Sac. Francesco Bosello
Dissertazione storico-teologica sopra la disciplina de' Greci circa
il Celibato sacerdotale, Venezia 1826 pag. 11-27.
DIATRIBA SOPRA LA DISCIPLINA DELLA CHIESA GRECA CIRCA IL CELIBATO
ECCLESIASTICO.
Sogliono i nemici dell'Ecclesiastico Celibato, come testè io
diceva, o Accademici, opporre in difesa del loro falso pensare la
disciplina de' Greci che da molti secoli invalse, cioè di
permettere a' Diaconi ed ai Sacerdoti di ritenere le mogli che avevano
prima della loro Ordinazione, a patto però che nel tempo del
loro Ministero all'Altare ne stiano lontani. Cosa notissima e ne' suoi
principj, e ne' suoi fondamenti, e ne' suoi progressi per qualunque non
digiuno dell'Ecclesiastiche cognizioni, a grado che parrebbe superfluo
discuterla fra' Latini, onde abbattere l'opposizione avversaria. Pure a
difesa sempre maggiore del vero farne conviene l'esame più
diligente, acciò trionfi la verità e scornato rimanga il
nemico della veneranda disciplina della Romana Chiesa, Madre, Maestra
di tutte le Chiese del Mondo. Quindi si stabiliscono le tre seguenti
proposizioni.
I. Il Celibato anche nella chiesa Greca si osservava dagli
Ecclesiastici ne' primi secoli sino al secolo settimo circa.
II. Il cambiamento della disciplina del Celibato fra' Greci ebbe
un'origine apparentemente legale solo al tempo del concilio Trullano,
origine spuria ed erronea.
III. La Chiesa Romana non solo si oppose a tal rilassamento di
disciplina fra' Greci, benchè in seguito l'abbia tollerato, ma
da quell'epoca sempre più confermò la disciplina sua
dagli Apostoli ereditata.
Se nella trattazione di queste proposizioni, nauseasse il lettore 1a
troppo lunga prolissità, avverta che senza un'analisi
relativamente completa esaurirsi non può polemicamente un
argomento di tanta importanza.
PROPOSIZIONE I.
Il Celibato anche nella Chiesa
Greca si osservò dagli Ecclesiastici ne' primi secoli sino al
secolo settimo circa.
La pruova fondamentale di questa proposizione è tutta
appoggiata
ad un fatto, cioè che fin dagli Apostoli la Chiesa tutta
d'Occidente e d'Oriente osservato abbia il Celibato nel Clero.
Omettendo le prove speculative di deduzione, che sarebbero però
sempre dimostrative, e dal Santo Evangelio (Matth. 19) e da San Paolo
(I. Tim. 3. 2., I. Cor. 7. 27. 32. 33. 34. II. Tim: 2. 22. ) e dalla
stessa teologica ragione; si venga alle
pruove di autorità decisive, dalle quali si conosce che
l'Apostolico stabilimento del Celibato Sacerdotale si mantenne
nei tre primi secoli, ancorchè non vi fosse ancora una legge
positiva che lo precettasse; si mantenne, dissi, costante e generale
per modo, che non solo non ci dà la Storia fondamento alcuno per
conchiudere che siasi alterata giammai nell'epoca fissata
tale venerabile disciplina, ma tutti i documenti ci offre più
certi dell'invariata e costante perpetuità di esso.
E prima si presenta l'autorità veneranda di tutt'i Vescovi
dell'Africa i quali nell'anno circa 396 radunati nel secondo
Concilio Cartaginese comandando l'osservanza dell'Ecclesiastico
Celibato nelle loro Diocesi e Provincie in faccia a tutto il mondo
esclamano: ut quod Apostoli
docuerunt et ipsa servavit antiquitas nos
quoque custodiamus
(Can. 2.). Ma gli Apostoli predicarono anche in
Grecia: dunque anche in Grecia insegnarono la preziosità ed
inculcarono l'osservanza nel Clero di quella virtù che fa gli
uomini agli Angeli uguali, cioè a dire la vita celibe affatto.
