Per non dimenticare: "Palermo non mi piaceva, per questo ho imparato ad amarla. Perché il vero amore consiste nell'amare ciò che non ci piace per poterlo cambiare". Paolo Borsellino
Venti anni fa, in Via d’Amelio a Palermo, un
attentato uccideva Paolo Borsellino e i cinque agenti della sua scorta,
Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e
Claudio Traina.
Io sono venuto questa sera soprattutto
per ascoltare. Purtroppo ragioni di lavoro mi hanno costretto ad
arrivare in ritardo e forse mi costringeranno ad allontanarmi prima che
questa riunione finisca. Sono venuto soprattutto per ascoltare perché
ritengo che mai come in questo momento sia necessario che io ricordi a
me stesso e ricordi a voi che sono un magistrato. E poiché sono un
magistrato devo essere anche cosciente che il mio primo dovere non è
quello di utilizzare le mie opinioni e le mie conoscenze partecipando a
convegni e dibattiti ma quello di utilizzare le mie opinioni e le mie
conoscenze nel mio lavoro. In questo momento inoltre, oltre che
magistrato, io sono testimone. Sono testimone perché, avendo vissuto a
lungo la mia esperienza di lavoro accanto a Giovanni Falcone, avendo
raccolto, non voglio dire più di ogni altro, perché non voglio
imbarcarmi in questa gara che purtroppo vedo fare in questi giorni per
ristabilire chi era più amico di Giovanni Falcone, ma avendo raccolto
comunque più o meno di altri, come amico di Giovanni Falcone, tante sue
confidenze, prima di parlare in pubblico anche delle opinioni, anche
delle convinzioni che io mi sono fatte raccogliendo tali confidenze,
questi elementi che io porto dentro di me, debbo per prima cosa
assemblarli e riferirli all'autorità giudiziaria, che è l'unica in grado
di valutare quanto queste cose che io so possono essere utili alla
ricostruzione dell'evento che ha posto fine alla vita di Giovanni
Falcone, e che soprattutto, nell'immediatezza di questa tragedia, ha
fatto pensare a me, e non soltanto a me, che era finita una parte della
mia e della nostra vita.
Quindi
io questa sera debbo astenermi rigidamente - e mi dispiace, se deluderò
qualcuno di voi - dal riferire circostanze che probabilmente molti di
voi si aspettano che io riferisca, a cominciare da quelle che in questi
giorni sono arrivate sui giornali e che riguardano i cosiddetti diari di
Giovanni Falcone. Per prima cosa ne parlerò all'autorità giudiziaria,
poi - se è il caso - ne parlerò in pubblico. Posso dire soltanto, e qui
mi fermo affrontando l'argomento, e per evitare che si possano anche su
questo punto innestare speculazioni fuorvianti, che questi appunti che
sono stati pubblicati dalla stampa, sul "Sole 24 Ore" dalla giornalista -
in questo momento non mi ricordo come si chiama... - Milella, li avevo
letti in vita di Giovanni Falcone. Sono proprio appunti di Giovanni
Falcone, perché non vorrei che su questo un giorno potessero essere
avanzati dei dubbi. Ho letto giorni fa, ho ascoltato alla televisione - in questo momento i
miei ricordi non sono precisi - un'affermazione di Antonino Caponnetto
secondo cui Giovanni Falcone cominciò a morire nel gennaio del 1988. Io
condivido questa affermazione di Caponnetto. Con questo non intendo dire
che so il perché dell'evento criminoso avvenuto a fine maggio, per
quanto io possa sapere qualche elemento che possa aiutare a
ricostruirlo, e come ho detto ne riferirò all'autorità giudiziaria; non
voglio dire che cominciò a morire nel gennaio del 1988 e che questo,
questa strage del 1992, sia il naturale epilogo di questo processo di
morte. Però quello che ha detto Antonino Caponnetto
è vero, perché oggi che tutti ci rendiamo conto di quale è stata la
statura di quest'uomo, ripercorrendo queste vicende della sua vita
professionale, ci accorgiamo come in effetti il paese, lo Stato, la
magistratura che forse ha più colpe di ogni altro, cominciò proprio a
farlo morire il 1° gennaio del 1988, se non forse l'anno prima, in
quella data che ha or ora ricordato Leoluca Orlando: cioè quell'articolo
di Leonardo Sciascia
sul "Corriere della Sera" che bollava me come un professionista
dell'antimafia, l'amico Orlando come professionista della politica,
dell'antimafia nella politica. Ma nel gennaio del 1988, quando Falcone,
solo per continuare il suo lavoro, il Consiglio superiore della
magistratura con motivazioni risibili gli preferì il consigliere
Antonino Meli. C'eravamo tutti resi conto che c'era questo pericolo e a
lungo sperammo che Antonino Caponnetto potesse restare ancora a passare
gli ultimi due anni della sua vita professionale a Palermo. Ma
quest'uomo, Caponnetto, il quale rischiava, perché anziano, perché
conduceva una vita sicuramente non sopportabile da nessuno già da anni,
il quale rischiava di morire a Palermo, temevamo che non avrebbe
superato lo stress fisico cui da anni si sottoponeva. E a un certo punto
fummo noi stessi, Falcone in testa, pure estremamente convinti del
pericolo che si correva così convincendolo, lo convincemmo riottoso,
molto riottoso, ad allontanarsi da Palermo. Si aprì la corsa alla
successione all'ufficio istruzione al tribunale di Palermo. Falcone
concorse, qualche Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro, e il
giorno del mio compleanno il Consiglio superiore della magistratura ci
fece questo regalo: preferì Antonino Meli.
