Per combattere l'eresia Gallicana che porta ad obbedire al Sommo Pontefice solo quando aggrada ai propri gusti, Fraternità San Pio X e i loro fiancheggiatori, proponiamo un bellissimo articolo della "Civiltà Cattolica" che dà una corretta interpretazione teologica sull'obbedienza che si deve al Sommo Pontefice della vera Chiesa Cattolica che ad oggi è assente per causa dei modernisti condannati che si sono appropiati, dal conciliabolo in poi, delle cariche ecclesiastiche, con il Papato alla sommità, riservate ai cattolici e non agli eretici che non fanno parte della Chiesa Cattolica...
La Civiltà Cattolica anno XXVIII, serie X, vol. I (fasc.
639, 20 genn. 1877), Firenze 1877
pag. 257-272.
R.P. Raffaele Ballerini d.C.d.G.
DELL'OBBEDIENZA DEI CATTOLICI AL PAPA
I.
Tra i pubblici discorsi, che il Santo Padre Pio IX fece sul cadere
dell'anno passato, il mondo cristiano accolse con più notabili
segni di plauso, come singolarmente opportuno, quello che egli
indirizzò al sacro Collegio dei Cardinali, ringraziandolo degli
ossequiosi augurii da questo portigli la vigilia del Natale. In esso di
fatto, dopo encomiati gli esempii di virtù che il sacro
Collegio dà splendidissimi, fra le angustie della persecuzione,
la quale, da sì lungo tempo affligge la Chiesa, venne a
ragionare dei nemici interni che a quest'afflizione sua concorrono e di
costoro disse: «Sono pochi; ma possono veramente chiamarsi
sediziosi, e unitamente agli esterni sono tutti spinti e animati dallo
spirito dell'orgoglio e della superbia; e tanto gli uni come gli altri
gridano e ripetono in diverso tono: Non
serviam». [Ier.
II, 20: «Non servirò.»
N.d.R.] Aggiunse poi
che questi nemici interni «assaltano la Chiesa con la voce e con
la penna, pubblicando stampe di maggiore o minor mole, ma che tutte
mirano a diminuire l'autorità della Chiesa. Sono stampe talvolta
anonime, ed escono dal buio di qualche salotto..... Scrivono e parlano
per conto proprio, non avendone la missione:
Ex semetipsis loquuntur, come
diceva Gesù Cristo medesimo de' farisei. [Cfr. Ioann.
VII, 18. Mons. Antonio Martini commenta: «Vers. 18. Chi parla di proprio suo movimento, ec.
Chiunque senza essere stato mandato da Dio si pone ad istruire gli
uomini, nol fa certamente, se non per acquistarsi gloria, o altri
umani vantaggi. Per lo contrario chi nel suo ministero dimenticando
totalmente se stesso, non altro cerca, che la gloria di Dio, costui
certamente è degno di fede, ed è incapace di tradire i
suoi uditori.» N.d.R.] E per conseguente
camminano alla cieca, nubes sine aqua,
[Iud. I, 12: «Nubi
senz'acqua» Mons. Martini commenta: «Nuvole,
che promettono in apparenza copiosa acqua di dottrina, ma sono sterili
e infeconde e facili ad essere portate a capriccio de' venti per loro
leggerezza.» N.d.R.]
predicando errori
in quantità. Parlano, ma non
possono dire col divino Maestro: Mea
doctrina non est mea, sed eius
qui misit me Patris».
[Ioann.
VII, 16: «La mia dottrina non
è mia, ma di lui (il Padre), che mi
ha mandato» N.d.R.]
Quindi, in nome suo e della Chiesa,
lament[a] il tradimento di questa sorta di nemici, con ricordare le
terribili parole: Filios enutrivi et
exaltavi, ipsi autem spreverunt
me [1]. [Is. I, 2.: «Ho
nutriti e esaltati dei figli: ed essi mi han disprezzato.» Il Discorso del Santo Padre al S. Collegio de' Cardinali ed al Patriziato romano del 24 dicembre 1876 fu pubblicato dall'Osservatore Romano n° 295 e dalla Civiltà Cattolica serie X vol. I, Firenze 1877 pag. 226-228.
N.d.R.]
L'impressione che da questo discorso, appena divulgatosi, i
cattolici
ricevettero fu grande; e si manifestò nei loro diarii, i quali
lasciarono pur trasparire una certa curiosità di conoscere
determinatamente le indeterminate allusioni che esso conteneva. Ma
oltrechè la cosa, a chi fuor di Roma vive, era difficile, ognuno
intese non doversi alzare i veli, con cui il Santo Padre avea
discretamente ricoperte le allusioni sue: e ciò molto più
che l'appagamento di una tale voglia non era punto necessario, per
comprendere l'importanza e l'opportunità della parola
pontificia. Chè già da lungo tempo, coloro i quali, con
occhio diligente, seguono quel che accade nel campo cattolico, venivano
osservando e deplorando l'astuto lavorio, esecrato dal Santo
Padre, per trarre il maggior numero possibile di fedeli alla pratica
del Non serviam, che è
l'impresa del campo nemico. Poco monta
che i tentatori si chiamino Tizio, Caio o Sempronio, sieno uomini o
sieno donne, si mostrino di un'intenzione o di un'altra, vestano un
abito od un altro, scrivano libri grossi o libretti minuti: il caso
è che l'opera di seduzione e di sedizione procedeva, non senza
danno dei pusilli e scandalo dei meno accorti. Non si trattava di
persone, ma di principii; e grandemente premeva che la malizia o la
scempiaggine dei seminatori di zizzania fosse, da chi ne ha
l'autorità, disvelata ai cattolici. E questo fece il Papa, nel
sopra mentovato suo discorso.