Quindi è che San Girolamo Padre del 5. secolo nell'Apolog.
contra Jovinianum, indubitatamente afferma «Apostoli vel
Virgines, vel post nuptias continentes... adsumpti in Apostolatum
reliquerunt officium conjugale». E di quà ne venne,
prosegue esso S. Dottore, che nelle Chiese d'Oriente e d'Occidente si
osservò sempre mai sino a' suoi tempi il Sacerdotal Celibato:
«Quid facient Orientis Ecclesiae? quid Ægypti et Sedis
Apostolicae? quae aut virgines Clericos accipiunt, aut continentes, aut
si uxores habuerint, mariti esse desistunt?» Fanno eco
perfettamente al citato Padre Latino i Greci Padri tutti, fra quali
Origene Hom. 23. in Num. dice. «Illius est solius afferre
sacrificium indesinens, qui indesinenti et
perpetuae se devoverit castitati». S. Epifanio eletto Vescovo di
Salamina circa l'anno 366. Haer. 49. n. 7. così si esprime:
«Quum Sacerdotalia Christus munera et ornamenta
cum iis qui post unas nuptias continentiam servarint aut in virginitate
perstiterint communicanda esse velut in
exemplari monstraverit... Id quod Apostoli deinde honeste et religiose
decreverunt per Ecclesiasticam Sacerdotii regulam». Lo stesso
Santo
Padre nel fine della sua opera contra
haereses
dipinge lo
spirito e la Disciplina della Chiesa su questo argomento
là dove dice: «Sanctum Sacerdotium ex virginibus ut
plurimum, aut ex solitariis, aut si hi ad ministerium
non suffecerint, ex his constituitur qui propriis ab uxoribus se
continent. Et si quis ab initio continens fuerit aut viduus, habere
potest locum Episcopi, Presbyteri, Diaconi aut Subdiaconi».
Parla con eguale chiarezza nell'Eresia 59 de' Catari dicendo:
«Sed et liberos gignentem unius uxoris virum Ecclesia non
adscripsit, sed eum qui se ab una continuit aut
in viduitate vixit Diaconum aut Hypodiaconum, aut Episcopum aut
Presbyterum, maxime ubi sinceri sunt
canones Ecclesiastici». S. Giovanni Grisostomo poi nell'Omilia de
patientia Job così ìnsegna.
«Sic dicit Apostolus unius uxoris virum, non ea ratione ut id
nunc ab Ecclesia observetur; oportet enim prorsus castitate Sacerdotem
ornatum esse». Ed il Nisseno nel libro de Virgin. capo ultimo
afferma «non obtemperare legi prohibenti» quel Sacerdote
che nuptiali opere impurus
sacrificium offert».
S. Cirillo di Gerosolima nella sua 12. Catechesi così si esprime
«Qui apud Jesum bene fungitur Sacerdotio, abstinet a muliere:
ipse Jesus quomodo ex viro ac muliere proditurus esset?»
Eusebio
poi nella Dimostrazione Evangelica lib. 9. cap. 9. apertamente dice:
«Τοῖς ἱερωμένοις cioè illis qui sacrati sunt atque in Dei
ministerio cultuque sunt occupati, continere deinceps se ipsos convenit
a commercio uxoris.»
Affine poi di troncare ogni prolissità nauseante di altre
autorità (che d'altronde sarebbero senza numero) onde provare il
fatto di cui si tratta, facciasi l'onore non meritato al proscritto dai
Fulmini Ecclesiastici Marco Antonio de Dominis Arcivescovo di Spalatro [Spalato, N.d.R.],
di citare cioè le di lui parole che serviranno d'ultima efficace
e non sospetta testimonianza al nostro proposito: «Ecclesia
semper (ei dice lib. 4. c. 10. n. 3.) vel ab ipsis ejus incunabulis in
suis ministris plurimum amavit, commendavit, et etiam interdum
praecepit continentiam.» Anzi nel numero 9. aggiunge essersi
praticata tale disciplina «per decretum commune totius
Ecclesiae». Anche per confessione adunque degli stessi nemici
della Romana Chiesa il Celibato Sacerdotale nato col Vangelo e
cresciuto si mantenne sempre nella Cattolica Comunione, anzi per mezzo
di Ecclesiastiche Leggi vie maggiormente consolidossi. Esaminiamole
colla storia alla mano, ed analizziamole in prova solidissima della
prima nostra proposizione.
Le prime leggi che fuori d'ogni controversia ci offre la storia sul
nostro argomento si trovano nei due particolari Concilj Eliberitano ed
Ancirano. Il primo tenuto circa l'anno 313. così decreta nel
canone 33. «Placuit in totum prohibere Episcopis, Presbyteris,
Diaconis, ac Subdiaconis positis in Ministerio abstinere se a
conjugibus suis, et non generare filios. Quod quicumque fecerit, ab
honore Clericatus exterminetur.» Serio comando e pena severissima
ch'emanati in un Sinodo particolare sarebbero stati contraddetti se non
vi fosse stata nella Chiesa di Dio l'esatta osservanza del Celibato
dovunque e prima di questa legge.
