“Una conferenza di mons. Richard Williamson”
Restringendo la visuale all’ambito tradizionale che ruota intorno alla Fraternità San Pio X, sembra che qui il nemico di turno sia uno dei quattro vescovi, Mons. Richard Williamson, individuato come la causa principale della crisi esplosa nel 2012 in seno alla Fraternità.
Non v’è dubbio che a questa crisi abbiano concorso diversi fattori, alcuni legati anche alla valenza personale di questo o di quel responsabile della Fraternità, ma, piuttosto che soffermarsi a riflettere su tutti i fattori, e per primo su quelli generali, che sono i più importanti, certi fedeli preferiscono individuare delle responsabilità specifiche e personali, che permettano loro di evitare il gravoso impegno della riflessione e della valutazione complessiva del problema.
Il canovaccio è sempre lo stesso: si sostiene che il “colpevole” sia uso avanzare delle “insinuazioni” senza il sostegno di argomentazioni circostanziate. Certo una leggerezza, che scantonerebbe inevitabilmente nella colpa!
Ma come si argomenta per affermarlo? Ci si richiama non al ragionamento complessivo dell’incriminato, ma a questa o a quella affermazione, colta proprio sull’onda dell’emotività auto appagante.
Per esempio, si citano certi passi dei “Commenti Eleison” di Mons. Williamson per evitare di citare, ancora per esempio, la nota lettera dei tre vescovi al Superiore generale, del 7 aprile 2012, lettera che è un compendio serio della problematica sorta.
Ovviamente la citazione della lettera ridimensionerebbe di parecchio la supposta esclusiva responsabilità di Mons. Williamson, che è solo uno dei firmatari, ma questo non sarebbe funzionale allo scopo di individuare “un” colpevole. Tra l’altro, citando quella lettera, si sarebbe obbligati a citare poi la risposta del Superiore generale, ampliando così il ventaglio delle responsabilità, cosa che anch’essa non sarebbe funzionale allo scopo suddetto.Lungo questa linea di condotta, più epidermica che meditata, è inevitabile che si incappi in imprecisioni e fraintendimenti.
Per esempio: la citazione della parafrasi ai Galati (CE 257 - I Galati di oggi), serve per parlare, soggettivamente, di “velenose insinuazioni”, dimenticando che la lettera settimanale in oggetto è la n° 257 e che quindi presuppone le precedenti, al pari della lettera dei vescovi citata prima, tale che si finirebbe col constatare che non si insinua, ma si afferma… cose queste che sicuramente sono molto diverse.
Lo stesso dicasi per la citazione del CE 282 – Una spiegazione?, da cui si evincerebbe una sorta di pentimento o di incongruenza di Mons. Williamson.
In realtà, molto semplicemente, in quel Commento si dice invece:
Che in italiano significa che la spiegazione non spiega nulla e i dubbi sulla competenza e sull’onestà rimangono.
Nessun ripensamento, quindi.
Un argomento a sostegno della colpevolezza di Mons. Williamson, sarebbe il fatto che accuserebbe di “liberali” i sacerdoti della Fraternità che hanno promosso i noti incontri del GREC e vi hanno partecipato, senza “qualche straccio di prova” e solo sulla base delle “pagine di un libro scritto da un ex-ambasciatore” [nota nostra. si veda anche].
Il solito diavolo che dimentica di mettere i coperchi alle pentole.
Infatti, il libro è un resoconto di quei famosi colloqui ideati dal defunto ambasciatore e scritto non da lui, ma da uno dei promotori e dei partecipanti, cioè da chi è stato parte in causa insieme ai sacerdoti indicati prima.
Oltre al resoconto, quale altra prova si richiederebbe, forse un certificato di frequenza rilasciato da qualche circolo liberale, diverso da questo?
Ma perché Mons. Williamson avanzerebbe accuse gratuite?
