Fonte: Papale Papale...
Lo zelo di Zola. Il vescovo di Lecce che per primo credette alle rivelazioni di La Salette...
Lo
zelo gentile e profondo di un “normale” vescovo del Sud, ottocentesco e
postunitario. Che dell’ordinarietà sapeva fare eccezionalità. Rapito
dal mistero e radicato nella realtà, mescolando l’eterno al quotidiano.
Per questo fu considerato subito santo, senza mai esserne proclamato.
Vita del vescovo che per primo riconobbe, contro ogni corrente
contraria, i segreti della apparizioni de La Salette e protesse Mèlanie
Calvat
di Pierpaolo Signore
Quella che sto per raccontarvi è una storia semplice,
di un vescovo santo… mai fatto santo. Non è un gioco di parole. Una
causa di beatificazione che si è arenata, forse definitivamente, forse
no, per motivi a noi sconosciuti, per delle cause solo ipotizzabili, ma
assolutamente incerte. Del resto, oltre ai santi ufficialmente
canonizzati esiste quella sterminata schiera di santi sconosciuti che
popola la cosiddetta “Chiesa trionfante”, quella comunione di persone
che al cospetto di Dio intercede incessantemente per noi uomini ancora
nella prova e bisognosi della grazia divina.
Un vescovo santo… mai fatto
È la storia del servo di Dio Salvatore Luigi Zola,
vescovo di Lecce dal 1877 al 1898, la storia di un Pastore e della sua
vita spesa nell’ordinaria premura di curare il proprio gregge. Un
racconto che non promette nulla di eccezionale, che non presenta alcun
effetto speciale di particolare interesse o miracoli in 3D, ma che
lascerà in noi solo una serie di interrogativi senza risposta.
Siamo negli ultimi decenni dell’Ottocento, quando
la società pugliese viveva uno dei periodi più intensi e travagliati
della sua storia. Le masse popolari erano costituite esclusivamente da
contadini senza terra, costretti a prendere in fitto piccoli
appezzamenti di terreno e le condizioni di vita aggravate dall’entrata
in vigore della legge sul servizio militare obbligatorio che poteva
anche prolungarsi tre anni, e che sottrasse molte braccia ai campi. Come
se non bastasse, nel 1881 si registrarono anche un forte declino
demografico, una crescita produttiva e commerciale bassissima per la
persistenza di un sistema feudale e fondiario con una eccessiva
frammentazione della proprietà agricola insieme ad una arretratezza
delle tecniche di produzione e commercializzazione che si allontanavano
inesorabilmente dagli standard nord-italiani e nord-europei. In cima
alla lista dei propositi politici dei governi c’era sempre
l’estromissione della Chiesa da ogni sistema educativo e prossimo alla
gente comune.
Gli esiti del contrasto fra Stato e Chiesa erano
evidenti quasi ovunque: negli Stati del mondo in cui esisteva una
cospicua o, semplicemente, attiva presenza cattolica, era all’ordine del
giorno la violenza, non solo verbale, ma anche legislativa, da parte
dei governi che si alternavano.
Il vescovo Zola, sin dall’inizio del suo episcopato, cercò costantemente di creare un dialogo tra le correnti laiche e quelle cattoliche, convinto che senza la Chiesa «nulla può vivere né all’ordine, né al progresso, né al ben essere dell’umano consorzio».
Zola denunciava senza alcuna remora l’esistenza, all’interno della
società, di molti nemici della Chiesa, i quali miravano a distruggerla,
sfruttando ogni mezzo a propria disposizione: «Tale e non altra è la tendenza dell’ammodernata società, la quale, senz’addarsene, prepara a se stessa la morte».
Per questo motivo, Zola esortava i fedeli ad amare la Chiesa e Gesù Cristo in essa, a guardarla come madre e maestra infallibile, a «non uscire mai da quest’arca di salute, perché andreste perduti». Scriveva anche: «I
suoi comandamenti sono sacri, la sua legge è veneranda. Chi non ascolta
questa madre […] è un uomo fuori dall’arca, gettato in mezzo alle onde,
in pericolo di naufragio». Il rimedio vero ed efficace era, quindi,
quello di stringersi attorno alla Chiesa e di unirsi, per difenderla
dagli assalti dei nemici, senza rimanere freddi, inoperosi e
indifferenti.