Il Concilio d'Ancira poi (di cui tanto abusarono i Greci) tenuto
nel 314 comprova la disciplina costante di cui trattiamo colla seguente
legge che promulgò: «Quicumque Diaconi ordinati in ipsa
ordinatione protestati sunt, et dixerunt oportere se uxores ducere, cum
non possint sic manere; ii si postea uxorem duxerint, sint in
ministerio, eo quod hoc illis sit ab Episcopo concessum. Si qui autem
hoc silentio praeterito, et in ordinatione ut ita manerent suscepti
sunt, postea autem in matrimonio venerint, ii a Diaconatu
cessent.» A prima vista però sembrerebbe contraria questa
legge alla proposizione nostra se non vi si facessero sopra le seguenti
osservazioni. Il Concilio d'Ancira fu il solo Concilio da cui siasi
stabilita la disciplina indicata, e fu un Concilio particolare: parlasi
in esso non già de' Sacerdoti, ma de' soli Diaconi: vi si
confessa necessaria la dispensa Vescovile dell'uso comune contrario, eo quod illis hoc sit ab Episcopo
concessum:
indulgenza insomma forse accordata per facilitare il ritorno dei Caduti
alla Chiesa, dei quali il numero a quei tempi era considerabile anche
nel Clero, come rilevasi dai Canoni 1 e 2 dello stesso Sinodo, e per la
di cui riconciliazione era stato esso Concilio radunato in Ancira.
Inoltre non si parla nel Canone addotto di promuovere tali Diaconi al
Sacerdozio, anzi si dice sint in
Ministerio. Analizzando ancor più si vede che per questa
indulgenza tolleravasi il lor matrimonio dopo l'ordinazione, Diaconi ordinati.... etc. si postea uxorem duxerint,
parole che fanno contro la disciplina Greca cui dicono gli Orientali
appoggiata a questo Concilio. Si ordina che senza questa indulgenza del
Vescovo, avendo tralasciato di chieder la moglie nell'Ordinazione, se
poi si fossero ammogliati a
Diaconatu cessent:
e questo prova sempre più che volle giudicar la Chiesa a norma
delle circostanze per dispensare in punto di questa santissima pratica
disciplinare, se fosse talor necessario negli ordini al Sacerdozio
inferiori, siccome nei primi secoli dispensava coi Suddiaconi: e quando
credette opportuno gli obbligò al Celibato; ma nulla prova il
citato canone contro la santa e pia Apostolica disciplina di
conservare il Celibato ne' Sacerdoti e ne' Vescovi, de' quali il canone
Ancirano non fa veruna menzione. Le discipline adunque poste pei
Diaconi dai Padri d'Ancira, e per le licenze e per le pene di chi non
ar- [qui per errore dello stampatore è stata omessa una parte
del testo, N.d.R.] correvan alla Chiesa, e pel silenzio de'
Sacerdoti e per tutte
le ragioni sinora esposte confermano la prima proposizione che la
Chiesa Greca osservò il Celibato Sacerdotale ne' primi secoli.
Ma lasciando i Sinodi particolari, si venga a1
primo Ecumenico Concilio tenuto in Nicea l'anno 325, Concilio venerato
tuttora anche dagli Scismatici Orientali, e se ne esamini il
terzo Canone: «Interdixit per omnia magna Nicaena Synodus,
non Episcopo, non Presbytero, non Diacono, nec alicui omnino qui in
clero est, licere sub-introductam habere
mulierem, nisi forte aut matrem, aut sororem, aut amitam,
vel eas tantum personas quae omnem suspicionem effugiunt». Ecco
la prima legge general della Chiesa colla quale s'intima al Clero tutto
l'osservanza della disciplina del Celibato, introdotto
dagli Apostoli, e sino all'epoca del Niceno costantemente osservata.
In questa santissima legge pertanto proibirono i Niceni padri ad ogni
Diacono, Sacerdote, e Vescovo, anzi ad ogni Chierico di coabitare con
femmina
alcuna, tranne la madre, la sorella, la zia, od altre che non diano
fondamento alcuno di sospetto contro la clericale purezza.
Ragioniamo alcun poco su questo canone. Trattavasi nel Niceno di
formare una legge a norma dell'Apostolico Canone: Nemini dantes ullam
offensionem, ut non vituperetur ministerium nostrum (2. Cor. 6.
3.) per togliere ogni ombra di macchia alle persone del Clero
circa la principale passione dell'uomo. Macchia non
è per un Sacerdote che coabiti colla sua Madre,
siccome macchia non sarebbe che vivesse colla sua legittima moglie
nell'ipotesi che dalla Chiesa gli fosse stata permessa. Ma la
Chiesa stessa ammette la Madre, non ammette la moglie: più
che nomina separate le consanguinee sorella, zia
ec.; più che la moglie dovea prima d'ogni altra donna aver posto
in un canone, il di cui scopo si è il decoro sacerdotale,
più che l'esclusiva nisi
forte aut
etc., mostra apertamente 1'intenzion della Chiesa Legislatrice che non
vuol saperne di altre. Dunque è manifesto che lo spirito di
questa legge ecumenica indica l'obbligazione del Celibato voluto nella
Chericale milizia, a grado che se il Chierico prima di ascriversi
avesse avuta una moglie gli si proibisce assolutamente la coabitazione.
