomi per tal guisa un mezzo assai acconcio, onde aiutare la caducità della mia memoria, facilitandomene l'assidua lettura. Alla quale determinazione, non che il vantaggio della intrapresa, m'invita egli pure la natura del tempo, ed il riflettere alla opportunità di questo mio luogo. Perocchè ogni cosa umana venendo dal tempo rapita, è debito nostro il togliere alla nostra volta alcunchè d'utile ad esso per la vita eternale. E peculiarmente, ove il salutare timore del tremendo giudizio di Dio ci astringa a sempre maggior conoscenza di Religione, e la fraudolenta astuzia di sempre novelli eretici n'accenni ad essere non poco attenti e guardinghi. Ove poi consideriamo, che noi schifando il conversare ed il frastuono delle città scegliemmo di vivere in questa assai rimota villetta, ed in essa medesima un appartatissimo monastero; in cui, lungi dall'occasion di distrarci, si può attuare quant'è cantato ne' salmi: «State tranquilli e riconoscete, ch'io sono Dio [6]:» non manco a ciò concorrer vediamo lo scopo di nostra individuale risoluzione. [Ancor più con ciò s'accorda lo scopo di quello che ci siamo proposti. Lat: Sed et propositi nostri ratio in id convenit. N.d.R.]
Perocchè trovandoci già noi travolti in turbini molteplici e pericolose burrasche, ci riparammo per inspirazione divina nel porto della Religione, stato in ogni tempo sicurissimo a tutti; perchè qui spogliato il vanitoso e superbo fasto del secolo, e colle opere della umiltà placando il Signore, potessimo non soltanto sfuggire ai naufragi della vita presente, sibbene ancora il fuoco della futura. Ma qui do cominciamento al proposito mio; che è d'enunciare in iscritto con esattezza anzi di storico che spirito d'autore le verità a noi trasmesse e depositate dai nostri maggiori; ed ancora in ciò così diportandomi, che non tutte, ma sì rammemori le cose sol necessarie. Nè questo medesimo sono per fare con elegante e distesa maniera, ma con semplice e piana; cosicchè molte cose siano per sembrare anzi accennate, che non pienamente chiarite. Con copia ed accuratezza scrivan coloro, i quali per solidità d'ingegno, e per ragione d'uffizio a ciò sono chiamati. A me basta, che per aiutar la memoria, e più veramente per allontanare i pericoli della smemorataggine mia, mi sia provveduto d'un Commonitorio, che facendomi bel bello risovvenire le apprese verità, mi studi coll'aiuto divino d'ogni giorno perfezionare, ed al suo compimento condurre. A tal fine ho voluto pure questo indicare, perchè venendo esso alle mani de' cristiani, per emenda da me promessa vedendolo da limarsi, non censurino in esso cosa con prematuro giudizio.

CAPO II.

Alla Sacra Scrittura è da aggiungere l'autorità della Chiesa, onde la verità dalla falsità possa conoscersi.

1. Domandando io spesso e con grande instanza ed impegno da moltissimi personaggi chiari per dottrina e per santità, con quale sicura e generale e legittima regola discernere io potessi la verità della Cattolica fede dagli errori della eretica prevaricazione; sempre, o quasi sempre ne riportai questa assai chiara risposta: S'altri voglia conoscere le frodi dei ribellanti eretici, schivarne i lacciuoli, e coll'aiuto divino intenda a perseverare nella veracità ed integrità della Fede ortodossa, a conseguirlo ha mestieri d'un duplice appoggio; dell'Autorità, vale a dire, delle sacre Scritture, e della Tradizione della Chiesa cattolica [7].
2. A questo tratto altri forse potrebbe dirci: Essendo perfetto il Canone della divina Scrittura, e sufficientissimo ad ogni qualsiasi verità; perchè dovremo asserir necessaria l'autorità della ecclesiastica interpretazione? È chiarissima la ragione s'altri rifletta, che non tutti saprebbero per la loro profondità interpretare le Sacre Scritture in uno stesso genuino ed identico senso; ed anzi così variamente se ne possono le sentenze contorcere, che quanti hanno uomini, tanti, quasi dissi, significati se ne possano dedurre. [... che quanti sono gli uomini, altrettanti sono i significati che si possono dedurre dalle Scritture. Lat. ... ut pene quot homines sunt, tot illinc sententiae erui posse videantur. N.d.R.] E Novaziano in un modo, in un modo Fotino, in un modo Sabellio, e Donato, ed Ario, ed Eunomio, e Macedonio, ed Apollinare, e Priscilliano, e Pelagio, e Celestio, e Nestorio ce le vogliono esporre [8]. È quindi essenziale al mantenimento della verità, ed alla conoscenza di tanti e tanto svariati ravvolgimenti dell'errore, che l'indirizzo della profetica ed apostolica sapienza venga regolato secondo l'infallibil giudizio della Cattolica Chiesa [9].

CAPO III.

È da porre gran cura a ritenere nel fatto della Fede ciò che in ogni tempo, e che da tutti è stato sempre creduto.

3. Ed in essa Chiesa Cattolica è da guardare, che si tenga fermamente come principio di vera credenza quello, che dappertutto, che sempre, e da tutti è stato creduto come di fede. Imperocchè è ciò veramente Cattolico, come la forza della stessa parola ci esprime, che tutte le verità comprende senza eccezione di sorta. E siffatta cattolicità sarà tenuta da noi, ove seguitiamo la universalità, l'antichità, e la unanimità [10]. E seguiremo certamente la universalità, qualora noi confessiamo quella essere l'unica e vera fede, che tutta la Chiesa in tutto il mondo professa; l'antichità, ove noi punto non ci scostiamo dal sentire professato e dichiarato dai santi nostri Padri e Maggiori; la unanimità finalmente, se nella medesima antichità noi consentiremo colle definizioni ed i placiti di tutti, o quasi tutti i vescovi e dottori di santa Chiesa [11].
4. Come dovrà comportarsi il Cristiano cattolico, ove una frazione si stacchi dalla universale credenza della Chiesa? La risposta è assai risoluta e recisa. Egli dovrà certo preporre la salute di tutto il corpo al taglio d'un membro contagioso e corrotto. Cosa dovrà egli poi fare, se una peste novella attenti attaccare e corrompere, non che una piccola parte, tutta, del pari, la Chiesa [12]? In tal caso osserverà quale dottrina abbia la priorità di tempo, la quale non può mai travisarsi per nessuna frode di novatori. [Lat. Quid si novella aliqua contagio non jam portiunculam tantum, sed totam pariter Ecclesiam commaculare conetur? Tunc item providebit, ut antiquitati inhaereat, quae prorsum jam non potest ab ulla novitatis fraude seduci. N.d.R.] Come potrà regolarsi, ove in essa l'antichità [= ove nella stessa antichità, lat. si in ipsa vetustate N.d.R.] vegga l'errore di due o di tre persone, o d'una città, od anche d'una intiera provincia? In tale emergenza avrà cura d'opporre i vetusti, e generali placiti della Chiesa alla temerità ed alla ignoranza dei pochi. Che strada finalmente sarà d'uopo egli batta, ove insorga non mai altre fiate ventilata quistione? Studierassi in tal caso di consultare e meditare, tra loro collazionandole, le dottrine degli antichi; di quelli intendiamo noi bene, i quali avvegna vivuti [= benchè vissuti N.d.R.] in tempi diversi, ed in località disperate, essendo pure eglino stati perseveranti nella comunione e nella credenza dell'unica Chiesa Cattolica, si chiarirono intemerati maestri di lei; e tenga egli di dover credere con ogni certezza non ciò, ch'uno, o due solamente difendono; ma quanto con chiarezza, proposito ed asseveranza hanno tutti ugualmente convenuto di credere, scrivere, ed insegnare. Ed affinchè ciò che finora dicemmo rendasi più evidente e palpabile, stimiamo doverlo meglio esplicar con esempi, ed alquanto più largamente trattare; perchè la soverchia concisione e precipitanza di dire non vizino le ragioni delle discusse dottrine.
[Lat.: In ipsa item catholica Ecclesia magnopere curandum est, ut id teneamus, quod ubique, quod semper, quod ab omnibus creditum est. Hoc est etenim vere proprieque catholicum; (quod ipsa vis nominis ratioque declarat), quod omnia fere universaliter comprehendit. Sed hoc ita demum fiet, si sequamur Universitatem, Antiquitatem, Consensionem. Sequemur autem Universitatem hoc modo; si hanc unam fidem veram esse fateamur, quam tota per orbem terrarum confitetur Ecclesia: Antiquitatem vero ita, si ab his sensibus nullatenus recedamus, quos sanctos majores ac patres nostros celebrasse manifestum est: Consensionem quoque itidem, si in ipsa vetustate, omnium vel certe pene omnium sacerdotum pariter & magistrorum definitiones sententiasque sectemur. Quid igitur tunc faciet Christianus catholicus, si se aliqua Ecclesiae particula ab universalis fidei communione praeciderit? Quid utique nisi ut pestifero corruptoque membro sanitatem Universi corporis anteponat? Quid si novella aliqua contagio non jam portiunculam tantum, sed totam pariter Ecclesiam commaculare conetur? Tunc item providebit ut Antiquitati inhaereat; quae prorsum jam non potest ab ulla novitatis fraude seduci. Quid si in ipsa Vetustate, duorum, aut trium hominum, vel certe civitatis unius, aut etiam provinciae alicujus error deprehendatur? Tunc omnino curabit ut paucorum temeritati vel inferentiae, si qua sunt universaliter antiquitus universalis Ecclesiae decreta praeponat. Quid si tale aliquid emergat ubi nihil hujusmodi reperiatur? Tunc operam dabit ut conlatas inter se Majorum consulat interrogetque sententias; eorum dumtaxat qui diversis licet temporibus & locis, in unius tamen Ecclesiae catholicae communione & fide permanentes, magistri probabiles exstiterunt: & quidquid non unus aut duo tantum, sed omnes pariter uno eodemque consensu, aperte, frequenter, perseveranter tenuisse, scripsisse, docuisse cognoverit, id sibi quoque intelligat absque ulla dubitazione credendum. Sed ut planiora fiant quae dicimus, exemplis singillatim illustranda sunt, & paullo uberius exaggeranda; ne immodicae brevitatis studio, rerum pondera orationis celeritate rapiantur. N.d.R.]
5. Ai tempi di Donato [13], onde i Donatisti, [= da cui (ebbero origine) i Donatisti, lat. a quo Donatistae N.d.R.] essendosi una gran parte dell'Africa precipitata nei furiosi errori di lui [14], ed avendo posto in non cale la realtà della religione, e la fede del nome cristiano, alla autorità della Chiesa di Gesù Cristo opponeva la sacrilega temerità di solo un uomo: allora tutti, che di quella regione aderirono al consenso di tutte le chiese del mondo, detestando l'empio e profano scisma di Donato, eglino soli potettero salvarsi nei sacri penetrali della Fede Cattolica; lasciando per contegno [= come buona regola di comportamento, lat. bono more N.d.R.] siffatto egregio esempio agli avvenire, come a tutto buon dritto debba anteporsi la saviezza di tutti alla stoltizia d'uno, o di pochi.

CAP. IV.

Per l'esempio dell'ariana perfidia si mostra in quanta calamita induca l'errore.