Perché, pur senza prove, soggiacerebbe al suo “ancestrale pessimismo”; una sorta di fissazione maniacale che gli farebbe vedere nemici dove invece ci sarebbero solo amici.
Abbiamo l’impressione di trovarci di fronte al solito problema del bue che dice cornuto all’asino.
Sembrerebbe, infatti, che lo scopo dei colloqui del GREC sarebbe stato quello di convertire i liberali alla Tradizione, cosa che invece Mons. Williamson non avrebbe capito, nonostante le prove contrarie.
Quali prove? Per esempio che nessuno dei partecipanti al GREC abbia deciso di avvicinarsi alla Fraternità, restando fermo nel suo convincimento che avrebbe dovuto essere la Fraternità ad avvicinarsi a loro e a Roma. Cosa peraltro regolarmente accaduta a certi sacerdoti della Fraternità, come si evince chiaramente dalla lettera del Superiore generale ai tre vescovi, dove è detto, testualmente:
Ma si sostiene anche che tutti gli incontri effettuati “discretamente, riservatamente e quasi in segreto”, tra “sacerdoti, vescovi, religiosi e fedeli” e i membri della Fraternità, dimostrerebbero che l’approccio è produttivo e vantaggioso per la Fraternità e la Tradizione, perché i fatti sarebbero lì a dimostrare che il risultato è l’avvicinamento di questi “altri” alla Fraternità. E si fanno degli esempii, come quello di Don Massimo Sbicego, della diocesi di Vicenza.
Quindi “ben vengano gli incontri discreti, riservati e "quasi segreti" se lo scopo è quello di far comprendere, con amore e Carità, le autentiche necessità della Chiesa di oggi!”
Tutto vero, tranne alcuni particolari che capovolgono il ragionamento e impongono la constatazione che le iniziative pericolose e inopportune come quelle del GREC devono essere condannate.
Innanzi tutto i colloqui del GREC miravano alla conciliazione tra le posizioni della Fraternità e quelle della nuova Chiesa sorta col Vaticano II, e non certo all’illuminazione dei chierici di quest’ultima, che peraltro comprendevano anche quelli che erano già passati dalla Tradizione all’accordo con la Roma conciliare.
Secondariamente, questi colloqui non si svolgevano nei priorati della Fraternità, né a Menzingen o a Ecône, luoghi volutamente evitati da tanti chierici partecipanti al GREC, anche perché li avevano frequentati in passato ed erano giunti alla conclusione che bisognava abbandonarli.
In terzo luogo, per usare l’esempio di Don Sbicego, fu quest’ultimo che si trasferì dalla diocesi di Vicenza al Priorato di Rimini, e non i sacerdoti di Rimini che si accordarono con la diocesi di Vicenza, come si studiava di fare col GREC.
D’altronde, sarebbe davvero grottesco pensare che qualcuno sia davvero così ottuso da ritenere che l’apostolato non sia uno degli scopi della Fraternità fin dal suo nascere. Ma è certo grottesco convincersi che gli incontri del GREC siano stati opera di apostolato tradizionale, nonostante la dichiarata intenzione di trovare un punto di compromesso tra la Tradizione e la nuova Chiesa conciliare.
Evidentemente un certo ottimismo ama convincersi che la ricerca del compromesso dottrinale sia il modo migliore per fare apostolato, a riprova che più che la realtà oggettiva, certuni tengono sempre presente la realtà soggettiva, virtuale, che alimenta l’auto-appagamento.
Ne è prova l’affermazione che “la motivazione che portò i Papi del XIX secolo a scrivere così tante encicliche contro il liberalismo” sarebbe stata “la speranza di convertire e convincere attraverso l'argomentazione filosofica, teologica e magisteriale”.
Ora, chi avesse mai letto quelle encicliche si sarebbe reso conto che “oggettivamente” esse parlano a gran voce di denuncia e di rifiuto, e non inducono affatto una visione “soggettiva” che scambi questa denuncia per una profferta dialogica.