E se questa prova sostanziale tratta dalla natura del Canone non
bastasse a convincere, si dimanda cosa voglia intendersi per le parole subintroductam habere mulierem. Per
questa voce che in Greco leggesi
συνείσακτον
interpretata introductam subintroductam, o come altri
vogliono extraneam,
sempre s'intende una donna o tenuta nascostamente, o straniera alla
famiglia. La moglie legittima non è straniera, ne avvi ragione
che si nasconda. Dunque, dirassi, intender convien la concubina. Se
però così fosse, e qual ragione di far questo canone di
proibizione pel Clero, mentre pei canoni Evangelici chiaramente
è proibita la concubina a qualunque Cattolico?
Se si dicesse che il Sinodo ciò fece per togliere gli abusi
introdotti nel Clero, io domando perchè ad impedimento di tali
abusi tra le donne che si permettono di coabitare coi Diaconi, coi
Sacerdoti, coi Vescovi non sia stata nominata prima la moglie, com'era
dovere in questa ipotesi, onde e gli ammogliati introdotti nel clero
sapessero il loro dovere di rispettare il Talamo, cacciandone ogni
causa di macchia, ed il popolo informato di questa legge non
attribuisse a colpa del Clero quello che in un canone equivoco poteva
essere preso in aggravio di esso? Si permette la coabitazione colla
madre, colla zia, colla sorella e con altre persone simili scevre da
ogni sospetto d'incontinenza, e poi non si nomina la donna, cioè
la moglie, che ha tutto il
dovere e diritto di stare col marito in casa, e che talvolta anche
allora poteva essere tale creduta quando non era legittima, come
avviene in molte occasioni giornaliere. Alle corte. O questo è
un canone misterioso, e va contro la natura della legge che dev'essere chiara
(ipotesi assurda in un concilio Ecumenico da
Dio illuminato), oppure convien conchiudere che in
questo primo Concilio ci è la prova più luminosa della
legge obbligatoria dell'Ecclesiastico celibato. Si aggiunge che in
alcune versioni si legge la voce
γυναὶκα indicante non solo foeminam, ma più
propriamente uxorem: ragion
di più per metter nell'esclusiva
delle consanguinee la moglie,
se il Concilio inteso non avesse
di nominarla con questa voce.
Rufino poi scrittore del secolo medesimo nella sua Ecclesiastica Storia
cap. VI. Lib. XI. riportando questo Canone legge così:
praeterquam cum Matre, vel sorore,
vel θεία, si quae sunt
hujusmodi necessitudinum personae, cioè a dire
necessarie al Chierico per la direzione interna della famiglia, non
necessarie ad esso come marito, giacchè nè la
madre nè la sorella nè la zia sono hujusmodi necessitudinum. Dunque
è forza concludere
che il Concilio intende proibire colle parole del Canone subintroductam habere mulierem la
coabitazione colla moglie, se il Cherico l'avesse avuta prima d'entrare
nel
Chiericato; e che la Chiesa l'obbligò a viver celibe a
grado di tenerla lungi fin dalla propria casa, onde la santità
del suo stato non venisse contaminata da ombra veruna di macchia
nè in faccia al Cielo nè in faccia al popolo.
Lasciando poi adesso tutte le favole di Socrate, e di Sozomeno circa
il Vescovo Pafnuzio (favola dimostrata tale da tutte le regole
di critica, come può vedersi appresso gli Storici
più accreditati) cerchiamo fra i Padri almeno uno per
ischivare la noja de' lettori, il quale autorizzi
l'interpretazione da noi data al canone di Nicea.
S. Basilio, uno de' Padri Santi più prossimi al Niceno,
così scrive nell'Epistola 198 (al 55.) al Prete Paregorio
settuagenario, il quale colla scusa d'essere assistito teneva in sua
casa la moglie avuta prima del sacerdozio: «Lege Canonem a
sanctis nostris Patribus editum in
Synodo Nicaena, qui manifeste sancivit extraneas mulieres non esse.
Vita autem caelebs in eo honestatem habet, ut a convictu mulieris
separetur». E qual è questa donna, la concubina, o la
moglie? Oltre la voce γυνὰ usata da Basilio, che
più propriamente significa moglie, apertamente si vede che la
donna di cui si rimprovera questo prete era la di lui moglie,
perchè segue il Santo Dottore: «Quare si quis verbo
professus, reipsa quae conjugatorum sunt facit, palam est eum
virginitatis quidem honestatem in nomine persequi, sed nequaquam ab
indecora voluptate abstinere.» Un dei doveri dei conjugati
è la coabitazione. Paregorio, benchè assicurasse che
teneva questa donna in casa per le necessità della sua
vecchiaja, non per altri fini, reipsa
quae conjugatorum sunt faciebat.