6. Allora quando la venefica dottrina degli Ariani [15] non pure una piccola porzioncella del cristianesimo, ma aveva quasi tutto contaminato il mondo quant'era; poichè quasi tutti i vescovi d'Occidente, chi per argomenti di forza brutale, chi per fraude volpina tratti in errore, sorse una folta caligine a tale ottenebrare le menti da appena poter conoscere in tanto tramestio di cose, che dovesse seguirsi. Pure a quel tratto chiunque trovossi essere amatore e vero adoratore di Gesù Cristo, preferì alla novella dottrina i dettati dell'antica credenza, nè venne per nulla infettato del contagio di quella lurida peste. Ciononostante la sperienza di quel lasso di tempo ebbe mostrato assai chiaro di quali e quante calamità sia causa lo spargere di novelle dottrine. Imperò allora [lat. tunc siquidem, giacchè allora N.d.R.] non solo si videro correr pericolo affari di leggiere momento, ma quelli sibbene d'importanza gravissima. Nè i parentadi pure, le clientele, le amicizie, e desse le famiglie [= e le stesse famiglie N.d.R.] furono poste in dissoluzione e scompiglio; ma le città, i popoli, le provincie, le nazioni, tutto insomma il romano imperio ne fu scommosso, e dalle sue fondamenta scassinato e disconcio. Poichè mancipatosi primamente la sacrilega innovazione esso medesimo l'imperatore [16], [= Poichè la sacrilega innovazione, assoggettatosi per primo lo stesso Imperatore... Lat. Namque cum profana ipsa Arianorum novitas... capto primo omnium Imperatore N.d.R.] ed aggiogatisi i più alti dignitari del palazzo [17], quasi furia infernale tutto sovvertire e malmenar volle, le cose private e le pubbliche, le sacre e profane; nè avendo risguardi a buono ed a vero, s'accinse a percuotere e balestrare da alto chi meglio le talentasse. Si videro allora contaminate le spose, strappato il lutto alle vedove, violate le vergini, i monasteri atterrati, violentati i cherici, percossi i diaconi, i vescovi sbandeggiati; popolati di santi gli ergastoli, le carceri, le miniere; interdette lor le città, si videro esuli rincacciarsi ne' deserti, nelle spelonche, tra le fiere e le catapecchie, e di fame, di sete, di nudità macerati e consunti finire. E tutto questo avvicendarsi di mali e di barbarie qual altra causa esso ebbe, che la caponaggine di volere soppiantare un principio divino per porvi a sua vece la superstizione d'un uomo? Il quale con iscelleratissima innovazione pretese di distruggere la bene avvisata antichità, violare le primordiali istituzioni, rovesciare il consenso dei Padri, spiantare i placiti dei maggiori, per isfrenata libidine di novità non contenersi nei limiti purissimi della sacra ed incorrotta antichità. Ma qui forse alcuno vorrà rimbeccarci, che per odio di novità ed amore d'antichità tali cose fingiamo. Chi per tal modo noi tiene a sospetto, ascolti e presti almeno fede al beatissimo Ambrogio, il quale scrivendo all'imperatore Graziano, e deplorando l'acerbità di quei tempi siffattamente si esprime [18]: «Già assai, o Dio onnipossente, espiammo col nostro sperpero, e sangue [lat. nostro exitio nostroque sanguine, colla nostra rovina (dispersione), e col nostro sangue N.d.R.] le stragi de' confessori, gli esterminî fatti de' sacerdoti, la nefandezza di sì profonda empietà. Assai c'è manifesto, che non possono passarsene impuniti coloro, che la vera fede violarono.... Conserviamo adunque gli ordinamenti de' nostri Maggiori, non infrangiamo colla inconsideratezza di rozza e stolta audacia i testamentali sigilli. Non le Potestà, non gli Angeli, non gli Arcangeli ardirono schiudere quel suggellato libro profetico [19]; la prerogativa d'aprirlo e di dichiararlo a Cristo solo fu riserbata. Chi di noi ardirà di dissigillare il libro sacerdotale sigillato dai confessori [20], e già consacrato da tanti martiri? Cui quelli, che furono coartati [21] a dissigillare, condannata in seguito l'altrui frode, risigillarono; e quelli ne divennero confessori e martiri, che non ardiron violarlo. Come noi potremo negare la fede di quelli, il cui trionfo lodiamo?» Lo lodiamo sì certo, o venerabile Ambrogio, e lodandolo l'ammiriamo. Imperò chi vivracci così dappoco, il quale, comechè nol vaglia, non nudra per lo men desiderio d'imitare coloro, ch'a ribellar dalla fede non valsero coercizioni, non minacce o blandizie; [Chi ci sarà di così dissennato che non desideri almeno imitare, sebbene sia incapace di farlo, coloro che non furono stornati dalla difesa della Fede nè da coercizione, nè da minacce, nè da lusinghe... Lat. Nam quis ille tam demens est qui eos, etsi adsequi non valeat, non exoptet segui, quos a defensione fidei majorum nulla vis depulit, non minae, non blandimenta... N.d.R.] non isperanza di vita, non temenza di morte, non pretorio o scherani, imperatore od imperio; non uomini, non finalmente demonî? Coloro, io diceva, cui Dio in guiderdone del loro attaccamento alla osservante antichità giudicò suoi acconci strumenti a ristorare chiese abbattute, ravvivar popoli estinti alla fede, raccogliere le assemblee sacerdotali distratte, infuso dall'alto un fonte di sincere lagrime ai vescovi, cancellare quelle nefande non lettere, ma scorbiature della novella empietà, richiamar finalmente poco men del mondo universo, ripercosso ed agitato da crudele ed improvveduta bufera ereticale, dalla nuova perfidia all'antica credenza, dalla nuova follia all'antica saviezza, dalla nuova cecità all'antico vedere [22].

CAP. V.

I santi Confessori hanno sempre difeso ciò, ch'era tenuto dalla universalità della Chiesa.

7. Ed in questa divina virtù dei confessori è soprattutto a considerare da noi, che di quella stessa antichità della Chiesa non fu tolta per essi a proteggere una parte soltanto, ma tutta quanta era la lei universalità. [Ma ciò che dobbiamo porre in risalto in una tale divina virtù che i confessori hanno praticato è questo, che cioè essi presero a difesa non una parte soltanto ma l'insieme di quella stessa Tradizione della Chiesa. — Sed in hac divina quadam confessorum virtute illud est etiam nobis vel maxime considerandum, quod tunc apud ipsam Ecclesiae vetustatem non partis alicujus sed universitatis ab iis est suscepta defensio. N.d.R.] Nè era possibile, che tali personaggi e sì ponderati seguissero con tanto strepito le vaghe opinioni d'uno o due uomini, ed in opposizione a quanto eglino avevano appreso e insegnato, combattessero per tale un pazzo intendimento d'alcuna provinciuola; sibbene assai naturale, che seguissero le credenze e definizioni dei vescovi tutti ed eredi della santa Chiesa apostolica e della cattolica verità, ove scelsero anzi di perdere la propria vita, che rinnegare l'antica universalità della fede. Per la qual cosa salirono a tanta onoranza, che non che confessori, s'abbiano a tutto buon diritto per principi dei confessori [23]. È pertanto magnifico e tutto affatto divino, e degno d'essere da tutti i veri cattolici con assidua meditazione avvisato questo esempio di que' beatissimi personaggi, i quali a guisa di settemplice candelabro splendenti dalla settenaria luce dello Spirito Santo, tracciarono una indicatissima norma, onde al sopravvenire della vanità d'ogni stolto ragionamento, non si esiti ad opporre l'autorità dell'antica e sacra Tradizione alla petulanza dell'innovazione profana, ed a rintuzzarne l'audacia.
9. E siffatto contegno come non fu mai nuovo nella Chiesa, così non vedrassi mai vieto; e sempre si vide in lei, che quanto più altri fosse pio, tanto maggiormente si mostrasse sollecito a rigettare le novelle invenzioni [24]. [Ed in ciò non v'è nulla di nuovo, giacchè fu sempre un valido costume nella Chiesa che, quanto più uno era pio, tanto più fosse sollecito a rigettare ogni novità. — Neque hoc sane novum. Siquidem mos iste semper in Ecclesia viguit, ut quo quisque foret religiosior, eo promptius novellis adinventionibus contrairet. N.d.R.] La storia ecclesiastica è piena a ribocco di tali esempi. Ma per non protrarre soverchio il nostro ragionamento, solo un qualche tratto noi rapporteremo, e scelto in ispecie dalla Sede Apostolica; onde vegga ciascuno più chiaro di essa la luce [= affinchè ciascuno veda più chiaro della stessa luce, lat. ut omnes luce clarius videant N.d.R.] con quanta energia, con quanta diligenza, con quanta perseveranza i successori de' santi Apostoli abbiano tutelato la integrità della affidata loro religione di Cristo [25]. Agrippino [26] adunque di veneranda memoria vescovo di Cartagine innanzi a tutti opinava, che dovessero ribattezzarsi coloro, i quali dagli eretici battezzati ritornassero in grembo alla cattolica Chiesa; opinione tuttaffatto contraria alla divina sanzione, alla ecclesiastica consuetudine universalmente osservata, al sentire di tutti i vescovi suoi colleghi, alle regole stabilite, ai placiti de' Maggiori. Il quale attentato cagionò mali di grave momento non solo per aver dato agli eretici un nuovo pretesto di sacrilegio; ma sì pure per avere aperto ai cattolici la via ad errare. Da ognidove pertanto reclamando tutti i vescovi, e tutti opponendosi, ognuno secondo suo potere, alla novità di tal fatto; Stefano papa di santa memoria [27], radunati i suoi colleghi a concilio, vi si oppose a preferenza di tutti [= innanzi a tutti, alla testa di tutti, lat. prae ceteris N.d.R.]; stimando, com'io credo, molto conveniente, lui dovere tanto maggiormente ogn'altro vincere nella tutela della vera fede, quanto più a tutti sovrastava per prerogativa di supremo potere [28]. E nella lettera per lui scritta in Africa sentenziò — Nulla doversi innovare, ma doversi tenere quanto fu dalla tradizione trasmesso. — Perocchè conosceva egli bene quel santissimo e savissimo uomo non altro consentire la ragionata pietà, se non che di trasmettere ai figliuoli il deposito delle verità con quella fedeltà, onde fu ricevuto dai padri. Nè stare a noi lo spignere ove vorremmo la religione, ma sì correre a noi dovere di seguirla, ov'essa intende a condurci; essere insomma proprio della cristiana sommissione ed osservanza nel fatto di religione non di tramandare ai posteri i proprii nostri trovati, ma di custodire le verità avute dai nostri Maggiori. Quale pertanto fu l'esito di tutta quella quistione? Quale lo consentiva la pratica universale. Si tenne la tradizione dell'antichità, la novita fu rigettata.
10. Ma che? mancarono forse allora patrocinatori a quella innovazione? Ebbe anzi tanta forza d'ingegni, tanta eloquenza d'oratori, tanto numero di propugnatori, tanto corredo di divina scrittura in modo esposta tutto nuovo o distorto, tanto sembiante di verità, ch'a me paia non sarebbesi potuta in alcun modo sventare tutta quella cospirazione, qualora in una controversia di tanta mole l'intruso, il protetto, ed anche lodato mestiere di novità non fosse nella propria debolezza venuto meno [... qualora in una controversia di tale importanza l'intrusa, protetta e lodata professione di novità non fosse venuta meno da sè nella propria debolezza, lat. ut mihi omnis illa conspiratio nullo modo destrui potuisse videatur, nisi sola tanti moliminis caussa ipsa illa suscepta, ipsa defensa, ipsa laudata novitatis professio destituisset. N.d.R.]. Che avvenne infine del Concilio Africano [29]? Quale forza n'ebbero i decreti? Niuna, la Dio mercè. Quanto esso ordinava fu tenuto in luogo di sogni e di favole; restò cosa d'inutile ingombro; invecchiò nello stesso suo nascere; e piuttosto ch'abolito, fu calpestato.