Ora tocca a ciascuno di noi cavarne il frutto che conviene. Il quale
sostanzialmente consiste nella vera obbedienza al Papa ed alla Chiesa,
che è l'antitesi perfetta del Non
serviam, gridato dagli
avversarii. E siccome costoro lo gridano pigliando le apparenze di una
certa ragionevolezza, così riputiamo bene spese due
franche parole, che sfatino l'equivoco o l'impostura.
II.
Questi sediziosi, conforme
il Santo Padre li ha qualificati, sono pure da lui detti nemici, perchè alzano
bandiera
opposta a quella della Chiesa; ma interni,
perchè protestano di
non voler essere dichiaratamente nè eretici, nè
scismatici, e di non voler
mai uscire dall'ovile di Gesù Cristo. Hanno varii nomi, o
meglio aggiunti, con cui adornano il loro titolo di cattolici, e se
li scambian tra loro con una carità che edifica. Di
sè poi fanno umilmente supporre cose le più magnifiche:
essi arche di scienza, essi intelletti superlativi, essi menti
illuminate ed illuminatrici al sommo grado. Dottrina e virtù
stanno di casa tra loro. Questo è il segno manifesto di quello
spirito di orgoglio e di superbia, dal quale il Pontefice li ha detti
animati. Ve n'ha persino alcuni che si son fitto in capo di avere una
specie di mandato da Dio, quale per dirigere il Papa nel governo della
Chiesa, e quale per salvare a dirittura Papato e Chiesa dal naufragio.
Vero è che questi ultimi, più presto che animati da
spirito di superbia, son da credere mal fermi di capo, e forse
più degni di compatimento, che di riprensione.
Tutti costoro sogliono comprendersi nella generica denominazione di
cattolici liberali, che sembra
sufficientemente propria, per questo che
li caratterizza in un punto, il quale è a tutte le varie loro
scuole o gradazioni comune; cioè la disubbidienza al Papa. Noi
ignoriamo che altri li abbia descritti meglio, di quel che fece
l'illustre barone d'Ondes Reggio, nel suo discorso al Congresso
cattolico di Firenze. «Cotesti
cattolici liberali, così
egli,
sono quelli i quali muovono dal dire, che ubbidiscono al Sommo
Pontefice, che dottore infallibile definisce le dottrine della fede e
della morale; ma possono non ubbidirgli in tutte le altre materie, su
cui egli decide. Per quello in cui ubbidiscono sono cattolici, per
quello in cui non ubbidiscono sono liberali.
Sono l'uno e l'altro
bellamente insieme armonizzati; inappuntabili pe' dettati della fede,
inappuntabili pe' dettati della ragione [2]».
Nella quale descrizione si trovan raccolte le radici, per
così
esprimerci, di tutti i sofismi o pretesti che costoro allegano, per
coonestare la loro disubbidienza, il Non
serviam che gridano al Papa ed
alla Chiesa.
III.
Alcuni, più teologizzanti degli altri, pretendono di pesare
colle bilance dell'orafo il diritto che ha il Papa, in quanto maestro
della Chiesa, di essere obbedito dai fedeli; ed il conseguente obbligo
che hanno questi di professargli obbedienza: ma ciò colla lente
all'occhio. E poi che cosa ne deducono? Che l'obbligo vero e stretto
di quest'obbedienza, da loro chiamata necessitas
fidei, si estende
unicamente alle definizioni ex
cathedra, aventi tutti e singoli i
requisiti indicati dal canone del Concilio vaticano; ma non punto al
resto, che è oggetto della così detta da loro pietas
fidei. Rigorosamente adunque non ricercasi dai cattolici che la
necessitas fidei; quantunque
sia da lodare la pratica eziandio della
pietas fidei. Strana
confusione di formole e di concetti, che sembra a
bella posta ideata, per ingarbugliare le teste del volgo!
Qui fa bisogno distinguere. Se per necessità
della fede
s'intende quella che è richiesta a rimaner cattolico, e non
cadere formalmente nell'eresia, si concede che essa, come tale, non
risguardi altro che le verità dommatiche, definite come tali dai
Concilii, o dal Papa insegnante ex
cathedra. Ma se s'intende quella che
è richiesta a salvare l'anima, ad
salutem, si nega che non
riguardi anche altre verità, benchè non sieno dommi
definiti di fede. Imperocchè nei
cattolici la necessitas, ossia
l'obbligo di obbedienza al Papa ed alla Chiesa, non è
circoscritta solamente a quei casi, nei quali il disubbidire importa
scisma ed eresia, ma ancora in quelli, nei quali importa peccato grave.
Il corpo della dottrina cattolica ha molte verità, alle quali
chi si ribella non può dirsi eretico, ma non può nemmeno
scusarsi da colpa mortale. E per ciò in ogni corso il più
elementare di teologia si legge spiegata la differenza tra le
verità prettamente dommatiche e le verità non
propriamente tali, ma tuttavia di fede, o appartenenti alla fede.
Or qual cattolico sarebbe colui, che ardisse di sostenere a queste
verità esser debita, non l'obbedienza di necessità, ma
quella di pietà; quasi
che l'aderirvi coll'intelletto ed il
crederle ed il professarle, sia atto supererogatorio di devozione e non
obbligatorio di coscienza? I Romani Pontefici hanno condannate in
grandissimo numero proposizioni teologiche e filosofiche, la cui
contraddittoria non è certamente sempre domma di fede o di
morale; nè
condannandole hanno seguite sempre tutte le forme, espresse nel canone
vaticano dell'infallibilità pontificia. Eppure sarebbe cattolico
e sarebbe in via di salute chi dicesse: — Tutte queste condanne
sono
materia non della necessità,
ma della pietà della
fede:
dunque sarà bene se io le accetto come vere, ma non sarà
male se io le rifiuto come false?
