Testo integrale del Prof. de Mattei del suo intervento al Convegno sul Concilio Vaticano II, organizzato dai Francescani dell'Immacolata.
Fonte:
http://chiesaepostconcilio.blogspot.com/2010/12/convegno-di-roma-sul-vaticano-ii-16.html
Istituto Maria Santissima Bambina
Roma, 16 dicembre 2010
Concilio Vaticano II
1. L’immagine della Chiesa nel 1962
Eccellenze reverendissime, Monsignori, Reverendi Padri, Signore e Signori,
chi vi parla è uno storico ed è dalla storia che vorrei partire, tornando assieme a voi a quel giorno dell’11 ottobre 1962, in cui si aprì a Roma il Concilio Vaticano II, ventunesimo Concilio ecumenico della storia della Chiesa.
Il lungo corteo dei Padri conciliari, che quella mattina uscì dalla Porta di Bronzo e avanzò lentamente all’interno della Basilica di San Pietro stracolma, offriva una straordinaria immagine della Chiesa militante sulla terra.
In testa i superiori di ordini religiosi, gli abati generali e i prelati nullius; quindi i vescovi, gli arcivescovi, i patriarchi, i cardinali, e per ultimo, in sedia gestatoria, scortato dalla Guardia nobile, tra gli applausi della folla, il Papa Giovanni XXIII. Mentre il corteo dei padri incedeva con solennità, i cantori intonarono il Credo e poi il Magnificat. Il corteo era lungo complessivamente circa 4 chilometri; vi partecipavano quasi tremila dignitari della Chiesa. Di essi 2.381 vescovi, direttamente collegati mediante la successione apostolica ai primi Apostoli. Essi erano riuniti attorno al sovrano supremo, il Papa, Vicario di Cristo, con giurisdizione piena e diretta su tutti i vescovi e su tutti i fedeli del mondo.
La presenza del Vicario di Cristo e dei successori degli Apostoli, nel quadro incomparabile della Basilica di San Pietro, fecero di quella cerimonia uno spettacolo unico al mondo.
Mai come in questo momento la Chiesa cattolica manifestò il suo carattere, gerarchico e visibile: visibile perché la Chiesa militante, in quanto fondata sull’Incarnazione del Verbo, deve rendere manifesto nella sua struttura il suo aspetto invisibile, come l’organismo umano rende tutto l’uomo visibile, benché la sua anima in sé resti invisibile. Per amare questa gerarchia era, ed è, necessaria una profonda umiltà. Bisogna ammettere che non esiste uguaglianza nel mondo creato, che tutto dipende da Dio, che partecipa l’essere a ogni creatura in maniera diversa: e con l’essere ogni creatura riceve qualità, doni, grazie in base alle quali occupa nella società terrena e in quella soprannaturale un posto diverso. Il primo peccato, quello degli angeli ribelli, fu il rifiuto di riconoscere la sapienza di Dio, nel calare la propria divinità nel seno di un'umile creatura, come avvenne per il Verbo Incarnato, e per elevare questa creatura, Maria, al vertice dell’universo creato. I cori degli Angeli Fedeli esprimono nel cielo questa sublime dipendenza gerarchica e la Chiesa e la società cristiana sono chiamate a riflettere sulla terra la gerarchia dei cori celesti.
Universalità, sacralità, gerarchia: questa era l’immagine che l’11 ottobre del 1962 di sé dava al mondo la Chiesa militante sulla terra, soprannaturalmente unita alla Chiesa sofferente e alla Chiesa trionfante nell’unica Comunione dei Santi. La Chiesa appariva davvero la città posta sul monte di cui parla il Vangelo (Mt, 5,14).
2. Il rapporto tra la Chiesa e il mondo
Ma qual era l’immagine che di sé offriva il mondo all’inizio degli anni Sessanta?
Il mondo di quegli anni era immerso in un clima psicologico di ottimismo, se non di euforia. Tre icone brillavano nel firmamento internazionale, incarnando questo clima di ottimismo: Nikita Sergeevic Krusciov, dal 27 marzo 1958 premier dell’Unione Sovietica; Angelo Giuseppe Roncalli, asceso al soglio pontificio il 28 ottobre di quello stesso 1958 con il nome di Giovanni XXIII e John Fitzgerald Kennedy, che il 21 gennaio 1961 aveva assunto la carica di Presidente degli Stati Uniti.
Il 12 aprile 1961 il maggiore sovietico Yuri Gagarin aveva compiuto il primo volo di un uomo nello spazio. La sua impresa sembrava suggellare un’epoca di trionfo della scienza, campo in cui l’Unione Sovietica contendeva agli Stati Uniti il primato nel mondo. Ma il 13 agosto di quello stesso 1961 era iniziata la costruzione del Muro di Berlino e l’imperialismo sovietico estendeva la sua ombra minacciosa su larga parte del mondo.