Dunqu'era sua moglie, eppure da Basilio viene rimproverato. Se tale non
fosse stata, il di lui linguaggio sarebbe stato assai differente contro
un concubinario, nè detto avrebbe pacatamente a Paregorio
benchè in astratto, che palam
virginitatis honestatem in nomine persequebatur; e nè
meno luogo avrebbe quanto segue: «scimus autem quod a nonnullis recte
geritur aliis esse occasionem peccandi», ch'è
quanto dire; Recte geritur a laicis,
che coabitino colla moglie, non già con la concubina, con cui
abitando non mai recte geritur:
ma ciò est occasio peccandi,
cioè a te Paregorio, giacchè per quanto assicuri te esse liberiorem ab omni corporea
libidine, devi sapere da Paolo il dovere di non ponere fratri offendiculum ad scandalum:
scandalo che proveniva nel popolo dalla cognizione del canone Niceno il
quale proibisce la coabitazione con qualunque femmina che non sia
madre, o sorella o zia, o persona, senza la menoma eccezione, donde
apparisce che vita coelebs
d'un Prete in eo honestatem habet,
ut a convictu mulieris separetur. Dunque prosegue il gran
Basilio, praecepimus, Sanctorum
Patrum decretum sequentes, ut a muliercula separeris. Non basta:
Ejice igitur illam de tuis aedibus,
et in Monasterio constitue. Se non fosse stata moglie la donna
assistente di Paregorio, detto avrebbesi Ejice illam ex tuis aedibus:
ma aggiunge il dovere di relegarla in un monastero, e perchè non
poteva essere d'altri durante la vita di lui, e perchè il
Vecchio Sacerdote non solo si mantenesse celibe, ma tale si
manifestasse davvero in faccia alla Chiesa, tolta ogni ombra di
sospetto contrario alla Chericale purezza. Gli s'intima la scomunica,
se non obbedisce, e tutto si appoggia Basilio al Canone di Nicea,
usando le stesse parole extraneas
mulieres
che usarono i Padri Niceni.
Dunque è dimostrato che pel Canone
di Nicea si proibisce ai Cherici la coabitazione anche colla moglie se
avuta l'avessero prima
della loro ordinazione, e che l'interpretazione da noi data al
Canone stesso è tutta conforme all'intenzione di chi lo
sancì, all'applicazion che ne fecero i Padri, alla disciplina
anteriore e general della Chiesa.
Che se si opponesse essere mal condotta la dimostrazione
perchè troppo si pruova, parlando il Concilio non solo dei
Diaconi, de' Sacerdoti, de' Vescovi, ma di tµtti i Cherici
anche minori colle voci nec alicui
omnino qui in clero est,
si risponderà che nulla c'è di nuovo in ciò; anzi
che questo
mostra lo spirito della Chiesa sempre uguale nel voler celibi i
ministri suoi in qualunque grado: prima perchè gl'inferiori
Cherici possono e potevano rinunziare al Clero volendosi ammogliare,
od ammogliati prima dovevano a questo canone sottomettersi; poi
perchè intorno ad essi a norma delle circostanze si
riservava la Chiesa stessa di dispensare nella mancanza di persone
Vergini atte a fungere i minori uffizj del Chericato. Ciò tanto
è vero vero che nell'Ecumenico Sinodo Calcedonese can. 14. si
dice Cum in quibusdam provinciis,
concessum sit lectoribus et cantoribus uxorem ducere:
non dunque in ogni luogo potevano i
Cherici minori aver moglie: non dunque era ciò lecito ai gradi
degli Ordini superiori, conchiudo io. Ed oltre S. Epifanio, che
nell'Eresia IX. ripete le voci de' Padri Calcedonesi, oltre il
Concilio III. Cartaginese che nel canone 19. prescrive: «Placuit
ut lectores cum ad annos pubertatis pervenerint cogantur aut
uxores ducere, aut continentiam profiteri»; abbiamo l'ultimo
Ecumenico ch'è il Tridentino, ove
nella Sessione 23. cap. 17. così si decretò: «si
ministeriis quatuor Minorum Ordinum exercendis caelibes clerici praesto
non erunt, suffici possunt etiam conjugati vitae probatae, dummodo non
bigami, ad ea communia obeunda idonei et qui
Tonsuram et habitum Clericalem in Ecclesia gestent.» Tali
discipline pei Minoristi del Clero, deve ogni
saggio conchiudere, nulla ostano alla general disciplina del Celibato
insinuato dagli Apostoli, praticato nei secoli anteriori al Niceno, e
confermato colla prima legge, che dimostra la verità della
nostra prima enunciata proposizione cioè, che il Celibato anche
nella chiesa Greca si osservava dagli Ecclesiastici nei primi secoli
sino al settimo secolo circa.