CAP. VI.

Gli eretici hanno in vezzo di produrre l'errore di qualche santo personaggio.

11. Meravigliosa inversione di cose! Gli autori di quella opinione sono avuti cattolici, eretici i loro seguaci [30]; i maestri sono assoluti [= assolti N.d.R.], son condannati i loro discepoli; gl'inventori di quella opinione saranno per sempre eredi del regno di Dio, i patrocinatori di lei saranno condannati per sempre alla fossa del fuoco. Qual uomo infatti saravvi di senno così perduto da sol dubitare, che quello splendidissimo lume dei cristiani universi, dei vescovi e martiri, il beatissimo san Cipriano non sia in compagnia de' suoi colleghi a regnare in eterno con Gesù Cristo? o chi saravvi di così perduta coscienza da negare, che i Donatisti, ed altre pesti ereticali [31], che vanitosi vantando di ribattezzare nell'autorità di quel Concilio, non abbiano a bruciare col demonio in eterno? Il quale giudizio a me pare avvenga per divina disposizione, che vuol denudare la volpina frode di quelli, che volendo con un autorevole nome imbellettare l'error che molinano [... di coloro che volendo imbellettare con un autorevole nome l'eresia che stanno macchinando... lat. qui quum sub alieno nomine haeresim concinnare machinentur N.d.R.], vanno razzolando quanto havvi di più oscuro nei dettati d'alcun antico personaggio, che sembra nella sua oscurità d'espressione di favoreggiare gli erronei loro principii; e così apparisca in ciò ch'essi vanno asserendo, nè i primi essere, nè i soli. La costoro nequizia io giudico degna sia detestata per doppio rispetto; tra perchè attentano di instillare in altrui il veleno de' loro errori, e perchè quasi disseppellendo i resti di qualche santo personaggio sacrilegamente n'abusano l'autorità, e risuscitandone i pensamenti propalano ciò, ch'era bello seppellir nel silenzio. Pure in questo operare seguaci a capello del loro maestro Cam [32], il quale non solo omise di ricoprire la nudità del venerando suo padre Noè, ma pure indicolla ad altrui a farne oggetto di beffa. Per lo quale reato d'offesa pietà tanto demeritò da restar pure vincolati i suoi posteri nella maledizione della sua colpa [33]; dissomigliante a grandissimo intervallo da' suoi santi fratelli, i quali nè coi propri sguardi vollero svergognare la nudità del venerabile lor genitore, nè restasse esposta agli altrui; sibbene, come leggiamo nella Genesi, lui ritroso, accostatisi lo ricoprirono [... ma, come sta scritto, rivolti altrove (cioè muovendosi all'indietro per non guardarlo), lo ricoprirono, lat. sed adversi, ut scribitur, texerunt eum N.d.R.]. Lo che vuolne significare, che nè approvarono e nè divulgarono il mancamento dell'uomo santo; e quindi furono ne' loro posteri benedetti [34]. Ma torniamo al proposito nostro.
12. Con grande timore adunque noi dobbiamo schivare il delitto di cangiata od alterata credenza; da cui a tenerci lontani non che la disciplina di tutta la Chiesa, n'avvisa pure l'autorità dell'Apostolo. A tutti è noto con quanta gravità e severa veemenza inveisca il santo apostolo Paolo contro a certuni [35], i quali con indicibile leggierezza eransi straniati dalle immutabili verità dell'Evangelio, onde erano stati chiamati alla fede di Gesù Cristo; ed i quali [36] secondo le proprie tendenze si avevano moltiplicato i maestri; ed allontanando le orecchie dalla verità, le avevano poste a favolose invenzioni; attirandosi così la condanna d'aver fatta vana per quanto da lor dipendeva la fede già innanzi appresa [37]. Furono codesti tratti in inganno da tali, onde scrisse lo stesso Paolo ai Romani [38]: «Io poi vi prego, o fratelli, che abbiate gli occhi addosso a coloro, che pongono dissensioni ed inciampi contro la dottrina, che voi avete apparata, [= appresa, imparata, lat. praeter Doctrinam quam ipsi didicistis N.d.R.] e ritiratevi da loro. Imperocchè questi tali non servono a Cristo Signor nostro, ma al proprio ventre; e colle melate parole, e coll'adulazione seducono i cuori de' semplici. I quali s'intrudono per le case [39], e schiave menano delle donnicciuole cariche di peccati, mosse da varie passioni; che sempre imparando non giungono mai alla scienza della verità .... Chiacchieroni [40] e seduttori che mettono a soqquadro tutte le case, insegnando cose, che non convengono, per amore di vile guadagno...» Uomini di mente guasta, e reprobi alla Fede... [41] superbi ed ignoranti, e che pure si ammalano per dispute e questioni sofistiche di parole [42]; i quali sono stati privati della verità, e vanno pensando, che la pietà sia vendereccia, ed oziosi s'ausano a girar per le case; e non che oziosi ciarlieri sono puranco e indagatori, parlano di cose non convenevoli, e rigettando da sè ogni testimonio di buona coscienza naufragarono in rispetto alla Fede; e dei quali i discorsi profani e bugiardi molto acquistano nell'empietà, e come gangrena vanno serpendo [43]. [= i cui discorsi profani e bugiardi s'avvantaggiano assai dell'empietà insinuandosi come cancrena, lat. quorum profana vaniloquia multum proficiunt ad impietatem, et sermo eorum ut cancer serpit. N.d.R.]
Ma egli l'Apostolo assai bene di loro conchiude [44]: «Non anderanno più avanti, conciossiachè si farà manifesta a tutti la loro stoltezza; come fu già quella di Gianne e di Mambre.» Andando pertanto attorno per le provincie e le città, ed in esse spargendo i venderecci loro errori, giunsero nella provincia de' Galati; uditili questi vennero in certa una nausea della verità; sicchè vomitando la manna dell'apostolica e cattolica dottrina, toglievan diletto nelle immondezze dell'eretica novità, per la qual cosa tale mostrossi l'autorità del mandato apostolico, che sentenziasse con somma severità: «Ma quand'anche noi [45], od un angelo del cielo evangelizzi a voi oltre quello, ch'abbiamo a voi evangelizzato, sia anatema». Perchè dice l'Apostolo: quand'anche noi? e perchè non dice piuttosto quand'anche io? Ecco cosa vaglia una tale espressione: Quand'anche Pietro, Andrea, Giovanni, tutti in una parola gli Apostoli vi evangelizzassero oltre quello, ch'io vi ho già evangelizzato, siano anatematizzati. Tremenda condanna! a propugnare la stabilita Fede già una volta insegnata non la persona sua stessa, non risparmiò quella di tutti gli altri Apostoli. Ma questo gli parve anche poco, e perciò soggiungeva: Quand'anche un Angelo dei cielo vi evangelizzi oltre quello, che noi evangelizzammo, sia anatema.
Non gli parve abbastanza d'avere fatto menzione della umana natura, ond'assicurar la custodia della Fede già ricevuta, s'egli ancora non vi comprendesse l'angelica altezza. Perciò non vogliamo si tolga nel senso, che gli angeli del cielo possan peccare; poichè l'Apostolo non vuol dire ciò, che non è possibile ad accadere; ma per indicare senza esclusione di sorta, che chiunque si consideri scomunicato senza guardare al luogo che occupa, il quale attenti ad alterare la già ricevuta verità della Fede. [Non quia sancti coelestesque angeli peccare jam possint; sed hoc est quod dicit: Si etiam, inquit, fiat quod non potest fieri, quisquis ille traditam semel fidem mutare tentaverit, anathema sit. N.d.R.]
13. Ma forse ciò disse egli inconsideratamente, e si espresse per impeto umano, anzi che sentenziare con giudizio divino? Lungi da noi pensamento siffatto; dacchè in tal sentenza egli prosiegue, ed insinua e perseverantemente inculca con solenne apparato [= con grande energia, lat. ingenti molimine N.d.R.]: «Come v'abbiamo già detto, ed ora nuovamente vi dico: s'altri vi evangelizzi oltre a quanto avete già apparato [oltre a quanto avete già ricevuto, lat. praeterquam quod accepistis N.d.R.], sia anatema». Non disse: Se vi annunzierà oltre a ciò ch'apparaste sia benedetto, sia lodato, sia ricevuto; ma sia anatema. Che è quanto a dire separato, allontanato, escluso dalla vostra comunione; affinchè il contagio venefico d'una sola pecora non contamini per effetto di comunanza il gregge incorrotto. Nè è a dire ch'a solo quei di Chiangiare [anche Chiangara, provincia dell'Anatolia corrispondente all'antica Galazia. N.d.R.] egli tali cose ordinasse; come a soli loro non intendeva prescrivere quanto nell'epistola stessa in appresso soggiunse [46]: «Se viviamo in spirito, camminiamo in ispirito. Noi siamo avidi di gloria vana, provocandoci gli uni a gli altri, ed invidiandoci scambievolmente». Perocchè sarebbe egli assurdo asserire [che] questi precetti, che intendono al buon costume, non si dirigessero a tutti; c'è d'uopo quindi conchiudere, che quelli, i quali riguardano la Fede, sono a tutti indirizzati ugualmente; e come la provocazione e l'invidia non sono lecite ad uomo, così a niuno del pari è lecito in fatto di Fede ammettere oltre quello, che sempre insegnò la Cattolica Chiesa.
14. E che? comandavasi allora forse di scomunicarsi chiunque avesse predicato opposto a ciò, ch'era stato già predicato, ed ora non ha vigore lo stesso precetto? Colla stessa ragione potrebbesi dire, che il precetto di camminare in ispirito, e di non assentire al fomite della carne, allora solo i cristiani astrignesse, ed ora per noi più non esista. [oggi ahinoi accade proprio questo! N.d.R.] E se credere siffattamente non meno sarebbe empio che scellerato, ne viene per induzione legittima, che dovendosi in tutti i tempi e da tutti i cristiani eseguire quanto concerne il costume, così per sempre e per tutti siano scritti gli ordinamenti spettanti alla Fede. Annunziare pertanto ai cattolici oltre quello, ch'appresero della verità ortodossa, non fu, non è, non sarà lecito mai, ed è convenuto, conviene, converrà sempre maledire a coloro, i quali alcunchè annunzino oltre ciò, che già è stato consegnato alla Chiesa. Per quali esposte ragioni chi saravvi di sì sfrontata arditezza, ch'annunzi cosa, che non fu annunziata alla Chiesa? O di sì incredibile leggerezza, che creda cosa, che non crede la Chiesa? Quel Vaso d'elezione, quel Maestro delle genti, quella apostolica Tromba, quel Banditore del mondo, quel Visitatore de' cieli grida a tutti, in tutti i tempi ed i luoghi, e gridando ripete, e colle sue epistole annunzia: Che s'altri predichi un domma novello, sia scomunicato. Ed ai cattolici gracidano certe rane, ronzano certi tafani, certe mosche di breve durata, come sono i Pelagiani ed altri di simil farina [47]: Garanti la nostra autorità, sorveglianza ed interpretazione, condannate ciò, che prima credevate; credete ciò, che prima condannaste, abiurate la vecchia fede, le istituzioni de' Padri, il deposito de' Maggiori; e ricevete.... Cosa? Sento ribrezzo a pur dirlo; dac[c]hè sono sì superbe e stolte invenzioni, che mi sembri non che asserirsi, non poterle senza delitto pur pronunziare per confutarle! [48]

CAP. VII.