Da Napoli alla Finibus Terrae, nel deserto morale post-unitario
Esortazioni, le sue, che si ponevano in maniera,
quasi meticolosa, all’interno del magistero di Leone XIII e seguivano
le sue indicazioni, le uniche che avrebbero potuto portare alla
soluzione dei problemi della società. Egli sperava di riconquistare, in
breve tempo, il rapporto benefico tra la Chiesa e lo Stato, senza per
questo chiudere gli occhi sui vari volti della guerra dichiarata alla
Chiesa, tanto da scrivere: «L’odierno Nazionalista, Panteista,
Massone, Liberale, Cattolico-liberale, Socialista, Comunista e
Nichilista non faccia insulti alla Chiesa. Tutti questi essendo tanti
lupi, conosceteli: come tanti serpenti, perché altro non sono,
schiacciate loro il capo. Iddio vi benedirà e la Chiesa vi terrà in
conto di benemeriti figli».
Zola, in tutto ciò, procedeva convinto che il pontificato di Leone XIII fosse «uno
di quei grandi Pontificati, che rimarranno immortali nella storia, per i
vantaggi e per i beni recati non solo alla Religione ed alla morale dei
popoli, ma alle scienze, alle arti, alle lettere, alle virtù».
Certamente, il Servo di Dio non si limitò a seguire teoricamente il magistero di Leone XIII, ma spese tutta la sua vita cercando di tradurlo in azione. Egli, in quanto «vigile sentinella nella casa del Signore», si sentiva «obbligato
a smascherare e le mene e le astuzie dei malvagi, ad opporsi con eroico
coraggio ai loro intendimenti, e confermare i fedeli a ciò che i tristi
presero particolarmente a combattere».
In particolare, dopo gli anni ’60 – ’70,
si erano diffuse dottrine ostili alla Chiesa la quale, essendo
considerata nemica della grandezza della Patria e guardata con sospetto,
era spogliata dei suoi beni. Così, il vescovo di Lecce, rivolgendosi «ai Principi» che «presiedono alla società civile» e «alla civile Magistratura»,
esortò costoro a tener presente il fatto che il potere era stato loro
concesso da Dio e che, se avessero tenuto in considerazione le dottrine
della Chiesa, sarebbero riusciti a procurare il bene dei sudditi e a
punire con giustizia i malvagi. Essi dovevano considerare che la Chiesa
ha un’azione benefica e il Papa non è un nemico dello Stato, come
sosteneva la stampa fallace, ma è sempre attento alla prosperità degli
Stati.
Anche per quanto concerne la stessa realtà ecclesiale,
la situazione era divenuta molto grave. Molti seminari erano stati
chiusi e tra questi, quello leccese, occupato nel ’71 e usato come
caserma. Così la formazione dei nuovi sacerdoti era ostacolata e nel
clero ormai serpeggiavano divisioni e apostasie favorite dai nuovi
governanti.
«la conversazione, il portamento, il tratto, e fin l’abito» : la ricostituzione del clero
Piazza della Cattedrale e del seminario in Lecce
Così Zola, comprendendo che la Chiesa
leccese sarebbe dovuta ripartire da una profonda formazione del nuovo
clero, avvertì la necessità di riportare in esso la purezza della
dottrina della Chiesa.
Zola ebbe così una grande premura verso i suoi sacerdoti
poiché ne considerava la grandezza e la immensa responsabilità nel
guidare le anime loro assegnate. Li esortava incessantemente ad essere
di esempio, non solo con le parole, ma anzitutto con le opere, a far
trasparire la loro santità sottolineando che tutto in loro, «la conversazione, il portamento, il tratto, e fin l’abito» avrebbe dovuto far trasparire «il soave odor della virtù».
Li incoraggiava a curare lo spirito
con la preghiera, la meditazione, la celebrazione dei Divini Misteri,
la recita devota dell’Ufficio divino, gli esercizi spirituali e con sano
realismo aggiungeva: «Questa cultura poi spirituale che io
raccomando assai, non vada separata dalla cultura dell’intelletto
mediante i buoni studî ed assidui», perché oltre alla santità è necessaria la dottrina per «spezzare
al popolo il pane della Divina parola, nel combattere il vizio, nel
confutare le false dottrine, per rispondere ai sofismi degli empi».
Zola riuscì a raggiungere questi obiettivi
curando in particolar modo la formazione dei seminaristi nei quali
«mirò a trasfondere le virtù sacerdotali […] con l’istruzione e con
l’educazione» e una vita «satura di preghiera e di slanci purissimi
verso Dio».
Ma chi era Salvatore Luigi Zola?
Nato a Pozzuoli il 12 Aprile 1822 dal Conte Francesco Zola e da Donna
Giuseppina di Fraia, rinunciò presto al titolo di Conte. Fu un uomo di
profonda cultura avendo studiato lettere e scienze teologiche e morali e
fu dedito anche alla musica. Entrò a far parte dell’Ordine dei Canonici
Regolari Lateranensi a Piedigrotta dove insegnò per ben venticinque
anni lettere italiane, latine, greche, scienze fisiche e matematiche,
sacra eloquenza e teologia, dopo essere stato ordinato sacerdote il 9
febbraio 1845.