L’influenza che il comunismo esercitava sul mondo, più che politica e militare, era culturale e psicologica. La filosofia marx-hegeliana dominava negli ambienti accademici e mediatici e anche nel linguaggio comune correvano termini mutuati da quella filosofia immanentista, come “senso della storia”, “corso dei tempi”, “apertura e chiusura”, “liberazione e repressione”. Si trattava di una visione dialettica che si esprimeva nelle nuove parole d’ordine lanciata dalla propaganda comunista: il “dialogo”, inteso come dissolvimento di ogni certezza e verità; la “coesistenza pacifica”, intesa come processo per disarmare psicologicamente l’avversario; lo “sviluppo” e l’“emancipazione” dei popoli, intesi come rifiuto di ogni autorità e tradizione del passato. L’ideologia soggiacente era quello del progresso inteso come marcia irreversibile e ascensionale dell’umanità per raggiungere una “felicità” sociale presentata come la trasposizione sulla terra del Paradiso celeste.
Nel corso della sua storia, la Chiesa aveva parlato al mondo con il linguaggio dei confessori senza macchia e senza paura, dei dottori inflessibili nelle loro controversie, dei martiri intransigenti nella testimonianza della verità, delle vergini immacolate nella loro fedeltà sponsale. Questi uomini e queste donne avevano preferito essere esclusi, disprezzati, perseguitati, messi a morte dal mondo piuttosto che rinunciare a proclamare la verità e a lottare contro gli errori e le false dottrine. Era questa la strada indicata da confessori della fede come il cardinale Aloisio Stepinac, morto alla vigilia del Concilio, e il cardinale Josef Mindszenty, recluso dal 1956 nell’ambasciata americana a Budapest.
La cultura progressista degli anni Sessanta esercitava il suo fascino anche su alcuni uomini di Chiesa, convinti che fosse necessario mutare l’atteggiamento nei confronti del mondo: rinunciare agli anatemi e alle condanne degli errori per scorgere ciò che di positivo il mondo presentava. Era questa la tesi espressa dal padre domenicano Yves Congar, a cui si deve una delle prime enunciazioni della distinzione tra i dogmi e la loro formulazione. In un’opera di successo, Vera e falsa riforma della Chiesa, Congar affermava che non esistono “germi attivi nei quali non siano pure presenti dei microbi”: ossia errori, in cui non esistono verità. Poiché uccidere i microbi significherebbe uccidere anche i germi vivi, occorreva, a suo avviso, lasciare prosperare gli uni e gli altri. La condanna degli errori da parte della Chiesa, dalle eresie medievali fino al modernismo, aveva spento secondo lui le istanze positive in essi presenti, qualcuno le chiama oggi le istanze “esigenziali”: meglio avrebbe fatto la Chiesa a lasciar vivere e diffondere questi errori. Con questo atteggiamento Congar proponeva di cambiare la Chiesa dall’interno, attraverso “una riforma senza scisma”. “Non bisogna fare un’altra Chiesa – spiegava – bisogna fare una Chiesa diversa”. Quello di modificare la Chiesa dall’interno era l’antico sogno, irrealizzato, dei modernisti. “Fino ad oggi – aveva spiegato il sacerdote apostata Ernesto Buonaiuti – si è voluto riformare Roma senza Roma, o magari contro Roma. Bisogna riformare Roma con Roma; fare che la riforma passi attraverso le mani di coloro i quali devono essere riformati. Ecco il vero e difficile metodo; ma è difficile. Hic opus, hic labor”.
Tra coloro che accoglievano le tesi di Congar era un gruppo di Padri conciliari del Centro-Europa, tra cui spiccava il neo-eletto primate del Belgio, il cardinale Léo-Joseph Suenens. Suenens non aveva ancora 60 anni. Dopo essere stato consacrato arcivescovo di Malines-Bruxelles nel marzo 1962, aveva incontrato a Roma Giovanni XXIII che fu affascinato dalla sua figura e gli chiese di preparargli una nota per il Concilio. Nel mese di giugno 1962 Suenens riunì un gruppo di cardinali al Collegio belga di Roma, tra i quali gli arcivescovi di Monaco Döpfner, di Lille Liénart, di Milano Montini, per discutere un “piano” e una strategia per il prossimo Concilio.
Nel documento che fu redatto, il cardinale Primate del Belgio lanciava la parola d’ordine del “Concilio pastorale”, definendo ciò “un beneficio immenso”, una “grazia di Pentecoste per la Chiesa”. Giovanni XXIII avrebbe seguito questa linea strategica.
3. Giovanni XXIII apre il Concilio
L’allocuzione inaugurale del Papa, Gaudet mater ecclesia dell’11 ottobre fu – come osserva il padre Wenger – la chiave per comprendere il Concilio. “Più che un ordine del giorno, esso definiva uno spirito; più che un programma, dava un orientamento”. La novità non era nella dottrina, ma nella nuova disposizione psicologica ottimistica con cui si impostavano i rapporti tra la Chiesa e il mondo: un rapporto dialogico di simpatia e “apertura”. Coloro che mettevano in dubbio questo spirito irenico e ottimistico venivano definiti dal Papa “profeti di sventura”.
Per Giovanni XXIII, compito principale del Concilio era quello di custodire il Magistero della Chiesa e insegnarlo “in forma più efficace”. Nel suo discorso di apertura egli affermava: “Altro è il deposito o le verità della fede, altro è il modo in cui vengono enunziate, rimanendo pur sempre lo stesso significato e il senso profondo”. “Altra è la sostanza dell’antica dottrina del depositum fidei, ed altra è la formulazione del suo rivestimento: ed è di questo che si deve – con pazienza se occorre – tener gran conto”.