Si mostra dalla Sacra Scrittura, perchè Dio permetta, che alcuni grandi uomini divengano nella Chiesa autori di novità.

15. Ma qui altri vorrà obbiettarci: Perchè dunque così sovente si permette per divina disposizione, che alcuni ragguardevoli personaggi, e costituiti anche in dignità nella Chiesa, insegnino ai Cattolici nuove dottrine? Inchiesta assai ragionevole, e degna le si risponda con molta accuratezza ed assai distesamente; ed alla quale è da soddisfare non certo col proprio ragionamento, sibbene coll'autorità della divina Scrittura, e col magistrale definir della Chiesa. Ascoltiamo pertanto Mosè, ed egli ne insegni, come uomini dotti, ed i quali pel dono della scienza dell'Apostolo sono detti profeti, si lascino alcuna vece propalare novelle dottrine; ciò che il vecchio Testamento osò appellare con dire allegorico dii stranieri; [= divinità straniere, lat. quae vetus Testamentum allegorico sermone deos alienos appellare consuevit N.d.R.] e ch'è a credere essere così quelle appellate, perchè negli Eretici sono le proprie opinioni in onore, come gli dii presso i gentili. Scrive pertanto Mosè: Quando si levi ammezzo il tuo popolo un profeta, o chi dica d'avere avuto in sogno visione [49]: cioè, un maestro nella Chiesa costituito, i cui discepoli, o uditori credano egli insegni in forza di qualche rivelazione: e predica alcun segno o prodigio, e succede quanto ha predetto. E certamente indicato un non so che grande maestro, e di tale e tanta scienza fornito, ch'a'suoi seguitatori appaia non che le naturali, ma conosca puranco le cose all'uomo superiori; quali poco più poco meno i loro seguaci vanno magnificando siano stati Valentino, Donato, Fotino, Apollinare, ed altri di simil cruscaglia. Che quinci? E ti dica: Andiamo, e seguiamo gli dii stranieri che tu ignoravi, e loro serviamo. Che sono gli dii stranieri, se non gli errori estranei alla vera dottrina, nuovi ed inauditi, che tu ignoravi? e loro serviamo, cioè, crediamoli, adoriamoli. Cosa finalmente conchiude? «Non ascolterai le parole di quel profeta, o sognatore che sia». E per quale ragione di grazia Dio non impedisce d'insegnar ciò cui pur d'udire interdice? «Perchè il Signore Dio vostro fa prova di voi, affinchè si faccia manifesto, se lo amiate, o no, con tutto il cuore, e con tutta l'anima vostra». È più chiara quinci della luce medesima la ragione, per che la divina economia permette alle volte alcuni maestri di chiese particolari insegnino certi nuovi loro dommi; che è appunto: «Perchè il Signore Dio vostro vi ponga in prova». Ed è certo una grande prova, quando colui che tu stimi profeta, e di profeti seguace, e dottore e difensore di verità, e che tu guardi con sommo affetto, alla improvveduta e con fraude instilli sacrileghi errori; i quali predominato dalla opinione dell'antecedente ammaestramento nè si tosto potresti conoscere, nè ti verrebbe facilmente fatto di condannarli, opponendovisi l'amore pel tuo vecchio maestro.
16. E qui altri richiederammi si dimostrino cogli esempii della Chiesa le asserzioni mosaiche. Troppo giusta domanda, e degna di pronta risposta. E per cominciare dai più vicini e più conosciuti; di qual gravità non istimeremo fosse la prova, quando l'infelice Nestorio [50], all'improvviso di pecora fatto lupo, fecesi a dilaniare la greggia di Gesù Cristo: quando queglino stessi, che n'erano morsi lo avevano tuttora per pecorella, e perciò più si mostrassero esposti alle morsicature di lui? E chi avrebbe sospettato di fatto, che un tal uomo, con tanta ponderazione dall'imperatore prescelto, da tutto il Clero con tanta sollecitudine secondato, sì facilmente potesse cadere in errore? E chi innalzandosi con grande affetto de' cristiani e sommo incontro del popolo [con sommo favore del popolo, lat. summo populi favore N.d.R.] amministrava ogni giorno la parola divina, ed i pericolosi errori degli Ebrei e Gentili, di quale specie e' si fossero, confutava? Come non avrebbe ognuno creduto insegnasse, predicasse, professasse costui la vera fede, quando vedevalo a perseguitare le bestemmie d'ogn'altra eresia, sebbene il facesse per più facilmente introdurre la propria? Ma verificavasi a questo tratto quanto ne volle avvertito Mosè: «Il Signore Dio vostro vi prova per far manifesto se veramente lo amiate». [Ma si verificava ciò che ci aveva detto Mosè: «Il Signore Dio vostro vi prova perchè manifestiate se veramente lo amiate o no.» Lat. Sed hoc erat illud quod Moyses ait: Tentat vos Dominus Deus vester si diligatis eum, an non. N.d.R.] E passandoci di Nestorio, il quale attirossi più ammirazione, che utile non si rese, e che per aura volgare più l'umano favore aveva fatto grande, che non la grazia divina: teniamo piuttosto discorso di quelli, che forniti d'egregie doti e di alacre attività, non furono di prova leggiere [= prova leggera, lieve N.d.R.] alle cattoliche genti. Per tal guisa a memoria dei nostri maggiori ricordasi aver tentato Fotino la Chiesa di Sirmio nella Pannonia [51]; ove con maravigliosa unanimità essendo stato promosso all'episcopato, e per alcun tempo cattolicamente adempiendo gli episcopali doveri, d'un tratto, simile al malvagio profeta e sognatore da Mosè già indicato, s'accinse ad insinuare nel popolo a lui confidato la superstizione degli dei stranieri, degli errori, cioè, al popolo ignoti. Ma ciò è d'uso in uomini di tal fatta; certo era di non leggiere nocumento il servirsi, ch'egli faceva di mezzi non comuni a commettere tanta nefandità. Imperocchè andava fornito di prepotente ingegno, e di vasta dottrina, come colui, il quale con pari facondia e precisione parlava e scriveva greco e latino; lo che fassi chiaro pe' suoi scritti, cui nell'una e nell'altra lingua promiscuamente dettò. Ma per buona loro ventura, le pecorelle di Cristo alla sua cura affidate, veglianti sulla purità della Fede Cattolica e molto guardinghe, ricordarono tosto le parole ammonitrici di Mosè; e sebbene non poco ammirassero la eloquenza del loro profeta e pastore, seppero cionnostante ravvisare la prova; e colui, che per lo innanzi seguitavano come capo della greggia, fuggirono poi come lupo rapace. Nè dall'esempio sol di Fotino; ma da quello pure d'Apollinare [52] apprendiamo il pericolo di codesta prova della Chiesa, e siamo in uno ammoniti ad usare sempre maggior diligenza nel custodire e conservare la Fede. Dacchè grandi incertezze ed imbarazzi egli ne' suoi uditori produsse; avendoli a tali addotti, chi altrove gli chiamasse l'autorità della Chiesa, altrove gli trascinasse il ragionare del maestro; e sospesi ed incerti non sapessero tra l'una e l'altra via a quale attenersi. [Giacchè costui fu cagione di grandi agitazioni, e di gravi angustie ai suoi discepoli: da una parte attraendoli l'autorità della Chiesa, e dall'altra richiamandoli la familiare conversazione col maestro, fra l'una e l'altra parte dubbiosi ed incerti fluttuando non sapevano neppur essi a qual partito più convenisse appigliarsi. Lat. Etenim ipse auditoribus suis magnos aestus et magnas generavit angustias; quippe cum eos huc Ecclesiae traheret auctoritas, huc magistri retraheret consuetudo, cumque inter utraque nutabundi et fluctuantes, quid potius sibi seligendum foret, non expedirent. N.d.R.] Nè era certo egli uomo da prendersi a gabbo. Anzi fu da cotanto da dovergli facilmente assentire. Imperò chi trovi potesse stargli a fronte per acutezza d'ingegno, facilità d'espressione, varietà di dottrina? Quante difformi eresie rintuzzasse ne' suoi molti trattati, quanti errori infesti alla Fede abbia egli sbarattato, siane indizio quell'opera eccellentissima e voluminosissima di non manco di trenta libri, onde con ingente apparato d'argomenti d'ogni maniera sventa e confonde le stolte calunnie dell'arrogante Porfirio [53]. Travaglio di lunga lena sarebbe qui ricordare tutte le opere sue, per le quali egli sarebbesi alzato uguale ai sommi edificatori di santa Chiesa; qualora la sacrilega sfrenatezza d'eretica curiosità non gli avesse fatto produrre quella certa sua novità, per cui la dottrina di lui ai cristiani servisse anzi di prova, che di sostegno. Altri qui forse richiede, ch'io gli noveri le eresie di Nestorio, Apollinare e Fotino, i quali or or nominai; ma questa non è materia da svolgere a questo tratto del nostro ragionamento. Noi ci eravamo proposti non d'esporre di ciascuno gli errori, sibbene per l'esempio d'alcuni chiarir vera a tutta evidenza l'asserzione mosaica; chè qualora un dottore od espositore ecclesiastico cerchi d'intrudere alcunchè di nuovo nella Chiesa di Dio, interpretando i profetali misteri, dobbiamo ciò credere permesso per nostra prova dalla provvidenza divina.

CAP. VIII.

Si espongono gli errori di Nestorio, di Fotino e d'Apollinare.