Gli eterodossi però, e tutti i nemici del
celibato, potrebbero, insorgere contro la
dimostrazione dedotta dal Canone Niceno asserendo
con Elia Ehinger Augustano che i Padri di Nicea non
intesero proibire che un ammogliato entri nel sacro
ministero coabitando colla moglie ed usandone «sed interdicit
Clericis in coelibatu spontaneo
viventibus, ne foeminas secum habitantes alant cum quibus in
suspicionem impudicitiae incidere
queant» (ed. Viteberge An. 1614. Comment. in Can. Apost. etc.).
Ma l'autorità irrefragabile di tre Romani Pontefici che, nel
secolo susseguente in faccia a tutta la Chiesa Latina e Greca e nel
secolo del
Niceno Concilio comandarono canonicamente l'ecclesiastico Celibato,
mostra evidente la falsità dell'intèrpretazione
avversaria e spiega la dottrina
della Chiesa troppo per sè manifesta, onde non lasciarsi
imporre dai sutterfugi dell'errore. E primo di tutti si
offre Papa Siricio il quale verso la fine del
quarto secolo così ebbe a scrivere ad Imerio Vescovo di
Taragona: «Plurimos Sacerdotes Christi atque levitas, post longa
consecrationis suae tempora tam de conjugibus propriis, quam etiam de
turpi coitu sobolem didicimus procreasse, et crimen suum hac praescriptione
defendere quia in veteri testamento Sacerdotibus ac Ministris generandi
facultas legitur
attributa.» Chiama dunque delitto
l'uso dei Sacerdoti colle loro mogli egualmente che il trattar colle
concubine; nè poteva Siricio per tale chiamarlo se non vi fosse
stata anteriormente la pratica general disciplina ed altra legge che
precettasse il celibato. Prosegue quindi la legge: «Quarum
Sanctionum Sacerdotes omnes atque levitae, insolubili lege
constringimur, ut a die ordinationis nostrae sobrietati ac pudicitiae
et corda nostra mancipemus et corpora» Dunque tutti senza
distinzione: Sacerdotes omnes atque
levitae. Dunque obbligo indispensabile: insolubili lege pudicitiae corpora
mancipemus. Dunque non nel tempo del ministero, ma a die ordinationis suae in perpetuo,
non ad esempio dei figli di Levi, coi quali si dispensò in Cielo
specialmente pel gran motivo che non
nisi e tribu Levi quisquam ad Dei ministerium fuerat praeceptus admitti.
Le pene poi fulminate chiudono l'esame sul Canone di Siricio: «Hi
vero qui illiciti privilegii excusatione nituntur, et asserunt veteri
hac lege concessum, noverint se ab omni Ecclesiastico honore, quo
indigne usi sunt, Apostolicae Sedis auctoritate dejectos, nec unquam
posse veneranda attrectare mysteria.» Dunque non v'è
più riparo pei nemici del Celibato, quando non si voglia pensare
da Eretici. Un Papa del quarto secolo, secolo del Niceno, Legislator di
tutta la chiesa, evidente mostra la disciplina de' secoli anteriori,
obliga tutt'i maggiori ordinati del Clero «Sacerdotes et Levitae»,
obbliga sempre, e fulmina gli anatemi contro chiunque alla santa sua
legge non presta pronta obbedienza? D'altronde tace la Chiesa,
obbedisce, venera la legge del suo Capo, nessuno nemmen de' più
arditi si oppone: Dunque il Celibato divenne obbligatorio per legge
assoluta, general fondatissima. Dunque il Canone Niceno proibiva la
coabitazione colla moglie, e sussiste la nostra proposizione.
Innocenzo I successor di Siricio circa l'anno 400 ripete e conferma
il Canone del suo antecessore nel capo Proposuisti Ep. ad Exuperium c. 1.
e dichiara la bella sentenza: «Incontinentes
in (sacris) officiis
positi omni Ecclesiastico honore priventur, nec admittantur accedere ad
ministerium, quod sola continentia oportet impleri.»