Giovanni
Falcone, dimostrando l'altissimo senso delle istituzioni che egli aveva
e la sua volontà di continuare comunque a fare il lavoro che aveva
inventato e nel quale ci aveva tutti trascinato, cominciò a lavorare con
Antonino Meli nella convinzione che, nonostante lo schiaffo datogli dal
Consiglio superiore della magistratura, egli avrebbe potuto continuare
il suo lavoro. E continuò a crederlo nonostante io, che ormai mi trovavo
in un osservatorio abbastanza privilegiato, perché ero stato trasferito
a Marsala e quindi guardavo abbastanza dall'esterno questa situazione,
mi fossi reso conto subito che nel volgere di pochi mesi Giovanni
Falcone sarebbe stato distrutto. E ciò che più mi addolorava era il
fatto che Giovanni Falcone sarebbe allora morto professionalmente nel
silenzio e senza che nessuno se ne accorgesse. Questa fu la ragione per
cui io, nel corso della presentazione del libro La mafia d'Agrigento,
denunciai quello che stava accadendo a Palermo con un intervento che
venne subito commentato da Leoluca Orlando, allora presente, dicendo che
quella sera l'aria ci stava pesando addosso per quello che era stato
detto. Leoluca Orlando ha ricordato cosa avvenne subito dopo: per aver
denunciato questa verità io rischiai conseguenze professionali
gravissime, ma quel che è peggio il Consiglio superiore immediatamente
scoprì quale era il suo vero obiettivo: proprio approfittando del
problema che io avevo sollevato, doveva essere eliminato al più presto
Giovanni Falcone. E forse questo io lo avevo pure messo nel conto perché
ero convinto che lo avrebbero eliminato comunque; almeno, dissi, se
deve essere eliminato, l'opinione pubblica lo deve sapere, lo deve
conoscere, il pool antimafia deve morire davanti a tutti, non deve
morire in silenzio.
L'opinione
pubblica fece il miracolo, perché ricordo quella caldissima estate
dell'agosto 1988, l'opinione pubblica si mobilitò e costrinse il
Consiglio superiore della magistratura a rimangiarsi in parte la sua
precedente decisione dei primi di agosto, tant'è che il 15 settembre, se
pur zoppicante, il pool antimafia fu rimesso in piedi. La protervia del
consigliere istruttore, l'intervento nefasto della Cassazione
cominciato allora e continuato fino a ieri (perché, nonostante quello
che è successo in Sicilia, la Corte di cassazione continua
sostanzialmente ad affermare che la mafia non esiste) continuarono a
fare morire Giovanni Falcone. E Giovanni Falcone, uomo che sentì sempre
di essere uomo delle istituzioni, con un profondissimo senso dello
Stato, nonostante questo, continuò incessantemente a lavorare. Approdò
alla procura della Repubblica di Palermo dove, a un certo punto ritenne,
e le motivazioni le riservo a quella parte di espressione delle mie
convinzioni che deve in questo momento essere indirizzata verso altri
ascoltatori, ritenne a un certo momento di non poter più continuare ad
operare al meglio. Giovanni Falcone è andato al ministero di Grazia e
Giustizia, e questo lo posso dire sì prima di essere ascoltato dal
giudice, non perché aspirasse a trovarsi a Roma in un posto
privilegiato, non perché si era innamorato dei socialisti, non perché si
era innamorato di Claudio Martelli, ma perché a un certo punto della
sua vita ritenne, da uomo delle istituzioni, di poter continuare a
svolgere a Roma un ruolo importante e nelle sue convinzioni decisivo,
con riferimento alla lotta alla criminalità mafiosa. Dopo aver appreso
dalla radio della sua nomina a Roma (in quei tempi ci vedevamo un po'
più raramente perché io ero molto impegnato professionalmente a Marsala e
venivo raramente a Palermo), una volta Giovanni Falcone alla presenza
del collega Leonardo Guarnotta e di Ayala tirò fuori, non so come si
chiama, l'ordinamento interno del ministero di Grazia e Giustizia, e
scorrendo i singoli punti di non so quale articolo di questo ordinamento
cominciò fin da allora, fin dal primo giorno, cominciò ad illustrare
quel che lì egli poteva fare e che riteneva di poter fare per la lotta
alla criminalità mafiosa.