Ripetiamo che l'opporre la pietà
alla necessità della
fede, senza limpide dichiarazioni, che stabiliscano la natura ed i
confini dell'una e dell'altra, e senza includere esplicitamente nella
necessità anche quelle
verità, le quali,
avvegnachè non sieno dommi definiti, sono però
verità appartenenti alla fede, è un creare nodi e
garbugli, pericolosissimi all'anima dei cattolici meno istrutti, e
facilissimi a cambiarsi in istrumenti di fallacia e d'inganno. Di
doppia specie pel cattolico è l'obbedienza necessaria: l'una
dee preservarlo dall'eresia; l'altra dal peccato. Chi nega al Papa ed
alla Chiesa la prima, oltre che nel peccato di eresia, incorre, se
l'atto è esterno, nell'anatema che lo separa dalla Chiesa: chi
nega la seconda, benchè non incorra nell'anatema, pecca ancor
esso più o meno direttamente contro la fede e perde la grazia di
Dio. La pietas
fidei
potrà concernere la perfezione dell'una e
dell'altra, ma certo non ha che fare colla sostanza di quella
obbedienza, il cui trasgredimento implica offesa grave alla fede e
quindi colpa mortale.
Il simile si dica dell'uso ambiguo che si fa del testo ascritto a
sant'Agostino: In certis fides, in
dubiis libertas, in omnibus
caritas; allorchè si lascia quasi credere, che nelle cose
certe
si rinchiudano solamente le verità dommatiche, e nelle dubbie
tutte le altre. Questo sarebbe errore perniciosissimo e intollerabile
nella Chiesa di Cristo. Quelle dottrine soltanto si possono dir dubbie,
e per conseguente libere,
intorno alle quali non consta con
certezza il senso della Chiesa. E sopra queste di fatto versano le
frequenti disputazioni dei teologi cattolici [3]. [Consigliamo
vivamente la lettura di questa nota. N.d.R.]
IV.
Altri vi ha che affettano un desiderio
scrupoloso di tenere
l'obbligo
di
obbedienza al Papa entro i termini più precisi, nei quali dal
Concilio vaticano fu posto. Costoro a piena bocca insegnano, che il
Pontefice, in quanto è maestro, non ha diritto d'essere dai
cattolici obbedito, se non circa la sola dottrina della fede e dei
costumi: e che le materie politiche, essendo al suo magisterio
sottratte, sono dunque libere a ciascuno e dal Papa e dalla Chiesa
indipendenti. In
cauda venenum.
Il tossico del sofisma è
nell'anfibologia della conseguenza. Le materie politiche sono sottratte
al magisterio del Papa? Adagio. Tutte no, alcune sì. Quelle che
non si
connettono colla fede e colla morale, è vero: quelle che colla
fede e colla morale hanno un legame, una relazione, è falso.
Quindi falsissima è l'affermazione, così generica, che ai
cattolici le materie politiche sono libere, e che queste materie sono
per sè indipendenti dal giudizio della Chiesa e del suo
Capo.
Forsechè il Pontefice non è
maestro delle dottrine
spettanti alle attinenze della società civile
coll'ecclesiastica? Forsechè non giudica egli, per uffizio suo,
i principii morali, da cui necessariamente dev'essere informata la
politica? Forsechè non tocca a lui indicare gli errori e
riprovare le iniquità, che dalla politica si scambian talvolta
per oro fine di verità e di giustizia? E se i cattolici
voglion essere e parere cattolici, forsechè non hanno il debito
di sottomettersi, anche in questo, al Papa e di accettarne la sentenza?
Questo artifizio dialettico, per sottrarre teologicamente dal
magistero
del Papa una quantità di materie importantissime alla salute del
cristianesimo, pur troppo è comune ai cattolici liberali, che,
per le loro mire d'interesse o di ambizione, tendon sempre a separare
il più che sia possibile (salve però certe convenienze)
lo Stato dalla Chiesa, o la morale dalla politica. E che questo sia il
vizio capitale del loro sistema, il S. Padre Pio IX più volte lo
ha fatto intendere e lamentato; ed ultimamente ancora nel suo Breve dei
18 settembre 1876 al Vescovo delle Trois-Rivières
nel
Canadà, ove in espressi termini si legge: «Noi dobbiamo
lodare lo zelo, col quale vi siete sforzato di premunire lo stesso
popolo contro i versipelli inganni del liberalismo detto cattolico,
tanto più pericolosi, in quanto che, sotto una esteriore
apparenza
di pietà, essi inducono in errore molti uomini onesti; e in
quanto che, allontanandoli dalla sana dottrina, specialmente nelle
questioni che, a prima vista, sembrano concernere piuttosto il Potere
civile che l'ecclesiastico, essi indeboliscono la fede, rompon la
unità, dividono le forze cattoliche, e forniscono un aiuto
efficacissimo ai nemici della Chiesa, i quali insegnano gli stessi
errori, sebbene con maggiore ampiezza ed impudenza; e conducono
inesorabilmente gli spiriti ad aver comuni i loro perversi disegni [4]».
Le quali autorevolissime parole del Sommo Pontefice vengono a
mostrare
la futilità di un altro artifizio più ignobile, a cui gli
avversarii medesimi ricorrono: ed è di screditare il debito
dell'obbedienza dei cattolici al Papa, vituperandone i sostenitori;
come se questi lo esagerassero, ne falsassero le condizioni e quindi
pervertissero la sana dottrina
della Chiesa.