17. Stimiamo pure non disutile cosa esporre con brevità le sentenze degli eresiarchi suddetti. Fotino adunque sostiene, ch'è in Dio sola persona, e che dessi in lui credere secondo la dottrina giudaica; [... e che si deve credere in lui secondo la dottrina giudaica; lat. Dicit Deum singulum esse et solitarium et more Iudaico confitendum; N.d.R.] nega la Trinità; nè esservi dice le persone del Verbo e dello Spirito Santo. Cristo asserisce poi semplice uomo, e nè prima esistito, che di Maria conceputo fosse; ed insiste a tutta sua possa noi dovere onorare la sola persona di Dio Padre, e Cristo venerare come semplice creatura. È questa la somma dell'eresia di Fotino. Apollinare poi ostenta di credere nella Unità della natura, e Trinità delle divine Persone; ma questo stesso egli fa con lesione di Fede; dachè apertamente bestemmia contra la Incarnazione del Signore. Va egli asseverando, che il corpo del Salvator nostro o d'anima fosse privo, o questa priva di ragionamento e di volontà. A ciò arroge [= a ciò s'aggiunga N.d.R.], che la carne del Signore non fosse tolta altrimenti della sostanza della Vergine Maria, ma che dal cielo nella Vergine discendesse; e non mai in un proposito fermo, ora la stessa carne a Dio Verbo coeterna, ora dalla divinità del Verbo medesimo asserivala estratta. Imperocchè non consentiva in Gesù Cristo due sostanze distinte, l'una divina e l'altra umana; l'una del Padre, della Madre l'altra; e la natura stessa del Verbo stimava divisa, e, quasi dissi, spezzata, come s'altra parte di lui in Dio rimanesse, ed altra venisse in carne transustanziata; cosicchè mentre la vera Fede insegna in due sostanze essere in Cristo una sola persona; opponendosi egli alla Fede insegnava d'una stessa divinità di Cristo essere state formate due sostanze. Nestorio poi, con pestilenza a quella d'Apollinare contraria, in quella [= mentre, lat dum N.d.R.] mostra distinguere in Cristo due diverse sostanze, ne fa senza più due distinte persone, e con iscelleraggine non più udita vuole due figli di Dio, e due Cristi; Dio l'uno, e l'altro uomo; l'uno ab eterno generato dal Padre, generato l'altro dalla Madre nel tempo. Quindi asserisce non doversi la beata Vergine Maria dire Teotoco, cioè, Madre di Dio; ma Cristotoco, cioè, Madre di Cristo; [Atque ideo asserit, Sanctam Mariam non Θεοτόκον, Χριστοτόκον esse dicendam N.d.R.] come se di lei non fosse nato Cristo Dio, ma sì Cristo uomo. Che s'alcuno credesse, ch'egli ne' suoi scritti asserisse un solo Cristo, o che predichi in Cristo una sola persona, si mostrerebbe assai dolce [= ... non si faccia persuadere così facilmente, lat. Quod si quis eum putat in litteris suis unum Christum dicere et unam Christi praedicare personam, non temĕre credat N.d.R.]. Poichè o macchinò per arte l'inganno d'insinuare mediante espressioni in apparenza rette le sue fallaci dottrine, onde avverasi quanto dice l'Apostolo [54]; «Per mezzo di cosa buona il peccato manipolò a me la morte»; od in alcuni luoghi pertanto de' suoi dettati fa pompa di credere, come accennammo, un solo Cristo ed una la persona di lui nella mira di trarre in agguato, od ebbe certo intendimento d'accennare che dopo il parto della Vergine siffattamente s'amalgamassero in Cristo due persone, che dica pure essere stati due Cristi od al tempo del concepimento o nell'istante, o poco dopo il parto della Vergine stessa; cosicchè il Cristo semplice uomo primamente e solo sia nato, e non peranco associato al Verbo di Dio nell'unità della persona, e sia quindi discesa in lui la persona del Verbo assumente; e sebbene ora rimanga assunto all'altezza della gloria di Dio, pure fu tempo, ove non è stata differenza d'esistere tra lui, ed il comune degli uomini.
18. Con siffatte bestemmie latrano come cani rabbiosi contro alla Cattolica Fede Nestorio, Apollinare, Fotino: questi: negando la Trinità: Apollinare dicendo mutabile la natura del Verbo, e negando in Cristo due diverse nature, o facendo Cristo senz'anima, o questa priva di volontà e d'intelletto, asseverando supplire loro il Verbo di Dio: dicendo Nestorio esservi sempre stati due Cristi, ed esservi stato tempo, che furono. Ma la Cattolica Chiesa ortodossamente credendo di Dio, e del Salvatore nostro, non bestemmia nè contra il mistero della Trinità, nè contra l'economia dell'Incarnazione del Verbo. Poichè ella venera una Divinità nella interezza della Trinità, ed in una e medesima Maestà l'uguaglianza delle divine Persone; ed in pari tempo confessa uno essere Gesù Cristo, e non due, ed egli medesimo Dio essere ed uomo insieme. Riconosce in lui una sola Persona, ma due diverse nature; crede in lui due nature, perchè non è mutabile il Verbo di Dio da essere in carne cangiato; una sola Persona, perchè ammettendo due figli non mostri d'adorare la quaternità in luogo della Trinità.

CAP. IX.

Si dimostra come in Gesù Cristo sia dualità di natura ed unità di persona; in Dio trinità di Persone ed unita di natura.

19. Ma fa mestieri, che questo soggetto medesimo per quanto si estendono le forze nostre più partitamente e chiaramente esplichiamo [55]. In Dio è una sola sostanza, e sono tre sussistenze o Persone; in Cristo due Sostanze o nature, ed una sola Persona o supposito. Nella Trinità ha distinzion di Persona e non di Natura; nel Salvatore nostro Gesù Cristo distinzion di natura e non di persona. Dachè nell'Augustissima Trinità altra è la persona del Padre, altra la persona del Figlio, altra la persona dello Spirito Santo; sebbene una ed identica sia la natura in esse tre divine Persone. Come ha nel Salvatore distinzion di natura e non di persona. Perchè diversa è la sostanza della Divinità, diversa quella dell'Umanità; ma la Divinità ed Umanità ipostaticamente congiunte non formano due sussistenze distinte; ma uno ed individuo Cristo, uno ed individuo Figliuolo di Dio, ed una individua Persona d'uno stesso ed individuo Cristo e Dio Figlio. Come appunto nell'uomo altra cosa è il corpo ed altra l'anima; pure l'anima ed il corpo formano uno stesso ed individuo uomo. In Pietro ed in Paolo, a cagione d'esempio, altra cosa è l'anima ed altra il corpo; nè emergono perciò due Pietri, o due Paoli; ma sì un solo Pietro ed un solo Paolo, sussistenti delle due diverse sostanze anima e corpo. Così appunto in uno stesso ed individuo Cristo sono due nature, divina l'una, ed umana l'altra; una procedente per eterna generazione da Dio Padre, l'altra formata della sostanza di vergine Madre; una coeterna ed uguale al Padre, l'altra avuta nel tempo, minore del Padre; l'una consustanziale al Padre, l'altra consustanziale alla Madre; ma sussistente uno ed individuo Cristo nella doppia sostanza. Non è diverso ed altro perciò il Cristo Dio dal Cristo Uomo; non altro l'increato dal creato, l'impassibile dal passibile, l'uguale al Padre dal minore del Padre, il generato ab eterno dal generato nel tempo; ma uno stesso identico Cristo Dio ed Uomo; lo stesso l'increato e creato; lo stesso l'immutabile ed impassibile, e il cangiato e sofferente; lo stesso l'uguale ed il minore del Padre; lo stesso il generato dal Padre ed il generato di Madre; perfetto Dio e perfetto Uomo; perfetta Divinità in quanto è Dio, perfetta Umanità in quanto è Uomo. Che è quanto a dire, che ha anima e corpo. Corpo reale, della nostra natura, della sostanza materna; ed anima dotata d'intelletto, di volontà, e di ragionamento. Concorrono pertanto in Cristo il Verbo, l'Anima ed il Corpo; ma tuttociò è un solo Cristo, un solo Figliuolo di Dio, un solo Salvatore e Redentor nostro. Uno solo non già in forza di corruttibile amalgama di divinità, e di umanità; ma per una perfetta ed assoluta unità di Persona. Poichè nè quel congiungimento delle due nature convertì l'una nell'altra, nè cangiò, come bestemmiano gli Ariani [56]; ma per tal foggia univa l'una e l'altra in una medesima sussistenza o personalità, che, restando in Cristo l'unità di persona, eterna rimanga pure la proprietà di ciascuna natura. Onde non mai Dio sarà per essere corpo, nè tampoco sarà mai che il corpo lasci d'essere tale. Lo che pur dimostrasi dall'esempio dell'economia dell'uomo, perocchè non solo nella vita presente, ma ancora dopo la risurrezione nella vita futura gli uomini tutti d'anima e di corpo saranno composti; nè però sarà mai, che il corpo nell'anima, o questa in quello convertasi, o transustanzi; ma dovendo ciascun uomo vivere eternamente, in ciascun uomo per necessità di natura permarrà eterna la discrepanza delle due sostanze, ond'egli è composto.
20. Ma proferendo assai spesso la parola persona, e dicendo che Dio si fece uomo, conservando un solo supposito, dobbiamo diligentemente avvertire di non parere di dirlo, che Dio Verbo per semplice imitazione od apparenza d'azione togliesse [= prendesse N.d.R.] la umana natura [57]; [Quando però noi nominiamo assai spesso il termine persona e diciamo che Dio si fece uomo per ragione della persona (cioè a motivo del supposito ossia dell'ipostasi, unione della umana e della divina natura nella persona del Divin Verbo, per la quale egli è Dio ed Uomo, ovvero Uomo-Dio), è assai da temersi che non sembriamo voler asserire, che Dio Verbo per semplice imitazione od apparenza d'azione prendesse l'umana natura; Lat. Sed quum personam saepius nominamus, et dicimus quod Deus per personam homo factus sit vehementer verendum est, ne hoc dicere videamur quod Deus verbum sola imitatione actionis quae sunt nostra susceperit, N.d.R.] ed abbia figurato d'operare, e non abbia realmente adempiuto tutto quanto risguarda il suo conversare tra gli uomini; come appunto suole avvenire sulle scene teatrali, dove un solo individuo figura varie persone, ed egli non è alcuna di esse. Perciocchè quantunque veci s'imprende ad imitare gli altrui fatti, [Poichè, ogniqualvolta si interpreti un personaggio imitando gli atti altrui, lat. Quotiescunque etenim aliqua suscipitur imitatio actionis alienae... N.d.R.] così si rappresentano le funzioni ed opere altrui, che gli attori non siano queglino stessi, ch'elli fingono d'essere. Nè, per usare gli esempi de' profani e de' Manichei, un comico è sacerdote nè re, qualora rappresenta la persona di sacerdote, o di re; poichè fornita la teatrale rappresentazione, finisce egli pure di parer la persona, cui sulla scena rappresentava. Lungi da noi il pensiero di sì nefanda ludificazione, e sì scellerata. Sia tutta propria de' Manichei siffatta stoltizia; i quali fattisi predicatori di fantasmagoria, dicono il Figliuolo di Dio abbia tolto figura d'uomo, e non umana sostanza, e fingesse d'essere uomo con tale un conversare ed un agire suppositizio. Ma insegna la fede Cattolica così essersi fatto uomo il Verbo di Dio, che non a ludificare e per immagine, ma con verità e propriamente abbia egli assunto la nostra natura. E le azioni umane non come a lui estranee imitasse, sibbene come sue proprie adempisse, e ciò, ch'egli operava, fosse fatto reale, e non sembianza di fatto. Siccome noi in quanto parliamo, conosciamo, viviamo, esistiamo, non figuriamo d'essere, ma veramente siamo uomini. Imperciocchè Pietro e Giovanni, ch'io nomino a cagion d'onore, non erano uomini, perchè fingessero d'esserlo, ma perchè veramente lo erano. Così pure Iddio Verbo nell'assumere e nell'avere carne, e parlando e operando, e senza alterazione della divina natura nella carne patendo, degnossi d'operar tuttociò non per sembrare d'essere uomo, o per simularlo; ma sì per contestare d'essere tale; non perchè paresse o fosse riputato uomo; ma sì perchè era veramente e sussisteva uomo. Quindi come l'anima unita al corpo, nè perciò conversa in materia, non finge la persona dell'uomo, ma è in realtà uomo, e lo è non in apparenza, ma sostanzialmente; così pure Iddio Verbo, senza alterazione della propria, unendosi alla umana natura, non transustanziando l'uomo, non simulandolo, si fece uomo; ma sussistendo ipostaticamente, cioè, personalmente nell'uomo. Si rigetti tutt'affatto quindi l'intendimento di quella personificazione, ch'assumesi fingendone gli atti; ove si è continuamente diverso da quello, che mostrasi d'essere; ove quegli che opera non è mai quegli, di cui rappresenta la immagine. Lungi da noi l'empia supposizione, che Iddio Verbo abbia voluto assumere in così ingannevole modo la natura d'uomo; ma sì invece fermamente crediamo, che restando egli immutabile nella sua divina sostanza, ed assumendo nella sua personalità la natura d'uomo perfetto, egli avesse vera carne, fosse vero uomo; e non suppositizia, ma vera egli avesse la umana natura; non imitativa, ma sostanziale; non tale infine ch'all'azione esterna si limitasse, ma tale ch'onninamente s'individuasse in una sostanza operante e permanente. E questa unificazion di persona in Gesù Cristo non fu operata e perfezionata dopo il parto della Vergine Maria, ma sì nell'atto stesso della ineffabile incarnazione, nel seno stesso di lei.
21. Perocchè dobbiamo noi porre attenzione precipua a confessare non solo, che Cristo è una sola persona; ma ancora che fu sempre una sola persona; essendo esecrabile bestemmia il sostenere che un tempo fosse egli due persone, avvegna [= benchè N.d.R.] ora concedasi essere una sola; una, cioè, dopo l'epoca del suo battesimo, due all'opposto al tempo della sua nascita. Il quale immane sacrilegio noi non potremo certo altramente fuggire, se non confessando unito l'Uomo a Dio in unione ipostatica, o di persona, non già dal tempo di sua ascensione, o risurrezione, o battesimo; ma sì fin da quando era nel seno materno, fino dal primo istante del suo verginale concepimento. In virtù della quale unione personale senza far differenza e distinzione di sorta si attribuiscono all'Uomo azioni proprie di Dio, a Dio le operazioni della umana natura [58]. È quindi scritto nella divina parola [59] il Figliuolo dell'uomo essere disceso dal cielo, essere stato in terra crocifisso il Signor della gloria [60]. È perciò stesso, che fatta e creata la carne del Signore, dicasi pure fatto esso stesso il Verbo di Dio, essa la Sapienza di Dio ricolmata di scienza creata; come pure si dicono ad un modo stesso trafitti da chiodi i piedi e le mani di Dio. Per questa unità di persona, ed in ragione di siffatto mistero s'avvera egli pure, che nascendo in carne il Verbo da vergine Madre, cattolicissimamente lo stesso Dio Verbo si creda nato da una Vergine, ed impissimamente si nieghi. Per le quali ragioni non abbiaci chi osi frodare la beatissima Vergine Maria dei privilegi a lei dalla divina grazia largiti, e d'una gloria tutta propria di lei. Conciossiachè per tale uno special privilegio del Signore Dio nostro, e per benefizio del suo figliuolo è ella da dirsi con assoluta e rigorosa proprietà di termine Teotoco, cioè Madre di Dio. Non in quel senso, onde opina una certa setta eterodossa [61], la quale asserisce doversi Maria dire di solo nome Madre di Dio; per la ragione che diede in luce quell'uomo, che fu quindi innalzato all'esser di Dio, come appunto sogliamo appellar madre d'un prete, o d'un vescovo una donna, non perchè abbia partorito un prete od un vescovo, ma perchè generava un tale, che divenne poi prete, o divenne vescovo. Non così, io ripeto, dessi [= devesi N.d.R.] Maria Vergine chiamare Teotoco; ma sì per la ragione che erasi effettuato, come sopra dicemmo, nell'intemerato suo seno quel sacrosanto mistero, onde per tale una singolare e tutta sua propria unità di persona il Verbo assumendo carne fu Uomo, e l'uomo assunto dalla persona dei Verbo fu Dio.
[CONTINUA]