Il 7 luglio 1870 fu nominato Abate,
avendo dato prova di «prudenza singolare nel governo e di virtù
conciliative» ed in seguito, l’Abate Zola verrà ricordato dai fedeli
come un «sacerdote Santo, come un oratore zelante, pio». La sua giornata
aveva un preciso svolgimento: «la mattina scendeva in chiesa verso le
otto e rimaneva in confessionale fino alle sedici. Nel pranzo era parco,
si accontentava di ciò che gli portavano e non si preoccupava se non
gli portavano nulla». Narra, secondo stilema, la ricostruzione
agiografica.
La stima nei suoi confronti crebbe e nel 1873
fu creato vescovo di Ugento, in provincia di Lecce, perché «occorreva
un Vescovo santo per ricostruirla e ravvivare nelle anime la vita
soprannaturale». Lì non trovò una facile situazione poiché tale Diocesi
era vacante dal 1863, quando «Ugento vide […] disperse e chiuse le Case
Religiose, arrestata, o sospettata, o vigilata l’azione del Clero. La
nomina dello Zola a Vescovo di Ugento giunse in buon punto […]. Nella
Diocesi rinacque la vita. Ben presto ritornò l’ordine e la pace».
Ad Ugento rimase pochi anni poiché
il suo breve governo «fu sufficiente a richiamare l’attenzione delle
più alte Autorità ecclesiastiche e farlo destinare a mansioni più
onorifiche e di maggiore responsabilità».
Così fu traslato nel 1877 a Lecce dove. compresa
subito la situazione in cui versavano la Diocesi e la città, scrisse
una lettera in cui invocava l’aiuto della Divina Provvidenza e dei suoi
nuovi coadiutori «nei tristi tempi nei quali è combattuta
espressamente la Chiesa, impugnata la fede, diffuso e onorato il vizio,
insegnato anche dalle Cattedre l’errore, scosse le basi della civile
convivenza, che non può reggersi senza giustizia».
Immediatamente sembrò che tutti intuissero
che lui sarebbe stato «il vero Padre, il vero Pastore, capace a
sollevare tutte le miserie, capace a restaurare le sorti di Lecce» come
già era avvenuto a Napoli dove «tutti lo conoscevano, tutti volevano
parlargli, baciargli la mano, farsi benedire e poi intorno a lui era un
affollarsi di poveri, di fanciulli, di sventurati d’ogni genere».
Egli divenne «senza dubbio il
Vescovo più popolare e amato tra quelli di Lecce dell’ultimo secolo
perché alla nobiltà dei natali e alle elette qualità di cuore e di
mente, unì la santità della vita».
La fede che “Converte in dolcezza tutte le amarezze”
Il vescovo Zola negli ultimi anni della sua vita
Nella sua analisi dei mali della società dell’epoca Zola partiva dalla considerazione che la società era ammalata perché «non crede, non spera, non ama».
In effetti trionfava l’incredulità più ostinata, ogni dogma veniva impugnato e deriso ed «è
tutto dire che in mezzo al secolo XIX, secolo, come vogliamo chiamarlo,
di luce, di progresso, di civiltà, un Concilio siasi trovato costretto a
stabilir la Fede nella esistenza di Dio!». Egli, quindi, proponeva tre riforme da introdursi nella società: riaffermare la fede, la speranza, la carità.
Rilevava, inoltre, che esse erano
completamente distrutte dallo scandalo della bestemmia, contro la quale
Mons. Zola levò il proprio grido, tanto da dedicare a questo argomento
un’intera lettera pastorale. In effetti la bestemmia rovina la fede,
chiude il cuore alla speranza in Dio e all’intercessione della Madonna e
dei Santi che oltraggia «con il suo linguaggio blasfemo», distruggendo anche la carità, perché colui che bestemmia «ferisce [Dio] nel suo cuore»,
propaga la ribellione, calpesta l’autorità ecclesiastica e quella
civile che da Lui è voluta, distrugge la morale cattolica e la civiltà
dando scandalo. Per questo, Zola auspicava il ritorno alla religione
dell’Italia che è «una terra cattolica, una terra civilissima e che
perciò [vuole] punita la bestemmia che, col suo propagarsi, distrugge
[quanto ha di] bello».