Sì: noi scrittori dei giornali cattolici più devoti al
Papa ed ai Vescovi e più studiosi di difendere, sotto la loro
vigilanza, secondo le forze nostre, la integrità e la
purità della fede, noi abbiamo corrotto
il domma
dell'infallibilità pontificia, perchè abbiamo asserito ed
asseriamo, che al Vicario di Gesù Cristo è dovuta
obbedienza, non solo quando definisce dommi, ma eziandio quando in
altre maniere fa conoscere la cattolica dottrina; e perchè
abbiamo, asserito ed asseriamo, che oggetto del supremo suo ed
infallibile magistero sono altresì tutte le materie politiche,
le quali colla fede e col costume hanno relazioni. Per questo siamo
accusati di voler noi dominare la regola della fede, coll'intendimento
di oscurarla, di guastarla, di straziarla. Ma quello che noi asseriamo
è capriccio nostro, o non anzi certo insegnamento di tutti i
teologi, e prima e dopo la definizione del Concilio vaticano? E se
così è, chi può farcene rimprovero? E l'accusa di
corruttori della fede, che ci
è apposta, non si risolve in una
calunnia, disonorante solo chi la dà, e non punto chi la riceve?
Ma passiam oltre, nè ci perdiamo ad armeggiare contro le nebbie,
nubes sine aqua, come il Santo
Padre ha ben descritti i superbi
cervelli di costoro.
V.
I quali se tanto aguzzan l'ingegno, per attenuare l'obbligo della
sottomissione al Papa, in quello intorno a cui possiede autorità
d'infallibile magistero, non è meraviglia che poi
sofistichino, per attenuarlo in quello, intorno a cui egli non possiede
ugualmente infallibile l'autorità. — Il Papa è
fallibile,
fuori del suo magistero: dunque, nelle cose che a questo suo magistero
non appartengono, possiamo non obbedirgli e rimanere cattolici sinceri.
Tal è il loro cavallo di battaglia, contro chi li stringe ad
accettare umilmente le pontificie prescrizioni.
Ma scusa più insensata di questa non può addursi. Il
Romano Pontefice da Gesù Cristo non è costituito suo
Vicario, solamente perchè ammaestri,
ma altresì
perchè regga la sua
Chiesa: e la sovreminenza di Pietro non
consiste solo nella podestà suprema ch'egli ha d'insegnare, nel
che è il primato di magistero, ma in quella eziandio di
governare, nel che è il primato di giurisdizione [5]. E questo è domma di fede cattolica,
sì essenziale, che chi non lo
professa cade per ciò solo nell'eresia insieme e nello scisma.
Doppio pertanto essendo l'officio divinamente conferito al Papa da
Cristo, nel ministero commessogli di pascere il suo gregge, vale a dire
l'uno di maestro e l'altro di reggitore; chiaro è che tutti i
fedeli sono ancora vincolati dal doppio obbligo di
assoggettarsegli, tanto in ciò che si riferisce all'uno,
come in ciò che si riferisce all'altro.
È vero: il carisma o dono dell'infallibilità non
è al
Papa concesso da Dio, fuorchè nell'esercizio dell'officio suo
di maestro della Chiesa: ma che perciò? Dunque perchè il
Papa non ha questo dono nel suo governo ecclesiastico, e può in
cose particolari e di fatto, non riguardanti però la generale
disciplina della Chiesa e non connesse colla fede e coi costumi,
errare, è lecito disubbidirgli? Ma se la ragione
dell'obbedienza negli ordini sacri, civili e domestici fosse, non
più il possesso legittimo, bensì l'infallibile esercizio
dell'autorità, che ne sarebbe più dell'ordine umano al
mondo? I genitori non sono infallibili: dunque i figliuoli potrebbero
lecitamente spregiarne i comandi. I governanti politici non sono
infallibili: dunque i cittadini ed i sudditi potrebbero lecitamente
violarne le leggi. I sacerdoti ed i Vescovi non sono infallibili:
dunque i popoli cristiani, allo spirituale reggimento loro soggetti,
potrebbero lecitamente non far conto alcuno delle loro ordinazioni. La
ribellione e l'anarchia perpetua sarebbero in tutto e per tutto
giustificate.
L'assurdità dei corollarii fa vedere quella del presupposto,
da
cui derivano. Il debito della soggezione ai poteri da Dio stabiliti non
ha la radice nelle prerogative più o meno insigni di cui questi
posson essere dotati, ma nella intrinseca loro natura di emanazioni
dell'autorità stessa di Dio, di suoi rappresentanti, di delegati
da lui a riscotere dai sudditi quel tributo di obbedienza, ch'egli ha
il diritto assoluto di esigerne, o immediatamente per sè o
mediatamente per altri: e fino a tanto che
questi poteri non
si snaturano, pervertendo l'ordine da Dio voluto e prescrivendo atti da
Dio vietati, essi hanno diritto a quell'obbedienza che i sudditi
debbono a Dio, del quale sostengono le veci. Questa è la
teoria
razionale e cristiana del potere, promulgata nelle Scritture divine e
mantenuta costantemente intatta dalla Chiesa. «Ciascun uomo
deve stare soggetto a chi gli è superiore, perchè ogni
podestà viene da Dio, e chi resiste alla podestà resiste
a Dio e da sè si condanna. Quelli che son rivestiti del potere
sono ministri di Dio, ed a codesti ministri di Dio si ha da ubbidire,
non solo per tema dell'ira loro, ma altresì per coscienza [6]». Di più l'Apostolo,
nel nome di Dio, ingiungeva ai
fedeli, che in ogni podestà riconoscessero Gesù Cristo,
ed
i servi ai padroni loro, benchè gentili,
ubbidissero come a Cristo medesimo [7].