Il Concilio era stato indetto, non per condannare errori o formulare nuovi dogmi, ma per proporre, con linguaggio adatto ai tempi nuovi, il perenne insegnamento della Chiesa. La forma pastorale, cioè il rinnovamento del linguaggio dei metodi di azioni e di apostolato, con Giovanni XXIII, diventava la forma del Magistero per eccellenza. Si tratta di un punto centrale. Giovanni XXIII non intendeva avviare una Rivoluzione all’interno della Chiesa. Il suo temperamento era inclinato a un ottimismo che aveva come conseguenza psicologica, più che ideologica, l’idea di “adattamento” o, come poi si dirà, di “aggiornamento”. Egli pensava che il Concilio potesse tenersi in tempi brevi, giungendo ad approvare pochi documenti, magari per acclamazione. Nel luglio del 1962, ricevette in udienza mons. Pericle Felici, che gli presentò gli schemi conciliari rivisti e approvati. “Il Concilio è fatto – esclamò con entusiasmo Papa Roncalli – a Natale possiamo concludere”.
4. Le due minoranze
Il Concilio non durò tre mesi, come aveva immaginato Giovanni XXIII. E Papa Roncalli, che morì il 3 giugno 1963, poté seguirne solo la prima sessione. Paolo VI, eletto il 21 giugno guidò le successive tre sessioni e ne fu il protagonista. Il Concilio non si svolse neppure nell’atmosfera di gioioso consenso immaginata da Giovanni XXIII, ma fu il luogo di drammatici contrasti.
Se ci si limitasse a una storia “ufficiale”, basata sui risultati dalle votazioni, si dovrebbe negare l’esistenza di una lotta interna al Concilio tra opposti schieramenti, visto che i documenti conciliari furono tutti approvati da una schiacciante maggioranza. In realtà, nessun Concilio conobbe, più del Vaticano II, tensioni e conflitti tra gruppi contrapposti.
Gli storici pur non negando quest’evidenza, la riconducono al contrasto tra una “maggioranza” progressista e una “minoranza” conservatrice, destinata ad essere sconfitta. In realtà lo scontro avvenne tra due minoranze che, nel 1963, il teologo di Lovanio Gerard Philips descriveva come due “tendenze” contrapposte della filosofia e della teologia del ventesimo secolo: l’una nelle parole di Philips più preoccupata di essere fedele agli enunciati tradizionali, l’altra più attenta alla diffusione del messaggio presso l’uomo contemporaneo. Nell’articolo del teologo belga le due posizioni venivano poste sullo stesso piano con una netta preferenza dell’autore verso la seconda. La prima “tendenza” era però la posizione ufficiale del Magistero della Chiesa, sempre ribadita fino al pontificato di Pio XII; la seconda “tendenza” era quella eterodossa, ripetutamente censurata e condannata dallo stesso Magistero ecclesiastico.
Per questa seconda tendenza il Concilio rappresentava una straordinaria opportunità. La natura dell’evento avrebbe permesso alle diverse posizioni, la conservatrice e la progressista, di confrontarsi su di un piano di parità ideologica e di affidare alle regole del gioco parlamentare la prevalenza nei dibattiti. Nel Concilio si crearono gruppi e correnti definiti dai mass media come una destra, una sinistra, un centro. L’uso di questi termini, per quanto improprio, non deve sorprendere e può essere, per comodità, accettato. Lo storico dei Concili Hefele scrive che, nel 325, a Nicea, i vescovi ortodossi formavano con sant’Atanasio e i suoi seguaci la destra, Ario e i suoi partigiani rappresentavano la sinistra, mentre il centro-sinistra era occupato da Eusebio di Nicomedia e il centro-destra da Eusebio di Cesarea. La posizione giusta, quella autenticamente cattolica, non era quella del centro dei due Eusebi, che formava un “terzo partito” tra l’ortodossia e l’eresia, ma era quella incarnata dalla destra di sant’Atanasio, accusato dai suoi avversari di estremismo e di fanatismo. Fu sant’Atanasio però, autore del Simbolo della fede che ancora oggi professiamo, a tracciare la storia della Chiesa nei secoli futuri.
All’interno delle aule conciliari, tra le due minoranze conservatrici e progressiste ondeggiava, come sempre, la massa di coloro che esitavano a schierarsi.
Qual era il pensiero e la posizione di questo centro maggioritario? Abbiamo uno strumento per conoscerne i pensieri. In aula e nelle commissioni solo una minoranza dei Padri conciliari prese la parola, ma pressoché tutti risposero alla richiesta che nel 1959 venne fatta loro dal cardinale Segretario di Stato Domenico Tardini di proporre temi e suggerimenti per l’imminente Concilio.
Le risposte dei vescovi, dei superiori degli ordini religiosi e delle università cattoliche alla richiesta di pareri del card. Tardini giunsero, in forma di “vota” nell’estate del 1959. Lo spoglio dell’enorme materiale, iniziò nel mese di settembre e si concluse alla fine del gennaio 1960. Un attento esame dei vota permette oggi allo storico, come permetteva allora al Papa, alla Curia e alla Commissione preparatoria, di avere un quadro dei “desiderata” dell’episcopato mondiale alla vigilia del Concilio.