Sarebbe come se l’ammonimento scritturale: “Convertitevi e credete al Vangelo”, fosse considerata un’argomentazione filosofica o teologica o magisteriale volta a “convincere”.
Certo che poi si fa fatica a comprendere la tenuta di Mons. Williamson. Visto che egli si pronuncia semplicemente imitando la Scrittura, ecco che viene giudicato come privo di capacità e di volontà dialogica.
E la fatica è tale che si cade nella gaffe di paragonare sottilmente l’opera di Pio IX, ritenuto liberale dai liberali del tempo e da questi stessi successivamente disprezzato, con l’operato dei papi del post-Concilio, come se ce ne fosse stato anche solo uno ad aver scritto un’enciclica anche lontanamente paragonabile con quelle di allora!
In questo caso sì che Mons. Williamson sbaglierebbe a considerare liberali irriducibili i papi della Chiesa conciliare.
E questa sorta di ottimismo ad ogni costo, è inevitabile che porti a giudicare Mons. Williamson come un catastrofista o un millenarista, pericoloso; soprattutto ove si pensi che all’uomo della strada non piace che gli si ricordi che il castigo di Dio è sempre incombente, egli preferisce pensare che all’ultimo riuscirà a cavarsela per il rotto della cuffia.
Nel caso in specie, molti sono portati a considerare che in fondo poi le cose si aggiustano, visto che “normalmente, la via di Dio è quella ordinaria delegata all'azione umana degli uomini di Chiesa, e in special modo del Sommo Pontefice”, così da dimostrare di essere convinti che negli ultimi tre secoli – per limitarci alle piaghe fresche - la storia del mondo, e quindi della Chiesa, sia stata un alternarsi di cadute e di “ripresa della Verità”, grazie agli uomini di Chiesa.
Qui si va oltre l’ottimismo e si mette a nudo l’inconscia soggiacenza alle suggestioni del demonio, che suggeriscono una visione del mondo che sottovaluta il moto accelerato di caduta che regge il destino del secolo.
È un vecchio trucco sulfureo: bada uomo, non credere alla favola del pianto e dello stridore di denti annannita dal Vangelo, fida piuttosto nell’azione umana degli uomini di Chiesa!
È così che ci ritroviamo oggi, nel mondo, con l’esaltazione del vizio e, nella Chiesa, con l’esaltazione delle false religioni, anche a voler far finta che pur col modernismo e con i diritti dell’uomo, il Vaticano II e i papi abbiano svolto un prezioso lavoro di “ripresa della Verità”.
Ora, che il demonio sussurri è cosa risaputa, e che Dio permette, ma che dei cattolici tradizionali pensino che si tratti di uno zefiro rigenerante è cosa triste, che fa capire fino a che punto sia scaduta la tenuta della fede e la lucidità della ragione.
E l’annebbiamento è tale da far dire: “In ciò davvero può ravvisarsi, come affermato da mons Fellay nella lettera riservata ai tre Vescovi della FSSPX, una carenza di soprannaturalità nella concezione ecclesiologica e una scarsa fiducia nella forza intrinseca della Verità quando si confronta apertamente con l'errore.”
Questa frase è singolarmente rivelatrice dello scambio della realtà oggettiva con la realtà immaginaria e merita che ci si soffermi un po’.
Nella famosa lettera ai tre vescovi, il Superiore generale dice:
[…] Ampiezza: da una parte si addossano alle attuali autorità romane tutti gli errori e tutti i mali che si trovano nella Chiesa, tralasciando il fatto che esse cercano almeno in parte di liberarsi dai più gravi di essi (la condanna dell’«ermeneutica della rottura» denuncia degli errori ben reali). Dall’altra si pretende che TUTTI siano ancorati a questa pertinacia («tutti modernisti», «tutti marci»). Ora, questo è chiaramente falso. Una gran maggioranza è sempre implicata nel movimento, ma non tutti. Al punto che sulla questione cruciale tra tutte, quella della possibilità di sopravvivere nelle condizioni di un riconoscimento della Fraternità da parte di Roma, noi non arriviamo alla vostra stessa conclusione.” [neretto nostro]
La citazione è lunga, e ce ne scusiamo, ma è importante cercare di capire come possa scambiarsi la soprannaturalità con l’ottimismo e il realismo col desiderio personale.