D'onde è provenuta nel
cristianesimo quella nobilissima obbedienza, che non fa piegare la
volontà dell'uomo ad altro uomo, perchè è questo o
quell'uomo, ma unicamente perchè rappresenta Gesù Cristo;
e muove non da bassi rispetti e servili timori, ma dalla coscienza e
dall'amore, e solleva sino al trono di Cristo-Dio, l'uomo, che
per lui ad altro uomo si assoggetta. Questa è l'obbedienza che
può chiamarsi ed è la pratica dell'amore di Gesù
Cristo; l'amore di Gesù Cristo in atto; il preziosissimo legame
che stringe la terra al cielo; vincolo di unione, nodo benedetto di
pace
fra gli uomini, negli Stati, nelle comunità, nelle famiglie: Haec est illa obedientia, quae concordiam
conservat in angelis, tranquillitatem generat in civibus, sine qua
Respublica stare
non potest, sine qua familia aliqua regi non potest [8]. [«Haec
est illa obedientia quae concordiam conservat in Angelis, pacem nutrit
in monachis, tranquillitatem generat in civibus. Haec est illa
obedientia, sine qua respublica stare non potest, sine qua familia
aliqua regi non potest. — Tale è l'obbedienza che mantiene
la concordia tra gli angeli, che nutre la pace tra i monaci e produce
la tranquillità tra i concittadini; obbedienza senza cui uno
Stato non può sostenersi e
senza cui alcuna famiglia può essere governata.» Ad fratres in eremo Sermo VII, S. August. Opera omnia (Migne) t. VI col. 1248-1249, Parigi 1861. N.d.R.]
Posto ciò, che valore ha, moralmente e teologicamente, la
bella
ragione degli avversarii, i quali si pensano di legittimare la
loro disubbidienza al Papa nelle cose agibili, perchè in esse il
Papa non gode dell'infallibilità assicuratagli da Dio nelle
insegnabili? Il naturale buon senso basta a giudicarlo. Illecita
è, secondo san Paolo, la disubbidienza di un servo cristiano ad
un padrone gentile; e sarà lecita quella di un fedele cattolico
al Vicario stesso di Cristo? Se nulla valesse, la ragione dei
cattolici liberali scrollerebbe dalle fondamenta ogni ordine umano e
cristiano.
«Può errare, notava sapientemente il barone d'Ondes
Reggio, nel suo precitato discorso, può errare il Sommo
Pontefice: ma passa questo divario essenzialissimo tra il Sommo
Pontefice e gli altri: che egli può commettere errori nel
governo della Chiesa, ma non mai che offendano la fede e la morale,
poichè nello insegnamento della fede e della morale è
infallibile; ma gli altri possono commettere errori, e non di raro
sogliono, contro ambe quelle: onde gli errori del Sommo Pontefice non
recano danno a ciò che più importa per la salute eterna
delle anime, ed anco per il bene sostanziale della terrena vita, e solo
possono colpire obbietti di secondario momento. Questa sì
è vera, grande ed immancabile guarentigia, che il
governo del Sommo Pontefice dà all'universo mondo! [9]»
Ma non occorre che ci diffondiamo di più a ribattere un
sofisma, che salta agli occhi dei meno periti in queste materie. Tanto
più che la soluzione di esso non è da cercarsi nella
logica, ma nella morale; provenendo da difetto non di buon discorso,
ma di buona volontà. E per ciò assai bene il Santo Padre
ne ha mostrata l'origine, dicendo questi sediziosi «spinti
ed animati dallo spirito dell'orgoglio e della superbia.» La
disubbidienza è figliuola primogenita della vanagloria [10]. I
cattolici che si arrogano il diritto di disubbidire al Papa, per poter
essere liberali, non
cederanno mai alla dialettica, se prima non
cedono all'umiltà.
VI.
Se non che, per grazia di Dio, questi nemici interni (e ce lo ha fatto
avvertire il Santo Padre) sono pochi. Parecchi già son passati
notoriamente nel campo dei nemici esterni; ed altri che paiono
tentennare a cavallo del fosso, vi si baloccano intorno
più per leggerezza di fantasia che per malvagità di
cuore. Nell'Italia segnatamente, coloro che non arrossiscono del titolo
di cattolici sono, pel massimo loro numero, cattolici col Papa,
affezionatissimi al Papa e molto ben disposti ad obbedire in
tutto al Papa. Questa è la verità.
Per altro convien loro stare in guardia di sè e delle sottili
insidie, alle quali il retto e buon animo loro è cotidianamente
esposto. Noi viviamo nel secolo satanico
per antonomasia,
giacchè si vanta secolo della rivoluzione
universale; ed
è il solo secolo, nel quale siasi inneggiato a Satana,
perchè ribelle a Dio.
La disubbidienza, che è
rivoluzione, prende tutte le forme possibili e non che si vegga mutata
in domma politico, ma si vede eretta in idolo, cui si vorrebbero
legalmente costringere tutti a sacrificare. Il cattolico dei nostri
tempi ha necessità di forte e viva fede, per serbarsi quale
dev'essere innanzi a Dio, innanzi alla Chiesa, innanzi al mondo. La
fede ha da formargli il criterio pratico e ha da ravvalorargli il
petto, contro il turbine degli errori e dei terrori che lo circondano.