Le richieste dei futuri Padri conciliari, considerate nel loro insieme, non esprimevano il desiderio di una svolta radicale, e tantomeno di una “Rivoluzione” all’interno della Chiesa. Se le tendenze antiromane di alcuni episcopati affioravano nettamente in alcune risposte come quelle del card. Alfrink, arcivescovo di Utrecht, in generale gli auspici dei padri erano quelli di una moderata “riforma” sulla linea della tradizione. La maggioranza dei vota chiedeva una condanna dei mali moderni, interni ed esterni alla Chiesa, soprattutto del comunismo, e nuove definizioni dottrinarie, in particolare riguardanti la Beata Vergine Maria. Tra gli stessi vescovi francesi, considerati tra i più progressisti, molti domandavano la condanna del marxismo e del comunismo e una consistente minoranza chiedeva la definizione del dogma della mediazione di Maria.
I vescovi italiani, i più numerosi, avrebbero voluto che il Concilio proclamasse il dogma della “mediazione universale della Beata Vergine Maria”. Il secondo dogma di cui essi richiedevano la definizione era quello della Regalità di Cristo, da opporre al laicismo imperante. Molti inoltre chiedevano al Concilio la condanna degli errori dottrinali: il comunismo, l’esistenzialismo ateo, il relativismo morale, il materialismo, il modernismo.
È interessante l’analogia tra i “vota” dei Padri conciliari e i Cahiers de doléance redatti in Francia, in vista degli Stati Generali del 1789. Prima della Rivoluzione francese, nessun “cahier de doléance” si proponeva di sovvertire le basi dell’Ancien Régime, e in particolare la Monarchia e la Chiesa. Ciò che veniva richiesta era una moderata riforma delle istituzioni, non il loro sovvertimento, come accadde inaspettatamente, quando si riunirono gli Stati generali.
Qualcosa di simile alla Rivoluzione francese accadde tra il 1962 e il 1965. Il Concilio non esaudì le richieste che emergevano dai “vota” dei Padri conciliari, ma assecondò le rivendicazioni della minoranza progressista che, fin dall’inizio, riuscì a porsi alla testa dell’assemblea e ad orientarne le decisioni. È quanto emerge inconfutabilmente dai dati storici. E come accadde nella Rivoluzione francese, i giorni decisivi furono i primi, quelli in cui avvenne la rottura della legalità. A Versailles successe il 17 giugno 1789, quando gli Stati Generali si trasformarono in assemblea costituente; a Roma il 13 ottobre 1962, quando, su richiesta del card. Liénart, ma la mossa era stata accuratamente preparata, le Conferenze episcopali entrarono come gruppi organizzati nella dinamica conciliare.
Dietro questi gruppi organizzati si muovevano altri gruppi organizzati, di vescovi e di teologi, che formarono un partito apertamente antiromano, perché vedeva nella Curia di Roma il nemico da battere. La rete di relazioni, che preesisteva al Concilio, era forte e ramificata e comprendeva oltre alle conferenze nazionali, famiglie religiose, gruppi linguistici, ma soprattutto laboratori ideologici, come quello di Cuernavaca in Messico, di Bologna in Italia, di Lovanio in Belgio. Il padre Congar, il propugnatore della vera Riforma della Chiesa, nel suo Diario del Concilio ha chiarito come il nemico da abbattere fosse la teologia romana, soprattutto nella forma in cui era allora insegnata alla Lateranense.
Di fronte a questa minoranza organizzata, i vescovi e teologi fedeli a Roma reagirono solo tardivamente e senza l’intelligenza strategica dei loro avversari. Secondo una studiosa, Melissa Wilde, il successo dei progressisti può essere spiegato la minoranza progressista prevalse anche grazie alla migliore strategia e organizzazione, occorre dire che la storia è sempre fatta da minoranze e ciò che prevale, nello scontro, non è il numero e neanche l’organizzazione, ma la determinazione e l’intensità con cui queste minoranze combattono le loro battaglie. Fu questa una delle cause del successo dell’ala progressista. Successo o sconfitta? Le rivendicazioni dell’ala giacobina furono certo respinte. I documenti non corrisposero alle attese dei progressisti più audaci ed è grazie ai compromessi raggiunti in extremis che oggi quei documenti possono essere letti anche alla luce della Tradizione. Ma l’immagine che il mondo aveva della Chiesa cambiò. Quando il 12 ottobre 1963 mons. Franić, vescovo di Spalato, propose che nello schema De Ecclesia al nuovo titolo di Chiesa “pellegrinante” fosse aggiunto quello, tradizionale, di “militante”, la sua proposta fu respinta. L’immagine che la Chiesa doveva offrire di sé al mondo non era quella della lotta, della condanna, della controversia, ma del dialogo, della pace, della collaborazione ecumenica e fraterna.