Questa lettera fu scritta il 14 aprile 2012, e lo stesso Superiore generale, l’11 novembre successivo, dichiarava pubblicamente, in un’omelia:
Ancora una lunga citazione, che però permette di constatare che in questa omelia si ripete, dandolo per realtà ultimamente accertata, quello che avevano descritto i tre vescovi e che ad aprile era stato contestato, confessando così implicitamente che non erano i vescovi a sbagliare e a mancare di soprannaturale e di realismo, ma era proprio il Superiore generale ad essere erroneamente convinto che tutto andasse verso il bene e che si potesse corrispondere alla “volontà ferma e giusta” espressa dal Papa: ratificando un accordo.
Non è quindi Mons. Williamson, con gli altri vescovi, a disperare del “ritorno della Roma conciliare alla Roma eterna”, ma è l’ottimismo soggettivo del Superiore generale, e di altri chierici e fedeli della Fraternità, ad impedire che essi possano cogliere la realtà oggettiva in cui si trova la compagine ecclesiale cattolica moderna.
Non c’era bisogno di alcun ricorso al soprannaturale per capire, ad aprile, che il Papa voleva condurre la Tradizione al modernismo e non esprimeva “una volontà ferma e giusta”, ma una volontà inevitabilmente liberale: fare accettare ai fedeli tradizionali la realtà antitradizionale del Concilio.
Fu invece per l’intervento provvidenziale della Madonna, come dice Mons. Tissier de Mallerais, che a luglio il Papa confermò a Mons. Fellay che la Fraternità doveva accettare il Concilio, la nuova Messa e il Magistero postconciliare, ridimensionando mesi di interventi di Mons. Fellay con i quali egli assicurava che il Papa voleva la Fraternità nella Chiesa, senza gravose condizioni, secondo “una volontà ferma e giusta”, per aiutare la Chiesa a tornare alla Tradizione.
Se si fosse dato ascolto a Mons. Williamson e agli altri vescovi, si sarebbe evitata la crisi nella Fraternità e la cacciata di tanti sacerdoti, compreso Mons. Williamson; si sarebbe evitato di sconfessare, sette mesi dopo, le improvvide rosee aspettative di aprile; si sarebbe evitato di doversi giustificare affermando di essere stato ingannato; si sarebbe evitato di diffondere la confusione tra i fedeli e si sarebbe evitato di alimentare la caccia al reprobo per camuffare l’annebbiamento della ragione che aveva invaso la mente di certi responsabili della Fraternità.
Così che, a posteriori, vista la fine che ha fatto l’ottimismo del Superiore generale, si comprende che Mons. Williamson non soffre di “ancestrale pessimismo”, ma di sano realismo e di illuminata lungimiranza.
Quella lungimiranza che lo porta a ricordare a tutti scomode prospettive, come quella della stabilizzazione del “piccolo resto”, concetto non inventato da lui, ma determinato dall’oggettiva condizione in cui si trova sempre più la compagine cattolica nel seno di questo mondo che si muove con moto accelerato verso la resa dei conti definitiva. Cosa che non attiene al millenarismo, ma al ritorno ineluttabile del Figlio dell’Uomo, quando saranno contati i capri e le pecore e sarà dato ad ognuno secondo i meriti e i demeriti di ciascuno, al di là delle buone intenzioni, degli ottimismi e delle speranze umane e terrene.
Ed è compito di questo “piccolo resto” condurre l’apostolato fino alla fine, con la testimonianza e con il richiamo all’essenziale, che è l’unico modo per aiutare il prossimo a “convertirsi e a credere al Vangelo”.