Il secol nostro è, sopra gli altri secoli, anticristiano,
perchè sopra gli altri inimica l'autorità. Si miri a che
son ridotte le autorità civili, i poteri degli Stati ai nostri
giorni! Si considera come giuridica ed inviolabile la libertà di
fare opposizione a tutti i poteri, e di giudicarli senza riguardo.
Sopra ogni autorità si pretende che stia la così detta
pubblica opinione, la quale,
quando è qualche cosa, altro non è che il giudizio
collettivo di molti cittadini,
ciascun dei quali pesa per uno, se pure ha peso. Questa è
l'autorità sovrana del tempo nostro. D'onde nasce lo spregio
pubblico d'ogni altra autorità, se non sempre in sè
medesima, certo in chi ne è investito e ne esercita
pubblicamente gli officii. Pur troppo l'avvilimento in cui essa
è caduta, fa sì che talora, in qualche paese, veggasi al
timone dello Stato gente, che dovrebbe remigare nei bagni, col bollo
dei galeotti in fronte. Ma in somma il fatto è questo: e la
massima delle sciagure odierne si è, che, nel concetto comune,
l'autorità sociale non gode più nè i caratteri,
nè la forza, nè la riverenza che da essa non dovrebbero
mai scompagnarsi.
Or il pericolo dei cattolici, anco migliori, è proprio
questo:
che, quasi senz'addarsene, si lascino trascinare dalla corrente: ed o
si
levino giudici dell'autorità del Papa e della Chiesa, come
tutti fanno delle altre autorità, o non ardiscano, per umano
rispetto, di mostrarsele ossequenti. Per ciò noi crediamo
necessarissima la fede; e stimiamo che ai cattolici non si possa mai
ripetere a sufficienza: — Siate uomini di fede! State in fide [11].
La fede ha da ricordar loro incessantemente, che l'autorità
del
Papa nel mondo è di una guisa diversa dalle altre; perchè
soprannaturalmente divina nell'origine sua, ne' costitutivi suoi,
nell'esercizio suo e nella sua finale destinazione. In somma, la fede
ha da
mostrar loro nel Papa quel dolce
Cristo in terra, che santa Caterina da
Siena non si saziava di servire, di ascoltare, di venerare. In quel
modo che niun cattolico oserebbe far giudizio di Gesù Cristo,
se, visibile nel Vaticano, visibilmente di là governasse la
Chiesa, come di là governala il suo Vicario, così niuno
osi
farlo del Vicario suo. Chè chi temerariamente si fa giudice di
lui, e lo biasima e lo censura, ferisce in lui l'eterna maestà
del Verbo, ch'egli rappresenta. E qui sta il fiore di quella fede, che
non mai troppo si raccomanda: vedere nel Vaticano Gesù Cristo; e
nell'augusta persona del rappresentante, quella adorabile del
rappresentato. E si badi che Gesù Cristo non è un Re
costituzionale, che disgiunga la responsabilità
sua da quella
del suo Ministro; e che quindi il Papa, rispetto a Gesù
Cristo, non è come uno di quei Ministri costituzionali, che
posson essere dai fedelissimi sudditi travolti nel fango e lapidati,
senza che il Re cittadino ne sia offeso. No, Gesù Cristo e il
suo Vicario, in ordine all'ammaestramento ed al reggimento della
Chiesa, fanno tutt'uno: tanto che, a tutto rigore è verissimo,
che Gesù Cristo ammaestra e regge la sua Chiesa pel Papa;
giacchè esso moralmente vive nel suo Vicario, e per esso
trasfonde in tutto il corpo sociale della Chiesa la vita. Guai adunque
a chi tocca il Papa! Guai a chi gli manca di soggezione, di
ossequio, di obbedienza! Ogni strale scagliato contro il Papa, va
direttamente a colpire Gesù Cristo.
È questa la massima capitale di fede, che dee valer di norma
a tutti
cattolici, per ben regolare le relazioni loro interne del cuore ed
esterne dell'opera e della lingua col Papa. Posta per premessa,
questa norma è fecondissima di pratiche conseguenze, le quali
già ognuno da sè può scorgere.
Ma principalissima fra tutte è quella della docilità;
e
di una docilità filiale e volenterosa, eziandio in ciò
che non è strettamente obbligatorio, o, al senno di grandi
ingegni, pare meno proficuo agli interessi della Chiesa o del Papato.
La fede ci fa sapere che, presso Dio, il merito dell'obbedienza tanto
è maggiore, quanto è minore, in chi ne esercita gli atti,
l'obbligo di esercitarli tutti. La stessa fede poi ci ammonisce, che la
grazia di conoscere e vantaggiare gl'interessi della Chiesa, Iddio non
la dà ai grandi ingegni, ma al suo Vicario in terra: e che egli
solo ha i lumi a questo effetto convenienti, perchè egli
solo ha da lui l'officio di pascere e governare il suo gregge. Dei
grandi ingegni, quando umili sieno ed ubbidienti, il Signore suol
valersi in servigio non ordinario della Chiesa; ma quando sono
indocili e superbi, egli ne fa il conto che fece di Lucifero,
intelletto il più sublime che uscisse mai dall'onnipotenza sua
creatrice. Il governo della Chiesa di Gesù Cristo non è
commesso ai grandi ingegni, ma al Papa; e più luce ha il Papa,
per ben vedere quel che si confà o non si confà alla
Chiesa ed alla Santa Sede, che non tutti i grandi ingegni del mondo
ricongiunti in uno. Il che poi deve dai cattolici aversi presente
all'animo tanto più spesso, quanto più spesso toccasi con
mano, che alla fin fine questi grandi ingegni, i quali pretendono
dirigere e consigliare il Papa, sono, come ben li ha definiti il Santo
Padre stesso in un altro suo più recente discorso, «teste
esaltate, che si lascian guidare dalla fantasia e dall'orgoglio e non
dalla riflessione [12].» E
ciò è per appunto che
rende rationabile obsequium nostrum [razionale la nostra obbedienza. Cfr. Rom. XII, 1. N.d.R.] al Pontefice, anche nelle
cose di politica ecclesiastica, le quali non sono alla umana
prudenza per sè chiare: la certezza che il Pontefice ha da
Gesù Cristo la grazia di stato,
per veder chiaro ove l'umana
prudenza vede scuro, e per ottenere il bene della Chiesa con
mezzi, che non di rado paiono alla politica i meno acconci.