La minoranza progressista si propose non tanto di mutare la dottrina della Chiesa, ma di sostituire all’immagine sacrale e gerarchica della Chiesa quella di un’assemblea democratica, aperta alle novità, immersa nella storia. Ciò avvenne soprattutto attraverso la Rivoluzione del linguaggio, metodo pastorale per eccellenza. Alle professioni di fede e dei canoni si sostituì un “genere letterario” che uno studioso del Concilio, il padre O’Malley chiama “epidittico”. Questo modo di esprimersi, secondo lo storico gesuita, “segnò una rottura definitiva con i Concili precedenti”. Esprimersi in termini diversi dal passato, significa accettare una trasformazione culturale più profonda di quanto possa sembrare. Lo stile del discorso rivela infatti, prima ancora che le idee, le tendenze profonde dell’animo di chi si esprime. “Lo stile – sottolineò O’Malley – è l’espressione ultima del significato, è significato e non ornamento, ed è anche lo strumento ermeneutico per eccellenza”. L’aspetto pastorale è, di norma, accidentale e secondario rispetto a quello dottrinale, ma nel momento in cui diviene una dimensione sostanziale e prioritaria, il modo in cui la dottrina viene formulata si trasforma esso stesso in dottrina, più importante di quella che, oggettivamente, viene veicolata.
I leader del Concilio, continua O’Malley, “capivano benissimo che il Vaticano II, essendosi autoproclamato concilio pastorale, era proprio per questo anche un Concilio docente (…). Lo stile discorsivo del Concilio era il mezzo, ma il mezzo comunicava il messaggio”. “Questo significa che il Vaticano II, il ‘Concilio pastorale’, ha un insegnamento, una ‘dottrina’, che in gran parte è stato difficile per noi formulare, poiché in questo caso dottrina e spirito sono due facce della stessa medaglia”. La scelta di uno “stile” di linguaggio con cui parlare al proprio tempo rivela un modo di essere e di pensare e in questo senso si deve ammettere che il genere letterario e lo stile pastorale del Vaticano II non solo esprimono l’unità organica dell’evento, ma veicolano implicitamente una coerente dottrina.
Sotto questo aspetto il Concilio segnò indubbiamente un profondo cambiamento nella vita della Chiesa. I contemporanei ne avvertirono il carattere epocale. “Si parlò – ricorda lo storico americano Josef Komonchak – di una svolta storica; la fine della controriforma o dell’epoca tridentina, la fine del Medioevo, la fine dell’era costantiniana”. “Semplicemente – rileva Melissa Wilde – il Vaticano II rappresenta l’esempio più significativo di cambiamento religioso istituzionalizzato dal tempo della Riforma”.
Sotto questo aspetto, non si può negarlo, il Concilio costituì una Rivoluzione. A questo punto potrei essere accusato, come è già avvenuto, di essere un fautore della ermeneutica della discontinuità, in contrasto con la ermeneutica della continuità di Benedetto XVI. Queste accuse che hanno accompagnato la pubblicazione del mio recente libro sono arrivate al punto di cercare di mettermi contro Benedetto XVI (così Massimo Introvigne su “Avvenire”) e perfino contro Pio XII (così lo storico Alberto Melloni sul “Corriere della Sera”). Si tratta di palesi distorsioni del mio pensiero che esigono una rettifica per il profondo amore e rispetto che provo verso Pio XII e verso il regnante Pontefice Benedetto XVI.
Per quanto riguarda Pio XII il discorso è molto semplice: ho una somma venerazione verso il suo Magistero che rappresenta, come ho scritto nel mio libro, una vera summa dottrinale, una preziosa miniera a cui è ancora oggi utilissimo attingere. Ma Pio XII, che fu uno straordinario diplomatico, non ebbe l’esperienza di Pastore che aveva avuto il Papa che pure tanto amava, Pio X. E nella repressione del male che serpeggiava nella Chiesa – uso il termine serpeggiare che a Melloni non piace, perché indica bene l’atteggiamento infido del serpe che striscia nella penombra per colpire all’improvviso con il suo veleno – il venerabile Pio XII non fu, a mio parere, altrettanto pronto e vigoroso di san Pio X.
Va precisato che lo storico differisce dall’agiografo. Chi legge l’intramontabile Storia dei Papi di Ludwig von Pastor sa che lo storico tedesco non lesinò rispettose critiche ai numerosi pontefici da lui presi in esame. È sul piano storico che io esprimo giudizi nei confronti di Pio XII, Giovanni XXIII; Paolo VI, senza che ciò debba scandalizzare nessuno. Tra questi è proprio verso Pio XII che esprimo la maggiore ammirazione. Chi critica Pio XII non sono io, ma lo storico Alberto Melloni, che sul “Corriere della Sera” del 9 gennaio 2005 si è pronunciato contro la sua beatificazione definendolo “un Papa solitario e calcolatore, nella cui figura gli elementi politici dominano per logica interna”.
Ma l’accusa di fondo che è stata rivolta al mio testo è un’altra: nel mio libro non distinguerei i testi del Concilio dal suo contesto storico, fondendo e unificando testi e contesto in unico evento. Con ciò assorbirei e fagociterei il testo nel contesto cadendo in una sorta di strutturalismo come, in ultima analisi, fa la scuola di Bologna.