Non è con la sola predicazione della Verità che si aiuta il prossimo, ma, in questo mondo sempre più dimentico di Dio, è anche con la necessaria condanna e col sacrosanto rifiuto dell’errore, ovunque esso si annidi, massimamente nel seno stesso della Chiesa e ai suoi vertici.
È questa la vera predicazione e la vera messa a frutto dei talenti assegnatici dal Signore: ricordare al prossimo che perseverando nell’errore si affretta il castigo di Dio. Tutto il resto è accademia e dialettica moderna, dove continua ad allignare la mala erba della “medicina della misericordia” che rifugge dalla condanna dell’errore; la mala erba della Verità che si affermerebbe da sola “quando si confronta apertamente con l’errore”, come se la Verità potesse minimamente confrontarsi con la sua negazione, con l’errore appunto, senza che a questo si finisca col riconoscere una positiva realtà che non ha.
L’errore è una negazione, e qualunque studente medio sa che l’accostamento tra un numero di segno negativo ed uno di segno positivo, dà come risultato un numero negativo, come accade esattamente nel caso del “confronto” o “dialogo” che dir si voglia, mentre l’unica volta che scaturisce un numero di segno positivo è quanto non c’è più confronto, ma somma algebrica: +100, che è la verità, accostato a -10, che è l’errore, dà come risultato + 90, confermando due leggi innegabili dell’esistenza.
La prima: che la Verità non si “confronta” con l’errore, ma lo distrugge, lo annienta a priori.
La seconda: che nel corso dell’esistenza, la lotta all’errore indebolisce umanamente la verità, riducendone sempre più l’apparenza quantitativa, quasi a dimostrazione che la diminuzione della quantità – il piccolo resto - è il correlativo del mantenimento della qualità – sempre del piccolo resto –; così che di fronte al perire quantitativo del secolo, si mantenga la necessaria qualità, seppure umanamente ridotta al minimo, come sta scritto: anche per un solo giusto sarà ritardato il castigo.
Dibattiti, prove, testimonianze, controprove, precisazioni e puntualizzazioni.
RispondiEliminaE' molto triste notare questo continuo dibattimento tra due posizioni in seno a quella che era una sola comunità, un tempo.
Inevitabilmente uno sprovveduto si chiede "perchè succede questo? "
Uno che ha seguito la vicenda si risponde "perchè il superiore generale ed altri hanno cercato di riavvicinare posizioni inconciliabili".
Tutto quadra, ma manca la domanda principale che intendo fare io ed a cui dare pure la risposta sulla base di quel che ho conosciuto.
"PERCHE' E' SUCCESSO TUTTO QUESTO ?"
Risp.
"PERCHE' MONS LEFEBVRE NON AVEVA POSTO SUFFICIENTI BASI PERCHE' LA COMUNITA' PROSEGUISSE CON OBIETTIVI CERTI ! OVVERO AVEVA SCARTATO PERCHE' NON ANCORA MATURA PER I FEDELI , L'IPOTESI DI SEDE VACANTE."
Come si può andare avanti dicendo che il tuo capo non funziona e non puoi obbedirgli, ma è comunque il tuo capo ???
Si arriva ad una schizofrenia comportamentale che non può durare a lungo!
In campo religioso la situazione diventa ancor più pesante psicologicamente e si finisce per azzuffarsi a vicenda per garantire quel che appare la via più giusta.
Ma non rendendosi conto che proprio questa dimensione di ragionamento è sbagliata di base e porta all'irrazionalità.
COME PUOI CONTINUARE A SOSTENERE " E' IL MIO CAPO, LO RICONOSCO COME CAPO MA NON GLI OBBEDISCO !"
Se è il tuo capo e lo riconosci come tale gli obbedisci! Punto e basta.
Se non gli obbedisci per ragioni che tu sostieni, giuste o sbagliate che siano, significa DI FATTO, che non lo riconosci come capo !