Certo
anch'io talvolta ho assistito con un certo disagio a quella che è la
vita, o alcune manifestazioni della vita e dell'attività di un
magistrato improvvisamente sbalzato in una struttura gerarchica diversa
da quelle che sono le strutture, anch'esse gerarchiche ma in altro
senso, previste dall'ordinamento giudiziario. Si trattava di un lavoro
nuovo, di una situazione nuova, di vicinanze nuove, ma Giovanni Falcone è
andato lì solo per questo. Con la mente a Palermo, perché sin dal primo
momento mi illustrò quello che riteneva di poter e di voler fare lui
per Palermo. E in fin dei conti, se vogliamo fare un bilancio di questa
sua permanenza al ministero di Grazia e Giustizia, il bilancio anche se
contestato, anche se criticato, è un bilancio che riguarda soprattutto
la creazione di strutture che, a torto o a ragione, lui pensava che
potessero funzionare specialmente con riferimento alla lotta alla
criminalità organizzata e al lavoro che aveva fatto a Palermo. Cercò di
ricreare in campo nazionale e con leggi dello Stato quelle esperienze
del pool antimafia che erano nate artigianalmente senza che la legge le
prevedesse e senza che la legge, anche nei momenti di maggiore successo,
le sostenesse. Questo, a torto o a ragione, ma comunque sicuramente nei
suoi intenti, era la superprocura, sulla quale anch'io ho espresso
nell'immediatezza delle perplessità, firmando la lettera sostanzialmente
critica sulla superprocura predisposta dal collega Marcello Maddalena,
ma mai neanche un istante ho dubitato che questo strumento sulla cui
creazione Giovanni Falcone aveva lavorato servisse nei suoi intenti,
nelle sue idee, a torto o a ragione, per ritornare, soprattutto, per
consentirgli di ritornare a fare il magistrato, come egli voleva. Il suo
intento era questo e l'organizzazione mafiosa - non voglio esprimere
opinioni circa il fatto se si è trattato di mafia e soltanto di mafia,
ma di mafia si è trattato comunque - e l'organizzazione mafiosa, quando
ha preparato ed attuato l'attentato del 23 maggio, l'ha preparato ed
attuato proprio nel momento in cui, a mio parere, si erano concretizzate
tutte le condizioni perché Giovanni Falcone, nonostante la violenta
opposizione di buona parte del Consiglio superiore della magistratura,
era ormai a un passo, secondo le notizie che io conoscevo, che gli avevo
comunicato e che egli sapeva e che ritengo fossero conosciute anche al
di fuori del Consiglio, al di fuori del Palazzo, dico, era ormai a un
passo dal diventare il direttore nazionale antimafia.
Ecco perché, forse, ripensandoci, quando Caponnetto
dice cominciò a morire nel gennaio del 1988 aveva proprio ragione anche
con riferimento all'esito di questa lotta che egli fece soprattutto per
potere continuare a lavorare. Poi possono essere avanzate tutte le
critiche, se avanzate in buona fede e se avanzate riconoscendo questo
intento di Giovanni Falcone, si può anche dire che si prestò alla
creazione di uno strumento che poteva mettere in pericolo l'indipendenza
della magistratura, si può anche dire che per creare questo strumento
egli si avvicinò troppo al potere politico, ma quello che non si può
contestare è che Giovanni Falcone in questa sua breve, brevissima
esperienza ministeriale lavorò soprattutto per potere al più presto
tornare a fare il magistrato. Ed è questo che gli è stato impedito,
perché è questo che faceva paura.
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La lotta alla mafia, il primo problema da risolvere nella nostra terra
bellissima e disgraziata, non doveva essere soltanto una distaccata
opera di repressione, ma un movimento culturale e morale che
coinvolgesse tutti e specialmente le nostre giovani generazioni, le più
adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa
rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell'indifferenza, della
contiguità e quindi della complicità. Ricordo la felicità di Falcone
quando in un breve periodo di entusiasmo egli mi disse: "La gente fa il
tifo per noi." E con ciò non intendeva riferirsi soltanto al conforto
che l'appoggio morale della popolazione dava al lavoro del giudice,
significava qualcosa di più, significava soprattutto che il nostro
lavoro stava anche svegliando le coscienze."
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