Chi lancia questa accusa è però un lettore frettoloso o tendenzioso. Infatti io affermo esattamente il contrario di quanto mi si attribuisce. Non ho mai negato la distinzione logica tra testo e contesto. L’impossibilità di separarli non significa impossibilità di distinguerli. Nego la tesi della scuola di Bologna, secondo cui i testi vadano assorbiti nel contesto, ovvero nell’evento e spirito del Concilio. Sostengo invece che vanno ben distinti i testi dottrinali dal contesto storico del Concilio. I testi hanno una loro autonomia, una loro importanza, una loro dignità, ma vanno esaminati in quanto testi sul piano teologico. Non ho l’autorità né la competenza teologica per formulare questa valutazione teologica e mi rimetto al giudizio di un eminente ecclesiologo come mons. Brunero Gherardini, che fin dagli anni Settanta, il mio maestro universitario Augusto Del Noce ricordo definiva il migliore teologo romano.
Dove rivendico competenza è sul piano storico ed è sotto questo aspetto che studio un contesto comprensivo anche, necessariamente, dell’elaborazione dei testi. È sul piano storico, non sul piano teologico, che giudico il Concilio una Rivoluzione nella Chiesa e, per molti aspetti, un evento disastroso. Ed è invece sul piano teologico, e non su quello storico, che Benedetto XVI ci invita a seguire, in modo però non conclusivo né definitorio, l’ermeneutica della continuità.
Ermeneutica della continuità che, d’altra parte, può essere intesa in un solo modo: quello di leggere i documenti del Concilio alla luce del precedente Magistero della Chiesa, attraverso un metodo preciso: laddove si ravvisano ambiguità, incertezze, appunti di contraddizione, assumere come punto di riferimento la Tradizione.
I documenti promulgati dalle supreme autorità ecclesiastiche non hanno infatti, dal punto di vista teologico, il medesimo valore. Se Benedetto XVI esprime alcune opinioni in un’intervista, come è accaduto nel suo ultimo libro Luce del mondo, è evidente che esse vadano accolte con il massimo rispetto, perché chi parla è, comunque, il Vicario di Cristo. Ma è altrettanto evidente che tra un’intervista e la definizione di un dogma c’è una gradazione di autorità che non impegna, al medesimo livello, l’ossequio dei fedeli. Lo stesso può dirsi di un Concilio come il Vaticano II, che in quanto riunione solenne dei vescovi uniti al Papa, ha proposto insegnamenti autentici non certo privi di autorità. Il suo Magistero – come ha ben spiegato mons. Gherardini – è certamente solenne e supremo. Ma solo chi ignora la teologia potrebbe attribuire un grado di “infallibilità” a tutti i suoi insegnamenti.
Perché, se si volesse intendere capovolgere il metodo ed affermare che la continuità va letta assumendo come punto di riferimento non la Tradizione, ma il Concilio: se si volesse cioè leggere la Tradizione alla luce del Concilio e non viceversa, bisognerebbe attribuire al Concilio quel valore di infallibilità, che mai nessun testo del Concilio ha in sé, e allora bisognerebbe cercare l’infallibilità del Concilio nell’evento stesso, nel suo spirito, nell’impalpabile carisma che anima i testi senza tradursi in formule definitorie. Ma questa è esattamente la posizione della scuola di Bologna, non è certo quella di Benedetto XVI.
L’affermazione secondo cui il Concilio II va inteso in continuità con il Magistero della Chiesa presuppone infatti l’esistenza nei documenti conciliari di passaggi dubbi o ambigui, che necessitano una interpretazione. Per Benedetto XVI il criterio di interpretazione del passaggio dubbio non può che essere la Tradizione della Chiesa, come egli stesso ha più volte ribadito. Se si ammettesse invece che il Vaticano II fosse il criterio ermeneutico per rileggere la Tradizione, bisognerebbe attribuire, paradossalmente, forza interpretativa a ciò che ha bisogno di essere interpretato. Interpretare la Tradizione alla luce del Vaticano II, e non il contrario, sarebbe possibile solo se si accettasse la posizione di Alberigo, che attribuisce valore interpretativo non ai testi, ma allo “spirito” del Concilio. Tale non è però la posizione di Benedetto XVI, che critica l’ermeneutica della discontinuità, proprio per il primato che essa attribuisce allo spirito sui testi. O si ritiene, come mons. Gherardini, che le dottrine del Concilio non riconducibili a precedenti definizioni, non sono né infallibili né irreformabili e dunque nemmeno vincolanti, oppure si assegna al Concilio un’autorità tale da oscurare le altre venti precedenti assisi della Chiesa, abrogandole o sostituendole tutte. Su quest’ultimo punto sembra non esserci differenza tra gli storici della scuola di Bologna e sociologi come Massimo Introvigne che sembrano attribuire valore di infallibilità al Vaticano II.