Nè temano i cattolici di cadere in quell'eccesso di
obbedienza al Papa, che certi farisei del cattolicismo liberale, con
istudiata
simulazione, affettano di temere, siccome funesto «alle
anime»: per lo che contro i giornalisti, ardenti promotori di
quest'obbedienza, scoccano le frecce più avvelenate dei loro
giansenistici turcassi. In questa materia, l'eccesso, non che
temibile, ma neppur è possibile. Un eccesso di obbedienza vera e
cristiana, com'è quella di che parliamo noi, si ridurrebbe ad un
eccesso di carità verso Gesù Cristo; cioè ad un
eccesso di quella virtù che, unica fra tutte, non è
capace di eccessi. O pharisaei
hypocritae, [O farisei
ipocriti N.d.R.]
poteste ancora voi
partecipare a colpa sì bella!
VII.
È grandemente a desiderare che i cattolici d'Italia si
perfezionino
viepiù in questa fede ed obbedienza al Papa, che dev'essere il
centro comune della loro unità di azione religiosa insieme e
politica, a salvezza della patria. Già vediamo con piacere
quanto prevalga fra loro, e massimamente fra i più autorevoli ed
operosi, il concetto che nella Santa Sede s'immedesima la causa non
meno sacra che civile dell'Italia. E noi riputiamo degnissimi di lode i
valorosi scrittori dell'Osservatore
cattolico di Milano, i
quali, con zelo pari al sapere, lo propugnano ed illustrano. Le
condizioni dei cattolici in Italia diversificano da quelle dei
cattolici di Francia, di Spagna, del Belgio e di altri paesi, in
ciò, che molti loro atti politici, in quanto tali, sono a questi
liberi, perchè non contrariano diritti e ragioni di ordine
religioso; ovechè ai cattolici d'Italia parecchi di questi atti
non sono liberi, perchè opposti a prescrizioni giuridiche della
Chiesa o a divieti pontificii, che anzi tutto e sopra tutto debbono
osservare. Effetto è questo degli aggiunti particolari in cui si
trova la Penisola, per avere nel suo grembo la Sede di san Pietro,
spogliata ora dalla Rivoluzione che domina Roma e vi tiene il Papa
medesimo stretto in ostile assedio, sub
hostili potestate
constitutum. Ond'è che, a voler accordare nella coscienza
i
doveri di cattolici con quelli di cittadini, è al tutto
necessario che gl'Italiani prendano, nella loro operazione religiosa e
civile, indirizzo dal Pontefice.
Dura può parere questa necessità agli spiriti
ambiziosi,
che della fede amerebbero farsi scala a mondane alterige; dura ai
sognatori di patrie trasformazioni opposte ai consigli di Dio; dura
agl'interessati nei frutti di un capitale che, essendo, come quello
acquistato da Giuda, pretium
sanguinis, [prezzo di
sangue. Matth. XXVII, 6 N.d.R.] come
quello è pure
maledetto dal cielo: ma invece si stima dolce dagli altri, che nella
tiara di Pietro veggono il simbolo storico e provvidenziale della pace
e grandezza d'Italia. Perocchè il nodo che lega l'Italia al
Papato non è fatto dall'arbitrio dell'uomo, è formato
evidentemente da Dio. Or anche di questo nodo si ha da avverare, che
Quod Deus coniunxit homo non separet
[13]. [Non divida l'uomo quel, che Dio
ha congiunto. N.d.R.]
La nazionalità non
può dunque essere mai ragione buona di separare l'una
dall'altro: e dato che, per tale pretesto, una temporanea separazione
morale o materiale avvenga tra loro, sarà causa di mali e danni
gravissimi infin che perseveri. E l'odierno esperimento il dimostra.
Che ha guadagnato l'Italia, colla quasi ventenne ribellione de' suoi
governanti alla Santa Sede? Fame, servitù e delitti. Dal tempo
dei barbari in qua, gli annali nostri non ricordano miseria maggiore di
questa, che rode e consuma l'Italia che si è voluto strappare
dalle mani del Papa.
I cattolici italiani pertanto, cui scalda il petto amore non solo di
religione, ma ben anco di patria, devono rallegrarsi che Iddio abbia
sì provvidamente unite le sorti politiche della Penisola
con quelle del Papato, che ai diritti dell'uno non si possa fare
ingiuria senza pregiudicare all'altra. Questo è privilegio unico
del nostro paese: ma così fatto, che da noi richiede, per
contraccambio, il tributo di un ossequio particolarissimo alla Santa
Sede. Se per obbedire o deferire ad essa ci è forza rinunziare,
nella guerra politica, ad una strategia che parrebbe efficace, ma non
è conforme ai diritti o voleri suoi, non ce ne dolga troppo.
Ciò prova che Dio ha disegni più reconditi e dispone la
vittoria per altre vie. Questo ci detta la fede.