NOTE:

[1] Questa parola è di bassa latinità; significa promemoria o istruzione del mandante commessa al mandatario. La usarono Ammiano, Simmaco, il Codice Teodosiano, e s. Agostino nella sua ep. 129. L'autore dice al § 42 can. XX, che il Concilio d'Efeso era stato tenuto tre anni avanti al tempo, che egli scrivesse il suo libro; ma il Concilio suddetto fu celebrato l'anno 431: è da dire perciò, ch'egli scriveva il Commonitorio l'anno 434.
[2] Interroga patrem tuum, et annuntiabit tibi: maiores tuos, et dicent tibi. Deuteron. 32, v. 7.
[3] Fili mi ne obliviscaris legis meae, et praecepta mea cor tuum custodiet. Prov. 3, v. 1.
[4] Inclina aurem tuam, et audi verba sapientium. Prov. 22 v. 17.
[5] Si disputa dagli Eruditi intorno al vero titolo di questa Apologia, ed al nome di Peregrino assunto dal Lirinese. Noi crediamo l'abbia egli fatto per sentimento di modestia e di asceticismo. Perocchè avendo egli scelto vita monastica in una isoletta ed in luogo rimoto, come accenna in appresso, non volle manifestare al mondo il vero suo nome, ov'era di passaggio, e onde erasi tratto.
[6] Vocate et videte, quoniam ego sum Deus. Ps. 45, v. 10.
[7] Fino dai primi secoli della Chiesa si conosce esserle stato aggiunto il predicato di Cattolica, perchè fino dai suoi primordî si diffuse dovunque secondo osserva Ottato milevitano Libr. 2, p. 46. E così la chiama s. Ignazio martire nella sua lettera a quei di Smirne; Clemente Alessandr. Strom. lib. 7. Eusebio lib. 4, cap. 15 ed altri Padri dei primi secoli. Sant'Agostino nel lib. 1 dell'Oper. imperf. n. 75 all'evidenza dimostra convenirsi esclusivamente il nome di cattolici a quei cristiani, che tengonsi uniti alla Chiesa Romana.
[8] Tutti Eresiarchi insorti contro alla Chiesa circa il giro dei primi quattro secoli e mezzo; in appresso s'indicheranno i loro errori, ed il tempo in che visse ciascuno.
[9] Sulla infallibilità della Chiesa nelle sue decisioni intorno alla Fede, e sulla sua indefettibilità vi sono le promesse esplicite di nostro Signor Gesù Cristo; non che innumerevoli passi della Sacra Scrittura, e l'unanime consenso dei santi padri.
[10] Questa regola fissata dal nostro Apologista si è fatta celebre nella Chiesa per la sua esattezza ed intrinseca verità.
[11] Questo canone di vere credenza s'appoggia sulla tradizione universale formata dall'unanime consenso de' santi Padri, e sulla infallibilità promessa da Gesù Cristo ai Concili Generali.
[12] È da notare, che tutta la Chiesa non può errare, e che qui il nostro santo usa un'espressione iperbolica, come usò già san Girolamo, il quale disse dopo la sottoscrizione di 400 vescovi, tranne diciotto, alla formola ariana nel Concilio di Rimini, che il mondo tutto meravigliò di vedersi ariano. Lo che non fu certo, perchè Liberio rescisse quella formola, che taceva la parola Consostanziale; protestarono i vescovi non presenti a quel Concilio; ed i vescovi non sottoscrittori protestarono contro quella formola e le frodi d'Ursacio e Valente pessimi ariani, appena accortisi dell'inganno. E di fatto il Lirinese pone la correzionale — se possibile fosse.
[13] Due furono i Donati; uno vescovo delle Case-nere in Numidia, e l'altro detto Donato Magno, che i vescovi del partito di Maiorini sostituirono a questo. Morto Mensurio arcivescovo di Cartagine, gli fu dato per successore Ceciliano, Borto, Celestio, e Lucilla gli suscitarono contro i vescovi della Numidia, capitanati dal detto Donato delle Case-nere, i quali ordinarono Maiorino; sicchè gli scismatici da principio non furono chiamati Donatisti, ma sì di parte di Maiorino; e solo dopo la morte di costui si nominarono da Donato Magno. E non solo costoro furono scismatici, ma sì ancora eretici, perchè oltre altri errori, sostenevano che la Chiesa, tranne loro, si era spenta dovunque; che i soli Giusti e non i peccatori erano membri di essa; tenevano per martiri anche i suicidi di loro parte. Insorsero sui principiare del quarto secolo.
[14] Circa l'anno 370 secondo n'attesta Ottato era maggiore in Africa il numero dei Cattolici, che non quello dei Donatisti, ma nel cedere del quarto secolo era maggiore la parte scismatica, come riferisce Possidio nella vita di s. Agostino cap. 7.
[15] Ario insorse a lacerare la Chiese sul principiare del quarto secolo; costui negava l'uguaglianza e la consustanzialità del Figliuolo col Padre, e l'autorità della Chiesa nel decidere in modo infallibile le controversie di Fede; aprì la via allo spirito privato, e disprezzò i decreti del Concilio Niceno. Non ci fu eresia, che come l'ariana sommovesse i popoli, animasse lo spirito di persecuzione, e largamente si distendesse. A chi pure a fior di labbra conosca la storia ecclesiastica, non parranno certo esagerate l'espressioni del nostro Apologista.
[16] Intende Costanzo partigiano stupidamente furioso dell'ariana eresia. Sant'Ilario vescovo di Poitiers gli scrisse contro l'anno 360. Pure s. Gregorio Nazianzeno nella sua Invettiva contro Siciliano scusa Costanzo, rovesciando l'odio delle sue persecuzioni contra i vescovi cattolici sopra i cortigiani. Ma Lucifero Cagliaritano, nel suo Libro di dover morire per amore del Figliuolo di Dio, rimprovera Costanzo d'avere popolato di vescovi le miniere, i luoghi acconci agli esilî, e di vessarli colla fame, colla sete, e colla nudità.
[17] Libr. de Fid. cap. 19.
[18] Lib. 3 de Fid. cap. 15.
[19] Apoc. 5. Et vidi Angelum fortem praedicantem voce magna: quis est dignus aperire librum, et solvere signacula eius? Et nemo poterat, neque in coelo, neque in terra, neque sub terram aperire librum, neque respicere illum.... Et unus de Senioribus dixit mihi: ne fleveris: ecce vicit leo de tribu Juda, radix David, aperire librum, et solvere septem signacula eius. — E vidi un Angelo forte che con voce grande esclamava: chi è degno d'aprire il libro, e di sciogliere i suoi sigilli? E nissuno poteva, nè in cielo, nè in terra, nè sotto terra aprire il libro, nè guardarlo... Ed uno de' Seniori mi disse: ecco il lione della tribù di Giuda, stirpe di Davide, ha vinto d'aprire il libro, e sciogliere i suoi sette sigilli.
[20] Erano onorati col titolo di Confessori quel cristiani, ch'avevano sofferto persecuzione per la Fede, ma avevano alla persecuzione sopravvivuto; ed erano martiri detti quelli, che morivano per la confessione di essa. Ma non di raro fu dato il nome di Martire a chi per la Fede esisteva tuttavia in carcere, nelle miniere, negli ergastoli, ed in altri luoghi di punizione, ed a chi nel corpo portava segno d'aver sofferto martirio. Quindi i Libelli de' Martiri per la diminuzione, o remissione delle canoniche penitenze.
[21] Qui s. Ambrogio accenna ai vescovi del Concilio di Rimini del 359, i quali furono costretti il giorno 10 d'ottobre per le intimidazioni di Costanzo a soscrivere la formola ariana già sopra indicata.
[22] Questi santi di cui volle Dio servirsi ad operar tanto bene furono i santi Atanasio, Ilario, Eusebio di Vercelli, ed Ambrogio. Dei quali primi tre così parla san Girolamo nel Dialogo contro i Luciferiani: «Allora l'Egitto ricevè il suo trionfatore Atanasio; allora la Chiesa delle Gallie abbracciò Ilario reduce vittorioso dalla pugna degli eretici: al ritorno d'Eusebio cambiò l'Italia le lugubri vesti». Ed all'anno XI di Graziano così s. Prospero parla nella sua Cronaca di s. Ambrogio: «Dopo la troppo tarda morte d'Aussenzio (costui fu vescovo ariano) creato Ambrogio vescovo di Milano, tutta Italia si converte alla Fede ortodossa». Qui s. Prospero intende dell'Alta Italia, cioè Insubria, Emilia, e Liguria: oggi quasi tutto il Lombardo-Veneto, la Romagna, ed il Genovesato con gran parte del Piemonte; ove più specialmente aveva progredito l'ariana empietà.
[23] Non avviene di raro, che gli antichi Scrittori ecclesiastici appellino Confessori anche gli stessi Martiri; come vediamo fare al nostro Lirinese.
[24] La Chiesa in complesso si è sempre opposta alle novità religiose; ed ebbe i suoi individuali campioni in ogni tempo, i quali raccolsero il guanto dei Novatori, lanciato contro di lei; e questi campioni lo più accoppiarono profondità e verità di dottrina a santità ed austerezza di vita. Basta conoscere anche mediocremente l'ecclesiastica storia per convincersi di questa verità. Ma i sommi Pontefici specialmente mai in questo vennero meno alla rappresentanza dell'altissima loro posizione.
[25] Checchè ne dicano gli Eterodossi; ciò, che disse di s. Leone Magno il Concilio ecumenico di Calcedone, che riconosceva, cioè, nel Pontefice Romano lo stesso Pietro che parla e sentenzia, è verità ricevuta da tutti i Padri della Chiesa fino dei primi tempi. Ved. Selvagg. Ant. christ. Libr. I cap. 16 § I et seq.
[26] Il secondo de' vescovi cartaginesi, di cui abbiamo memoria. Furono celebrati sotto di lui due Concilî provinciali. Il primo trattava di ribattezzare gli eretici, e si tenne sul principio del terzo secolo, a cui allude Tertulliano nel Libr. de Baptism. scritto dopo l'anno 200 dell'era cristiana. L'altro fu celebrato circa l'anno 215 ove si legge il canone, che proibisce ai chierici d'assumere tutela, o curatela: «Ne clericus ullus tutelam, curamve suscipiat».