D’altra parte, il lavoro storico è complementare a quello teologico e non dovrebbe preoccupare nessuno. Bisognerebbe rinunziare a scrivere la storia del Concilio Vaticano II in nome della “ermeneutica della continuità”? O lasciare che a scriverla sia solo la scuola di Bologna, che ha offerto contributi scientificamente pregevoli, ma ideologicamente tendenziosi? E se elementi di discontinuità dovessero emergere, sul piano storico, perché temere di portarli alla luce? Come negare una discontinuità, se non nei contenuti, nel nuovo linguaggio del Concilio Vaticano II? Un linguaggio fatto non solo di parole, ma anche di silenzi, di gesti e di omissioni, che possono rivelare le tendenze profonde di un evento più ancora del contenuto di un discorso. La storia dell’inspiegabile silenzio sul comunismo da parte di un Concilio che avrebbe dovuto occuparsi delle principali questioni del mondo è ad esempio un fatto clamoroso e catastrofico che allo storico non è lecito ignorare.
Sono anche stato criticato per aver stabilito una continuità tra Concilio e post-Concilio. Ma il Concilio Vaticano II non può essere presentato come un evento che nasce e muore nello spazio di tre anni senza considerarne le profonde radici e le altrettanto profonde conseguenze che esso ebbe nella Chiesa e nella società.
Già all’indomani del Concilio l’orizzonte della Chiesa vedeva il crollo delle certezze dogmatiche; il relativismo della nuova morale permissiva; l’anarchia in campo disciplinare; le defezioni dal sacerdozio e l’allontanamento dalla pratica religiosa di milioni di fedeli; l’espulsione dalle chiese di altari, balaustre, crocifissi, statue di santi, arredi sacri, ma soprattutto il crollo delle vocazioni e l’abbandono della vita religiosa. È lo storico gesuita Giacomo Martina a scriverlo, nel 1977. “Per la prima volta nella storia – scriveva – si è assistito all’abbandono del sacerdozio, pur con tutte le dispense necessarie, da parte di migliaia di preti, nel giro di pochi anni”.
Il bilancio complessivo del quarantennio postconciliare 1965-2005, riguardo alle perdite totali e percentuali dei principali istituti religiosi, sarà ancora più drammatico. Se i religiosi dei principali istituti maschili erano 329.799 nel 1965, nel 2005 ne restavano 214.913, circa un terzo erano venuti meno nei 40 anni di post-concilio.
Come negare l’esistenza di una profonda crisi della Chiesa post-conciliare più volte ammessa dallo stesso Paolo VI, da Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI? Ogni evento però ha una causa proporzionata. Possibile che il Concilio Vaticano II fosse estraneo alla crisi del post-Concilio e che la cattiva interpretazione dei testi possa essere considerata una causa proporzionata per spiegare ciò che seguì? Si può davvero separare la Rivoluzione postconciliare dal Concilio?
Voglio ricordare solo un episodio, quando nel 1968 Paolo VI fu apertamente contestato dal cardinale Suenens per la promulgazione della enciclica Humanae Vitae. Ma chi era il cardinale Suenens?
Era il prelato a cui Paolo VI aveva concesso un privilegio senza precedenti, quando il 23 giugno 1963, pochi giorni dopo la sua elezione, lo aveva voluto accanto a sé, alla finestra del Palazzo apostolico, presentandolo alla folla riunita in San Pietro per l’Angelus. Era il giovane cardinale di Bruxelles che all’indomani della sua elevazione alla porpora era accorso a Roma per suggerire a Giovanni XXIII di dare un’impronta pastorale al Concilio. Era l’uomo che fin dall’inizio aveva stabilito un patto di ferro con mons. Helder Câmara, vescovo ausiliario di Rio, poi vescovo rosso di Recife, che si rivolgeva a lui, con un codice cifrato, chiamandolo “padre Miguel”. Era l’uomo prescelto per guidare i quattro “moderatori” del Concilio: una posizione chiave che avrebbe assunto per tre anni. Era l’uomo che già in Concilio, il 19 ottobre 1964, aveva sollevato il problema del controllo delle nascite, pronunciando in piena basilica di San Pietro, con tono veemente, le parole: “Non ripetiamo il processo di Galileo!”. Nessuno più di lui aveva vissuto il Concilio da protagonista. Il cardinale Suenens, ribelle a Paolo VI e alla Chiesa nel 1968, era un uomo diverso da quello che tre anni prima, aveva intonato il canto della vittoria alla chiusura del Concilio? Aveva cambiato la sua mentalità, aveva distorto i documenti del Concilio, ne aveva male interpretato lo spirito? Suenens non aveva bisogno di forzare o distorcere i documenti del Concilio perché Suenens, come Frings, Alfrink, Bea e tanti altri, era il Concilio.
Il nesso tra Concilio e post-Concilio non è il nesso dottrinale tra i documenti del Concilio e altri documenti del post-Concilio. È il rapporto storico, stretto e inscindibile, tra il Concilio, in quanto evento che si svolge tra il 1962 e il 1965 e il post-Concilio, in quanto evento che si svolge tra il 1965 e il 1978, e si protrae fino ai nostri giorni. Questo periodo, globalmente considerato, dal 1962 al 1978, anno della morte di Paolo VI, forma un unicum, un’epoca, che può essere definita come l’epoca della Rivoluzione conciliare, così come gli anni tra il 1789 e il 1796, e forse fino al 1815, costituirono l’epoca della Rivoluzione francese.