Se non lo riconosci come tuo capo e ,quindi, non obbedisci, devi assumere un atteggiamento diverso e staccarti da una posizione di ossequio e rispetto verso di lui.
L'ibridazione comportamentale basata solo sulla dialettica di linguaggio produce prima o poi delle devastazioni mentali e delle scissioni in qualunque gruppo che si sostenga sulla base di sole argomentazioni mentali non supportate da comportamento congruo e pratico.
La Fraternità San Pio X non poteva proseguire sulla stessa strada intrapresa da Lefebvre.
Anzitutto perchè lui fu il capo indiscusso della reazione cattolica ed il suo ascendente impediva scissioni gravi.
Poi perchè le sue direttive ultime, di dichiarare la vacanza della sede apostolica, sono state disattese e dimenticate perchè troppo devastanti per la mentalità cattolica che è papalina per eccellenza.
Ora si arriva al rendiconto. Tutto qua!
Quello che dice Mardunolbo è vero.
RispondiEliminaQuesti post, infatti, in cui si dibatte su questi contorcimenti interni alla fraternità san Pio X, mi fanno così tanta noia che non riesco a leggerli.
La realtà è pratica: o un capo si segue e lo si riconosce, o non lo si segue e quindi non lo si può riconoscere. Ogni scelta mediana comporta un tal contorsionismo dello spirito che non può non essere a nocumento dell'equilibrio psichico.
La posiione attuale della Fraternità è molto difficilmente tenibile.
Più il tempo passa e il cattoicesimo si "evolve" più è difficile giustificare certe cose.
E, d'altronde, questo spiega perché ci siano state strane "conversioni" di lefebvriani alla Chiesa conciliare. Ho in mente quella di un ricco laico, gran benefattore della Fraternità, costruttore di un suo priorato in Veneto, il quale, in un certo momento, si è perfettamente adeguato alla "Chiesa conciliare" abbandonando la Fraternità. Oggi ha pure ricevuto delle onorificenze pontifice. Queste persone, una volta fatto il passo, sono pronte ad accettare tutto: pure la messa coi pupazzoni di Bergoglio (come fece in Argentina). Solo ieri per una cosa del genere avrebbero vomitato.
Mardunolbo scrive:
RispondiElimina"La Fraternità San Pio X non poteva proseguire sulla stessa strada intrapresa da Lefebvre.
Anzitutto perchè lui fu il capo indiscusso della reazione cattolica ed il suo ascendente impediva scissioni gravi.
Poi perchè le sue direttive ultime, di dichiarare la vacanza della sede apostolica, sono state disattese e dimenticate perchè troppo devastanti per la mentalità cattolica che è papalina per eccellenza".
Questo è così vero che monsignor Lefebvre, in gran parte della sua vita, pensava che la crisi conciliare dovesse rientrare: "Quando presto o tardi questa crisi passerà", diceva. E pensava che quando passasse le cose tornassero pressapoco come sotto Pio XII. Lui prese questa posizione di "attesa" proprio perché pensava che le cose rientrassero. Ma non si può attendere per sempre e contro ogni buon senso!!
Lui stesso iniziò a sospettarlo, vicino alla morte, al punto da sfiorare le posizioni sedevacantiste.
La Fraternità, oggi, si trova a metà guado, decisa con il suo capo ad attraversarlo, costi quel che costi. Ma dall'altra parte, la situazione si è ancora più deteriorata e non cessa di deteriorarsi.
Questo comporta ai fedeli della Fraternità una pressione psicologica non da poco e, penso, sia una situazione di profondo disagio nella quale, alla fine, si pongono con le loro stesse mani.
Cominciare chiaramente a chiamare "cavallo" quello che è cavallo e "capra" quello che è capra è l'unica via di uscita. Cercare di chiamare "capra" il "cavallo" e viceversa, adduccendo motivazioni verbali molto contorte, mi pare, invece, assai problematico e dannoso.