[27] S. Stefano proibì la reiterazione del battesimo data dagli eretici secondo la riforma di Gesù Cristo [cioè la reiterazione del battesimo costituiva un'eresia che riformava l'insegnamento di Nostro Signore G. C. N.d.R.]. Quindi nel Concilio romano da lui tenuto l'anno 256 condannò i concilî africani, e specialmente quello nello stesso anno radunato da s. Cipriano, i quali ordinavano quella reiterazione. Perciò scrisse lettere assai forti in Africa, a Firmiliano, ad Eleno di Tarso, e ad altri vescovi. È quistione però fra gli eruditi ecclesiastici, s'egli decidesse questo punto come domma, o come disciplina; e scomunicasse i ribattezzanti, o solo comminasse loro la scomunica. Secondo Dionisio Alessandrino nell'epist. a Sisto stabilì non si comunicasse con quelli, che ribattezzavano. Il Concilio d'Arles, chiamato plenario da s. Agostino tenuto l'anno 314, ed il Niceno terminarono la controversia, decidendo secondo ch'aveva insegnato s. Stefano. Alcuni mettono in dubbio il contrasto di s. Cipriano con s. Stefano in tale materia; e s. Agostino nella sua epist. ad Vinc. ecco come conchiude a tale riguardo: «Porro autem aut Cyprianus omnino non sensit, quod eum sensisse recitatis, aut hoc postea correxit in regula veritatis, aut hunc quasi noevum sui candidissimi pectoris cooperuit ubere charitatis».
[28] Il primato non solo d'onore, ma anche di giurisdizione del Romano Pontefice è appoggiato all'autorità delle Scritture, alla Tradizione di tutta la Chiesa, alle definizioni de' Concili; e chi lo nega non solo è da dire scismatico, ma sì eretico pure.
[29] Accenna al Concilio Africano III che fu impugnato da s. Agostino lib. 2 e 3 de Baptism. contra Donatist.
[30] Perchè nei primi tempi della controversia la Chiesa non aveva ancora deciso su tal punto dommatico; sicchè i santi vescovi, che caddero nell'errore dei ribattezzanti, errarono per intelletto, non per volontà; quindi essi non furono eretici; ma lo furono quelli, che dopo la decisione della Chiesa sostennero lo stesso errore. Questo è il senso, onde vuolsi qui esprimere il nostro Apologista.
[31] Per le ragioni addotte nella nota antecedente, e per gli errori indicati nella nota 13 i Donatisti furono eretici.
[32] Ved. Gen. cap. 9.
[33] Noè non maledice il figliuolo Cam, ma sì il nipote Canaan; perchè in primo luogo non volle gettare la sua maledizione sopra un figliuolo, a cui Dio aveva data la sua benedizione poco prima: in secondo luogo veniva ad essere punito forse più sensibilmente il padre colla punizione del figliuolo; in terzo luogo ottimamente Noè rivolge con profetico spirito la sua maledizione contro di Canaan, perchè i posteri di lui, i Cananei, furono quelli, sopra de' quali per la loro empietà venne a verificarsi visibilmente questa maledizione, allorchè furono sterminati, e ridotti in dura schiavitù da' discendenti di Sem, o sia dagli Ebrei. Così la maledizione di Noè non è tanto una maledizione quanto una profezia. Martin. al cap. 9, v. 25 della Genes. [Martin. sta per Vecchio e Nuovo Testamento secondo la Volgata tradotto ed annotato da Mons. Antonio Martini (qui tomo I, Prato 1827 pag. 86 nota al vers. 25). N.d.R.] Molti interpreti aggiungono per quarta ragione, che Canaan si facesse compagno della derisione del padre, e che mostrasse fino d'allora la perversità d'un'indole incorreggibile.
[34] Fino a Noè la vigna non fa coltivata dagli uomini, e non ne fu estratto il prezioso liquore. Noè fece l'una e l'altra cosa; e non sapendo la forza del vino cadde per inesperienza in ebrietà; la quale da tutti i Padri è scusata da peccato. Nè è a dire, che molto bevesse quel sant'uomo; ma poco vino fece il suo effetto in chi non era uso a bere liquore di sorta.
[35] Gal. 1.
[36] 2. Tim. 4.
[37] 1. Tim. 5.
[38] Rom. 16. Rogo autem vos fratres, ut observetis eos, qui dissensiones, et offendicula praeter doctrinam, quam vos didicistis, faciunt; et declinate ab illis. Huiusmodi enim Christo Domino nostro non serviunt, sed suo ventri; et per dulces sermones, et benedictiones seducunt corda innocentium. [Rom. XVI, 17-18: «Io poi vi prego, o fratelli, che abbiate gli occhi addosso a quelli, che pongono dissensioni e inciampi contro la dottrina, che voi avete apparata; e ritiratevi da loro. Imperocchè questi tali non servono a Cristo Signor nostro, ma al proprio lor ventre: e con le melate parole e con l'adulazione seducono i cuori de' semplici.» N.d.R.]
[39] 2 Tim 3. Ex his enim sunt, qui penetrant domos, et captivas ducunt mulierculas oneratas peccatis, quae ducuntur variis desideriis. Semper discentes, et numquam ad scientiam veritatis pervenientes... [2 Tim. III, 6-7: «Imperocchè di questi sono coloro, i quali s'intrudono per le case, e schiave si menano delle donnicciuole cariche di peccati, mosse da varie passioni: le quali sempre imparando, non arrivano mai alla scienza della verità.» N.d.R.]
[40] Tit. 1. Sunt enim multi etiam inobedientes, vaniloqui et seductores... qui universas domos subvertunt, docentes quae non oportet, turpis lucri gratia... [Tit. I, 10-11: «Imperocchè vi sono ancora molti disubbidienti, chiacchieroni e seduttori... a' quali bisogna turar la bocca: che mettono a soqquadro tutte le case, insegnando cose, che non convengono, per amore, di vil guadagno.» N.d.R.]
[41] 2. Tim. 3. Homines corrupti mente, et reprobi circa fidem. [2 Tim. III, 8: «Uomini di guasta mente, reprobi riguardo alla fede.» N.d.R.]
[42] 1. Tim. 6.
[43] 2. Tim. 2.
[44] 2. Tim 3. Sed ultra non proficient: insipientia enim eorum manifesta erit omnibus, sicut et illorum (Jannes et Mambres) fuit. Costoro furono due maghi di Faraone, e i loro nomi si erano conservati per tradizione tra i Giudei. Il testo [greco] ha Giambre; ma Origene, il Talmud di Babilonia, ed un antico filosofo presso Eusebio hanno Mambre come nella nostra Volgata. Vedi Exod. 7 e 11 e Martin. nella 2 Tim. 3 v. 8. [2 Tim. III, 8-9: «Ma non anderanno più avanti: conciossiachè si farà manifesta a tutti la loro stoltezza, come fu già di quelli.» Martin. sta per Vecchio e Nuovo Testamento secondo la Volgata tradotto ed annotato da Mons. Antonio Martini (qui tomo XXV, Prato 1831 pag. 216 cfr. nota al vers. 8). N.d.R.]
[45] Sed licet nos, aut angelus de coelo evangelizet vobis praeterquam quod evangelizavimus vobis, anathema sit. Gal. 1. Con ciò dimostra l'Apostolo l'immutabilità della dottrina cristiana; la quale venendo da Dio, non può cangiarsi giammai; nè è lecito di aggiungervi o torvi cosa di sorta; e quando ciò si facesse o da un uomo, od anche, per impossibile, da un Angelo del cielo, contra un tal novatore fulmina Paolo la sua maledizione. Lo spirito Santo mandato da Gesù Cristo agli Apostoli insegnò per loro alla Chiesa tutte le verità appartenenti alla Fede. Queste verità si contengono esplicitamente od implicitamente nella Scrittura e Tradizione, e formano il prezioso deposito alla Chiesa confidato, e ch'ella ha incorrotto conservato e conserverà sino alla fine de' secoli, e chiunque pretendesse alterarvi col togliervi od aggiungervi cosa, ella separerà dalla sua comunione, com'ha sempre fatto dai suoi primordi fino a questi ultimi tempi; e come fino ai suoi dimostra il Lirinese. Nicea, Costantinopoli, Efeso, Calcedonia, Roma, Costanza, Firenze. Trento, ed altre città ricordano all'erudito cristiano la vigilanza indefessa della Chiesa nel custodire il deposito della Fede; perchè ricordano diciannove Concili generali, da lei tenuti contra le novità degli Eretici. Ved. Martin. [Vecchio e Nuovo Testamento secondo la Volgata tradotto ed annotato da Mons. Antonio Martini N.d.R.] nella Lett. ai Gal. cap. 1, v. 8.
[46] Gal. 5. Si spiritu vivimus, spiritu et ambulemos. Non efficiamur inanis gloriae cupidi, invicem provocantes, invicem invidentes. Da queste parole cominciano gli speciali avvertimenti, de' quali abbisognavano i Galati; e si può credere, che i mali, che prende di mira l'Apostolo fossero un effetto dello spirito di partito, e delle divisioni suscitate da falsi apostoli tra' Galati. Chi divide cristiano da cristiano non cammina secondo Gesù Cristo; chi divide la falsa dalla vera dottrina ha lo spirito di Gesù Cristo. Questa lettera fu scritta da s. Paolo da Efeso l'anno 36 dell'era crist. e 23 anni dopo la morte di Gesù Cristo. Si propone in essa di rintuzzare l'audacia de' malvagi, di difendere la dignità del suo apostolato, di provare l'accordo della sua dottrine con quella degli altri apostoli, di rivocare con testimonianze scritturali i sedotti dalla via dell'errore.
[47] Diede a costoro nome Pelagio monaco, nativo d'Inghilterra, che sul principio del V secolo insegnava, che l'uomo senza la grazia divina può ottenere il perdono de' peccati, osservare la legge di Dio, e conseguire la vita eterna. Dai Pelegiani vennero i Semipelagiani, i quali ammettevano bensì la necessità della Grazia, ma non già pel principio della salute; e dicevano inoltre, che la perseveranza e la elezione alla gloria possono ottenersi colle sole forze naturali, ed in virtù de' propri meriti; che alcuni bambini muoiono prima del Battesimo per la previsione del male, che sarebbero per fare vivendo. Pelagio ed i suoi seguaci furono condannati l'anno 416 da un Concilio di 300 vescovi celebrato a Cartagine, e confermato da Innocenzo I.