La pretesa di separare il Concilio dal post-Concilio è altrettanto insostenibile di quella di separare i testi conciliari dal contesto pastorale in cui furono prodotti. Nessuno storico serio, ma neanche nessuna persona di buon senso potrebbe accettare questa artificiale separazione, che nasce da partito preso, più che da serena e oggettiva valutazione dei fatti. Ancora oggi viviamo le conseguenze della “Rivoluzione conciliare” che anticipò e accompagnò quella del Sessantotto. Perché nasconderlo? La Chiesa, come affermò Leone XIII, aprendo agli studiosi l’Archivio Segreto Vaticano, “non deve temere la verità”.
La sua missione, come affermava Pio XII, non può svolgersi ed adempiersi con la benedizione del cielo se non sotto la divisa terrena non metuit! È sotto questa divisa che, seguendo le indicazioni del Santo Padre Benedetto XVI, tutti noi, sacerdoti e laici, dobbiamo assumerci l’impegno, di aprire coraggiosamente nuove strade, di tornare ad essere il sale del mondo.
Io credo che uno dei primi nostri compiti sia oggi quello di rinnovare l’immagine della Chiesa, abbandonando ogni forma di cattiva pastorale. Se infatti una dottrina ha il suo criterio di giudizio ultimo nella verità che essa esprime – una dottrina è buona e giusta se è vera – il metodo pastorale ha il suo criterio di verifica nei risultati che raggiunge: un metodo pastorale è buono e giusto se funziona, se ottiene i risultati previsti. Ciò non fu il caso del Concilio Vaticano II, che si auto qualificò pastorale, ma proprio sul piano pastorale fu contraddetto dai fatti. Molti teologi vollero trasporre il primato marxista della prassi nel primato religioso del pastorale sul dottrinale, ma entrambi i metodi furono condannati dal tribunale immanentistico a cui si appellavano: quello della storia.
Rinnovare la pastorale significa abbandonare il linguaggio sociologico, piegato alle esigenze del mondo e ritrovare il linguaggio perenne e universale della Chiesa, quello che parla alla mente e al cuore degli uomini attraverso la chiarezza della dottrina e la bellezza della verità; significa ritrovare il senso di una Chiesa militante, di una Chiesa che combatte perché vive nella storia, vive nella storia perché è un Corpo gerarchico e visibile, ma nella storia combatte per un fine che è soprannaturale e non terreno, perché il suo Corpo è Mistico, e ha in Gesù Cristo, unica via, verità e vita, il suo Capo e fondatore.
Nel 1953 Papa Pacelli invitava i giovani di Azione Cattolica a combattere contro i nemici della Chiesa, che muovono ad essa “una guerra terribile, con perfida strategia e subdola tattica”. “Muoiono gli uomini, anche quelli che sembrano immortali; crollano le umane istituzioni; si succedono gli uni agli altri, i più impensati tramonti. E a ogni alba nuova la Chiesa assiste serena ed è baciata dal sorgere di ogni nuovo sole”.
Riserva
Dove va la Chiesa?
In queste ore drammatiche ci chiediamo: dove va la Chiesa e, ancora più profondamente, dove è la Chiesa? Non la Chiesa invisibile dei docetisti, degli hussiti, o dei modernisti, ma il Corpo Mistico di Cristo, la Chiesa cattolica, apostolica, romana, riconoscibile dalle sue note visibili.
Ebbene mai come oggi è attuale la intramontabile definizione di san Roberto Bellarmino, che dice: la Chiesa è la comunità dei fedeli uniti dagli stessi sacramenti e dalla stessa fede, sotto la guida degli stessi pastori.
Questa e non altra è Chiesa e questa stessa definizione la ritroviamo nelle parole che il Divino Fondatore della Chiesa, Nostro Signore Gesù Cristo, rivolge ai nostri cuori, invitandoci a seguirlo.
“Io – ci dice il Signore con parole forti, dolci, esclusive – sono la via, la verità, la vita”. Potrebbe apparire che di questi attributi il più importante sia la verità: Ego sum veritas. La Chiesa, certo è dove è la verità, secondo la formula di san Vincenzo di Lerins, quella di cui non si può cedere neppure uno iota, quella che è racchiusa nella Tradizione Cristo è verità. Ma questa verità non è astratta come il logos greco, è vivificata dalla Grazia, e la fonte di ogni Grazia che fluisce attraverso i sacramenti è Cristo stesso. La Chiesa è dove sono i suoi sacramenti.
I sacramenti della Chiesa sono la fonte della nostra vita spirituale e questa vita spirituale ha la sua fonte in Cristo stesso. Ma la dottrina e la vita, la fede e i sacramenti non bastano, se non c’è una via da seguire. E nella Chiesa questa via la tracciano i legittimi pastori, che seguono a loro volta il Papa, successore di Pietro, Vicario di Cristo in terra.
La nota della apostolicità ci garantisce questa legittimità dei pastori, che ha la sua fonte ultima nel Buon Pastore per eccellenza, unica via.
Dove è la legittima gerarchia, dove è la vera fede, dove è la santità dei sacramenti, lì è la Chiesa. Cercando questi punti di riferimento, nulla abbiamo da temere perché dove troviamo la Chiesa una nella fede, santa nelle sue opere, e apostolica nella sua gerarchia lì troviamo Gesù stesso, via, verità e vita.