E
nell'Epistola 2. ad Vietricium Rotomagensem soggiunge a nome di tutta
la chiesa, a nome della disciplina de' secoli antecedenti, a nome dei
Canoni sin allora pubblicati: «Tenere Ecclesia omni modo debet ut
Sacerdotes et Levitae cum uxoribus suis non coeant, quia ministerii
quotidiani necessitatibus occupantur. Scriptum est enim: Sancti estote,
quoniam et ego sanctus sum, Dominus Deus vester. Nam si priscis
teroporibus, de Templo Dei Sacerdotes anno vicis suae non discedebant,
sicut de Zacharia legimus, nec domum suam omnino tangebant, quibus
utique propter sobolis successionem uxorius usus fuerat relaxatus,
quanto magis hi Sacerdotes vel Levitae pudicitiam ex die ordinationis
suae servare debent, quibus vel sacerdotium vel Ministerium sine
successione est, nec praeterit dies, qua vel a sacrificiis vel a
Baptismatis officio vacent?» E pochi lustri dopo S. Leone il
Magno fu il primo a spiegar i gradi dell'obbligazione del Celibato nei
membri del Clero, sin d'allora imposto essendo (per la prima volta
parlando un Pontefice Sommo in tal modo) ai Suddiaconi stessi l'obbligo
della perfetta continenza «Nec Subdiaconibus (Ep. 8. al. 32. ad
Anastas. Thessal. Ep. c. 4.) carnale conjugium conceditur ut et qui
habent, sint tamquam non habentes, et qui non habent permaneant
singulares. Quod si in hoc ordine, qui quartus a capite est, dignum est
custodiri, quanto magis in primo, aut secundo vel tertio servandum est?
ne aut Levitico ministerio, aut Presbyterali honore aut Episcopali
excellentia quisquam idoneus existimetur, qui se a voluptate uxoria
necdum fraenasse detegitur». Nel secolo sesto poi fra le altre
pruove confermanti la nostra proposizione abbiamo l'autorità di
S. Gregorio Magno, il qual nella sua lettera 30 (al. 39) lib. 9
così scrive ad un suo legato sotto il più serio comando.
«Si qui Episcoporum cum mulieribus degant, hoc omnino compescas
et de caetero eas illic habitare nullo modo patiaris, exceptis eis quas
Sanctorum Canonum Censura permittit; idest matre, amìta, germana
et aliis hujusmodi, de quibus prava non possit esse suspicio».
Può darsi al Canone Niceno un'interpretazione legale del supremo
Gerarca del Cattolicismo più uniforme a quella che noi gli demmo
superiormente? Non basta ancora. Verso il fine della lettera citata vi
aggiunge. «Praeterea sit curae tuae eosdem fratres nostros
Episcopos hortari, ut subjectos sibi,
in sacris videlicet ordinibus constitutos, quod ipsi
servant ad similitudinem sui modis omnibus servare commoneant:
hoc tantummodo adjecto, ut hi, sicut canonica decrevit
auctoritas, uxores, quas caste debent regere, non
derelinquant». Che poi pegli ordinati in sacris intendesse
Gregorio Papa anche i Suddiaconi, dubbio non v'ha qualor si legga la di
lui lettera sotto il numero 42., dopo la promulgazion della quale il
Morino osserva che non si trova più memoria di Suddiaconi
ammogliati.
Ora poste tutte queste autorità di quattro Romani Pontefici
declaratorie il Niceno Canone, e dichiaranti l'assoluto obbligo del
Celibato nel Clero non solo per la metodica disciplina fin dagli
Apostoli introdotta nella Chiesa di Cristo, ma per obbedienza a tante
leggi Ecumeniche di Concilj e di Pontefici sommi, argomentiamo
così per conchiudere la verità della nostra prima
proposizione. La Chiesa Greca sempre credette al Niceno Concilio,
credette ai Papi Siricio, Innocenzo,
Leone, e Gregorio, credette all'autorità somma
della sede di Pietro pei sette primi secoli dell'Era Cristiana, le
prestò il debito omaggio di riverente obbedienza, confessandone
colla dottrina e coi fatti, il primato d'onore e di
giurisdizione sovra tutte le Chiese inferiori a norma dell'istituzione
divina. Ma il Niceno, i citati Pontefici, l'Apostolica Sede
hanno con leggi manifeste, salutari e severissime comandata
dovunque l'Osservanza del Celibato perpetuo nella Chiesa: Dunque anche
nella Chiesa Greca sostanzialmente
osservavasi
il Celibato medesimo dal Clero tutto appoggiato all'istituzion degli
Apostoli, al sempre coerente linguaggio de' Padri, al Canone
d'un Generale Concilio, agli Oracoli della Cattedra Apostolica, come si
è finor dimostrato, e ciò dalla sua origine sino al
Secolo settimo circa.