[48] Qui il nostro santo Apologista dimostra l'orrore, che dee risvegliare nell'animo d'ogni Fedele l'insorgere contro le verità rivelate. Nè schiva le difficoltà con questa bellissima reticenza, come gl'imperiti potrebbero sospettare; se guardisi al proposito suo. Egli si è assunto di dimostrare, che tutte le novità in fatto di Religione sono condannate dalla parola rivelata e dalla tràdita; ma ciò egli dimostra in piena evidenza; quindi viene indirettamente a confutare tutti gli errori, che furono, che sono, e che saranno. Giacchè per restarne ammirati e vedere la divina bellezza della Religione basta esporla nella limpidezza de' suoi principî, e per esclamare con La-Harpe Apolog. della Religione: «Essa è bella come il cielo, da cui è discesa; essa è grande come Dio, da cui emanò; essa è dolce come il cuore di Gesù Cristo, che ce l'ha apportata».
[49] Deuteron: cap. 13 v. 1 ad 3. Si surrexerit in medio tui propheta, aut qui somnium vidisse se dicat, et praedixerit signum, aut portentum, et evenerit, quod locutus est, et dixerit tibi: Eamus et sequamur deos alienos, quos ignoras, et serviamus eis: non audies verba prophetae illius, aut somniatoris; quia tentat vos Dominus Deus vester, ut palam fiat, utrum diligatis eum, an non, in toto corde, et in tota anima vestra. — Quando si levi su in mezzo al tuo popolo un profeta, ovver chi dica d'aver avuta visione in sogno, e predirà qualche segno, o prodigio, e succederà quello, ch'egli ha predetto, e dirà a te: «Andiamo, e seguiamo gli dei stranieri ignoti a te, e ad essi serviamo: non darai retta a quel profeta, o relatore di sogni; perchè il Signore Dio vostro fa prova di voi, affinchè si faccia manifesto, se lo amiate, o no, con tutto il cuore, e con tutta l'anima vostra». Con ciò Mosè conferma quanto aveva detto nel cap. 12 dello stesso libro di non aggiungere e non levare parola nella legge di Dio.
[50] Nestorio prima monaco alessandrino, poi prete antiocheno succedette a Sesinio nella Sede di Costantinopoli li 10 d'aprile del 428 per ispeciale provvedimento di Teodosio giuniore con applauso universale. Lo che è da vedere nella lettera di s. Cirillo a Teodosio, riportata alla 3 parte del Concilio Efesino. Costui insegnava in Cristo due persone, una divina e l'altra umana, come in appresso accenna il Lirinese, e quindi negava la divina maternità di Maria Santissima. Fu condannato l'anno 431 dal detto Concilio Efesino III ecumenico, ove furono presenti 200 vescovi. Nestorio eccitò la promulgazione della celebre legge di Teodosio contra gli Eretici sul finire di maggio del 428.
[51] All'anno 379 nella Cronaca d'Eusebio accresciuta da San Girolamo troviamo queste parole: «Fotino muore in Galizia, dal quale fu insegnato l'errore de' Fotiniani, e che pel morbo della superbia perdette molti beni di continenza e dottrina». Costui risuscitò gli errori d'Ebione; che negava la divinità di Gesù Cristo; non ammetteva la Trinità e la verginità di Maria SS. come in appresso dice il nostro s. Dottore. Ai quali errori si oppose nell'anno 66 s. Giovanni, scrivendo il suo Evangelio. Fotino fu vescovo di Sirmio, oggi Sirmich nella Schiavonia, gli inchiuse nella Pannonia, oggi Ungheria. Quella città è celebre per essere stata patria di Probo, di Valerio Massimo, di Costanzo II e di Graziano; come pure per le famigerate tre formole di Sirmiensi, ove tanto si travagliarono gli Eusebiani, o Semiariani, la prima dell'anno 351, la seconda del 357, e la terza del 359 e per le quali fu lacerata la fama di Liberio papa che sottoscrisse la prima ch'era di senso cattolico, e dove si condannava Fotino; e la sottoscrisse in esilio affranto da ogni sorta di travagli. Fu a Sirmio relegato Osio, il quale afflitto dai mali dell'esilio, e dell'età, dopo tante fatiche sostenute per la Fede Cattolica, e dopo essere stato confessore nella persecuzione di Diocleziano soscrisse una formola eretica in età d'anni cento l'anno 358. Questo gran vescovo di Cordova pianse poi la sua caduta, e morì da buon cattolico, come mostra Natale Alessandro al sec. IV.
[52] Al tempo dell'imp. M. Antonino fiorì Apollinare santo vescovo di Ierapoli, ora Bambusi in Soria. E i due Apollinari padre e figlio alessandrini vissero circa la metà del quarto secolo: i quali si condussero a Laodicea, ove era vescovo Teodato. Furono scomunicati da Giorgio succeduto a Teodato; altri dicono perchè fossero amici di Epifanio sofista gentile, altri perchè comunicassero con santo Atanasio, che di là passava per restituirsi in Alessandria; di che sdegnato Apollinare figlio cominciò a disseminare la sua eresia, il cui principale errore fu secondo Teodoreto di negare, che il corpo di Cristo fosse informato da anima ragionevole, volendo che la Divinità supplisse per essa; questo errore fu abbracciato da Viston protestante inglese. Informatone s. Damaso dai vescovi d'Oriente, (Teodoret. lib. 5, cap. 10 ) l'anno 373 ovvero 378, secondo il Valesio, dichiarò in un Concilio Romano l'eresia degli Apollinaristi aliena dalla Cattolica Fede, depose Apollinare dall'episcopato di Laodicea, in cui era succeduto dopo Giorgio, e scomunicollo insieme a Timoteo suo principale discepolo.
[53] Filosofo gentile del IV secolo; il quale sotto varie forme attaccò la Religione Cristiana. Il cavillo, la satira, il ridicolo, la calunnia, e la declamazione formano lo spirito dei suoi scritti anticristiani. Forse ebbe più vivacità di Voltaire, ma non gli cede nella leggerezza e nell'arzigogolo; mostra lo stesso odio ai sublimi principi del cristianesimo, e l'attacca colla stessa leziosità.
[54] Rom. 7. Per bonum mihi operatas est mortem. Nella Volgata v. 13 leggiamo: Quod ergo bonum est, mihi factum est mors? Absit. Sed peccatum, ut appareat peccatum, per bonum operatam est mihi mortem. «Una cosa, ch'è buona in sè stessa, cioè la legge; si fe' morte per me? No». Ciò non può essere mai: risponde l'Apostolo; ed altrove dice, che nella legge è da cercare la vera causa ed il vero principio di nostra morte, che è appunto il peccato. Qui il peccato significa la concupiscenza, o fomite del peccato. Martin. al cap. 7, v. 13. [Rom. VII, 13. Vecchio e Nuovo Testamento secondo la Volgata, tradotto e commentato da Mons. Antonio Martini, tomo XXIII, Prato 1831, pag. 388 in nota. N.d.R.]
[55] La presente professione di Fede intorno al mistero dell'Incarnazione e della Trinità non può desiderarsi nè più profonda e semplice, nè più teologica e chiara ad un tempo.
[56] Gli Ariani per meglio persuadere ai semplici, che il Verbo fosse di diversa sostanza dal Padre, asserivano avere patito nella carne, ed avergli servito d'anima quella divinità secondaria del Verbo; cosicchè secondo loro la divinità erasi convertita in umanità; poichè la facevano essere in Cristo in vece della forma sostantiva dell'uomo. Oltre il Lirinese, loro rinfaccia tale errore Leonzio de sect. Act. 3. s. Atanasio nel libr. de salut. Adv. e de Incarnat. Christ. e specialmente s. Ilario in tutto il libr. 10 de Trinit.
[57] Come appunto bestemmiavano i Manichei, i quali impognavano la realità della natura umana in Gesù Cristo.
[58] Le azioni di Gesù Cristo furono perciò dai Concilî e dai santi Padri chiamate teandriche, cioè, umano-divine.
[59] Io. 3. Et nemo ascendit in coelum, nisi qui descendit de coelo, Filius hominis, qui est in coelo. «Or nissuno ascese in cielo, se non colui, ch'è disceso dal cielo, il Figliuolo dell'uomo, che sta nel cielo». In queste parole abbiamo chiarissimamente indicata la distinzione delle due nature nel Verbo incarnato, e l'unità di persone.
[60] Si enim cognovissent, nunquam Dominum gloriae crucifixissent. 1. Cor. 2. «Se l'avessero conosciuta (la gloria), non avrebbero giammai crocifisso il Signor della gloria.» Dicendo l'Apostolo, che i falsi sapienti della nazione ebraica crocifissero il Signore, o il Dio della gloria viene a dimostrare 1. che in Gesù Cristo sono due nature, la divina e l'umana; ed in questa seconda natura egli patì, e fu crocifisso, non potendo la divina natura ai patimenti ed alla morte essere soggetta: 2. Che queste due nature sono in Cristo unite in una sola persona; per la quale unione si dice promiscuamente di Cristo quello, che all'una od all'altra d'esse nature conviene. Vedi Martin. al cap. 2, v. 8 della 1. ai Corint.
[61] Diversi Eresiarchi pronunziarono siffatta bestemmia per dedurne illazioni variamente erronee intorno alla economia dell'incarnazione, ed alla Persona di Gesù Cristo nostro signore. Ebione, Prassea, Manete, Paolo Samosateno, Ario, Apollinare, Fotino, Nestorio, Eutichete, ed altri bestemmiatori protervi attaccarono questo sacrosanto mistero a fine di stabilire i loro diversi errori.

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