Del resto noi diciamo tutti giornalmente, che, senza un intervento
speciale di Dio, la vittoria della giustizia pacificatrice d'Italia
sfugge a tutte le umane previsioni. Ma quale titolo più valido,
per ottenere codesto intervento, e quale argomento più solido,
per isperare di ottenerlo, può darsi che questo di sacrificare
temporaneamente a Dio il nostro zelo, il nostro coraggio e parte delle
nostre stesse armi, per meglio obbedire e deferire al suo Vicario in
terra? [Colori carattere aggiunti. N.d.R.]
Articoli correlati:
NOTE:
[1] V. l'Osservatore Romano dei 27 decembre
1876.
[2] Discorsi e proposte del barone Vito D'Ondes Reggio al secondo
Congresso cattolico italiano, tenutosi in Firenze nel settembre 1875.
Firenze 1875, pagg. 5-6.
[3] Bellamente e dottamente, al
suo solito, monsignor Francesco Nardi
scriveva sopra quest'argomento, in una lettera al Direttore dell'Univers
di Parigi: «Il famoso testo attribuito a sant'Agostino, ed
è
come la parola d'ordine dei cattolici liberali, non si trova nelle
opere genuine del santo Padre.
«Inoltre quel testo, che io credo doversi ad un controversista
tedesco
del tempo della falsa Riforma, non esprime guari un'idea giusta.
Prendendolo nel senso che si presenta più ovvio, vorrebbe dire,
che, salvo i dommi: in certis fides,
il resto è libero: in
dubiis libertas. Dico salvo i dommi, perchè i soli
dommi sono l'oggetto della fede (manifestamente il chiaro
Scrittore intende per fede
quella che teologicamente è detta
fede cattolica). Ora, forse
che fuori dei dommi, il resto è
libero? No, niente affatto.
«Vi hanno molte verità che ci sono insegnate dalla buona
dottrina tradizionale della Chiesa, e che senza essere dei dommi,
devono ammettersi e credersi, e non ci è punto libero rifiutare.
Negandole, non si è eretico, ma ben temerario e cattivo
maestro. Io non ammetto affatto in pratica il principio: in
dubiis libertas. In dubiis,
dirò più tosto
examen e iudicium, e se volete aggiungervi
anche un po' di
humilitas, non sarà
male.
«Quanto alla caritas,
voi ne sapete qualche cosa, e
anche io non l'ignoro. In generale le persone più avare di
questa merce sogliono esser quelle che ne vorrebbero il
monopolio». V. L'Univers
dei 7 gennaio 1877 e La Voce della
Verità
di Roma degli 11 gennaio 1877.
[4] Veggasi questo vol. pagg.
116-17.
[5] Pontificem Romanum verum Christi Vicarium,
totiusque Ecclesiae
caput, et omnium christianorum patrem ac doctorem existere; et ipsi in
beato Petro pascendi, regendi et gubernandi universalem Ecclesiam a D.
N. Iesu Christo plenam potestatem traditam esse. Così
definì il Concilio
ecumenico di Firenze, dopo che altri Concilii precedentemente aveano
definito il medesimo domma. Le quali definizioni tutte
riconfermò il Concilio vaticano, nel definire che fece inoltre
íl domma dell'infallibilità inerente al magistero
pontificio. [«Item
diffinimus, sanctam Apostolicam Sedem, et Romanum Pontificem, in
universum orbem tenere primatum, et ipsum Pontificem Romanum
successorem esse beati Petri principis Apostolorum et verum Christi
vicarium, totiusque Ecclesiae caput et omnium Christianorum patrem ac
doctorem exsistere; et ipsi in beato Petro pascendi, regendi ac
gubernandi universalem Ecclesiam a Domino nostro Jesu Christo plenam
potestatem traditam esse; quemadmodum etiam in gestis oecumenicorum
Conciliorum et in sacris canonibus continetur. — Definiamo
inoltre che la santa Sede Apostolica e il Romano Pontefice hanno il
primato su tutta la terra, che lo stesso Romano Pontefice è il
successore del beato Pietro principe degli Apostoli e vero vicario di
Cristo, capo di tutta la Chiesa e padre e maestro di tutti i Cristiani;
e che a lui, nel beato Pietro, è stato dato da nostro Signore
Gesù Cristo piena potestà di pascere, reggere e governare
la Chiesa universale, come pure è detto negli atti dei Concili
ecumenici e nei sacri canoni.» Concilio di Firenze, Sess VI (6 luglio 1439). DB 694. N.d.R.]
[6] Omnis anima potestatibus sublimioribus
subdita sit, non est enim
potestas nisi a Deo.... Qui resistit potestati, Dei ordinationi
resistit.
Qui autem resistunt, ipsi sibi damnationem acquirunt... Dei
enim minister est... ideo subditi estote, non solum propter iram, sed
etiam propter conscientiam. Rom. XIII, 1-5.
[7] Servi, obedite dominis carnalibus... in
simplicitate cordis vestri,
sicut Christo. Non ad oculum servientes... sed ut servi Christi,
facientes voluntatem Dei ex animo, cum bona voluntate
servientes, sicut Domino et non hominibus. Ephes. VI, 5-7.
[8] S. Augustin. Prosec. [Ad fratres in eremo Sermo VII, S.
August. Opera omnia (Migne)
t. VI col. 1248-1249 Parigi 1861 N.d.R.]
[9] Disc. cit. pagg. 9-10.
[10] Inobedientia prima filia est
inanis gloriae. S. Antoninus,
Par. II, tit. 4,
cap. 2.
[12] Vedi, nell'Osservatore Romano dei 9 gennaio
1877, il discorso da
Sua Santità tenuto ai pellegrini italiani, il giorno
dell'Epifania di quest'anno.
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