Dissi sostanzialmente
praticata la dimostrata disciplina dei Greci,
poichè se delle loro accidentali modalità e
dell'obbedienza
de' singoli individui della Chiesa Orientale parlar convenga, è
di mestieri avvertire che non solo si videro manifesti abusi contro
una pratica così santa e così fondata (benchè
maraviglia non sia che regnino abusi dove si trovano uomini), ma
crebbero essi talmente che a poco a poco divennero, quasi direi,
irreparabili. Se molta fede prestar si deve allo Storico Socrate
favoreggiatore de' Novaziani e Critico non sincero, egli c'insegna che
alla sua epoca, cioè alla metà del secolo quinto circa
(lib. I. cap. XI), molti Sacerdoti e Vescovi, etiam Episcopatus liberos ex legitimo
conjugio susceperunt. Tutta la fede però prestando a S. Epifanio (Haeresi 59. 11. 4.) si sa che a
dispetto de' Canoni, e dell'Apostolica istituzione alcuni del Clero in sacris,
de' Sacerdoti e de' Vescovi prostituito avevano il lor ministero
coll'abbandono del Celibato, e ciò in alcune chiese d'Oriente
per la debolezza de' rei e di chi doveva impedire siffatte
reità. «In quibusdam locis adhuc liberos gignerunt
Presbyteri, Diaconi et Subdiaconi, at non est juxta canonem,
sed juxta hominum mentem, quae per tempus elanguit». Enorme
scandalo contro le istituzioni della Chiesa di Cristo, aggiugnendo il
detto S. Padre. «Eum dumtaxat Ecclesia admittit qui ab unius
uxoris consuetudine sese continuerit, aut ea sit orbatus: quod in illis
locis praecipue fit, ubi Ecclesiastici canones sunt sinceri». Di
questo scandalo la causa prossima apparisce dalla storia essere stata
la spinta e prava familiarità colle sorelle Agapete.
Fin dai tempi di S. Girolamo chiamavansi con tal nome certe sorelle di
carità ossia femmine spirituali e devote, che solevano coabitare
spiritualmente con uomini di timorata coscienza; coabitazione che
andò in progresso a terminare assai male. Ebbe infatti a
chiamare questa coabitazione il citato Massimo Dottore novum concubinatus genus (Ep. 27.
ad. Eustoch.) e pieno di zelo esclamava: Undenam in Ecclesias Agapetarum pestis
introivit?
La storia Ecclesiastica insegna, che massimamente nella città di
Costantinopoli sotto pretesto di fraterna carità i Chierici
coabitavano liberamente con donne siffatte, e che fin dai primordj del
suo Patriarcato l'immortale S. Giovanni Grisostomo tutto adoperossi per
istritolare questa pietra d'inciampo. I Padri Santi ed i Concilj le
condannarono, specialmente il Generale Lateranese sotto Innocenzo II
(vedi Macri dizion. alla voce Agapete). Ad onta però di tutte
queste cure lo scandalo prese ferme radici e la corruttela dell'uman
cuore trasportò molti e molti nella Chiesa d'Oriente a grado che
di passo in passo si si avvicinava all'abbandono totale della pratica
santa de' secoli antecedenti, dir vuolsi della Cherical purità.
Questo fatto, che negar non si può senza mentire alla Storia
più certa, sembra a prima vista impossibile che sia accaduto
fra' Greci, i quali si gloriarono sempre e si gloriano ancora (non so
con quanta verità) d'essere zelantissimi osservatori delle
più antiche usanze Cristiane. Ben si vede però che nulla
ostando siffatta loro vantata fermezza agli usi dell'antichità,
secondarono invece l'abuso introdottosi contro l'Apostolica istituzione
del Celibato del Clero e contro le relative anteriori canoniche leggi,
per andar ancor più oltre colle viste d'antichità,
favorendo cioè nella materia del Celibato la passione dell'uomo
carnale che infatto è assai più antica dell'Evangelica
virtù.
Tale favore accordato alla malnata concupiscenza, scandalosamente
introdotto dai primi violatori delle pratiche proibitive anteriori, non
impedito o forse tutt'al più debolmente dai Greci Prelati, prese
tanta radice di opinione che per sostenerlo ancor più senza il
menomo rossore, il punto si aspettava propizio di dargli una forma di
legge distruggitrice della contraria.
Nè s'avvidero i Greci infelici (di ciò che ben
conobbero i secoli posteriori), che a poco a poco con tal manovra
preparava l'inferno la debolezza nel Clero di quella un tempo
così bella porzion della Chiesa, onde rotte le barriere della
sommessione a Pietro, alle Appostoliche pratiche, alle leggi più
sante, ed abbandonata la sequela della virtu, tanto più presto
cedesse allo Scisma fatale che nel secolo posteriore a tale
innovazione, infuriò e che ancora sussiste sgraziatamente:
verificandosi così la gran sentenza di Agostino il Dottore: Neminem vidi haereticum castum.
E così si fa il passaggio ad enunciare ed esaminare la seconda
delle proposizioni piantate fin dal principio di quest'opuscolo,
ch'è la seguente.
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