Per far ciò, Zola raccomandava ai cattolici
di ravvivare lo spirito della fede e di confermarla con le opere, senza
vergognarsi di confessarla pubblicamente, di accettare qualsiasi
sacrificio, di impegnarsi a diffonderla con ogni mezzo, di «credere con umile sottomissione di cuore», senza superbia e con umiltà, sottomettendo la propria ragione a Dio. Diceva, infatti: «Umiliati
– Inchina, o uomo la tua finita ragione alla ragione infinita; dì a Dio
nella umiltà del cuor tuo: Per quel velo, di cui la Fede si ammanta, Tu
richiedi, o Padre celeste, la mia sottomissione».
Egli ricordava che la fede ci permette di sopportare tutte le contraddizioni umane e le tribolazioni e «converte in dolcezza tutte le amarezze» permettendoci di abbracciare volentieri la Croce.
Per questo bisogna rimuovere gli ostacoli
che sono di impedimento alla fede quali: l’infedeltà che nasce dalla
superbia ed è il massimo degli impedimenti e dei peccati; l’eresia che
nel XIX secolo è il razionalismo che attacca ogni dogma cattolico e
deifica la ragione umana; l’apostasia per cui molti cristiani, trovando
troppo dure le dottrine evangeliche, si allontanano da Cristo; il
libertinaggio, cioè i piaceri sensuali che oscurano la mente; la lettura
dei libri proibiti che insinuano l’errore e la corruzione nel cuore,
l’empietà nelle dottrine e la depravazione nei costumi.
Estremamente attuali sono le parole del Vescovo riguardo alla virtù teologale della speranza: egli rilevava che non si sperava più ciò che si doveva sperare: «Ahimè!
All’opposto io veggo tanti e tanti, forse la più parte, che sperano non
altro, se non una totale emancipazione da ogni legge Divina e umana;
una libertà che si risolve nella più illecita e ributtante sfrenatezza;
un progresso, che innalza il materialismo, una civiltà che conduce alla
barbarie».
Proprio alla mancanza della speranza, Zola attribuiva l’incremento del fenomeno del suicidio, un tempo rarissimo in Italia, perché l’uomo «vittima
di un misterioso abbattimento […], giunge infine ad attentar puranco
alla esistenza di se medesimo con gravissima ingiuria di Dio. E
per qual motivo? Spesse volte per un nonnulla; per un interesse fallito,
per un capriccio, per un disgusto, per un’offesa ricevuta a torto; e la
disperazione si spinge al passo fatale del suicidio».
Riguardo, infine, alla carità, egli scriveva: «È
un fatto, che non si ama più quello che deve essere amato. La Carità
verso Dio non ha più luogo sulla terra, mentre regna ovunque un
vergognoso indifferentismo e al dolce nome della carità cristiana verso
il prossimo è subentrata un’arida filantropia, ed una fredda e sterile
fratellanza. […] Chè mai oggi si ama? La materia, e si applaude al suo
trionfo: la carne, e se ne desidera il più vituperevole commercio, il
mondo, le ricchezze, i piaceri, la fama, e di tutte queste cose si
formano tanti idoli al cuore» lasciando Dio «nella più assoluta e
indecorosa dimenticanza».
Con sapiente umorismo criticava la “carità” laicista: «Ma
come si solleva il poverello che giace nello squallore e nella miseria?
Con quale animo si accorre a spezzargli il tozzo di pane? Se la tanto
decantata Filantropia e Fraternità del secolo fosse qualche cosa […] di
buono, le nostre contrade dovrebbero essere ormai spoglie di poveri. Ma
in cambio la povertà cresce e si rende ogni dì più sensibile e
straziante. Che indizio è mai questo? Appunto che in tanti cuori manca
il sentimento della vera carità».
La carità doveva, invece, essere considerata fonte di autentici vantaggi. Innanzitutto individuali, quali «la pace della coscienza, la tranquillità dello spirito, il gaudio in mezzo alle lagrime di questa vita»,
poi religiosi perché la Chiesa non avrebbe travagli, non sarebbe
perseguitata, non si vedrebbero eresie e scismi, e ci sarebbero vantaggi
sociali quali la concordia tra gli individui, nelle famiglie che
formano lo Stato e da esso dipendono, e il rispetto da parte del popolo
delle autorità stabilite dal Cielo per governare la terra.
Con una religione alla moda e una morale umana, non si educano i figli
Per restaurare la società, Zola puntava poi, ineludibilmente «sul ruolo esercitato in essa dalla famiglia e sull’opera di educazione che l’istituto familiare può svolgere». Come, infatti, auspicava Leone XIII, egli esortava i cattolici a «ricomporre sopra tutto con le massime del Vangelo e della morale cristiana la famiglia» perché è da essa «che
deve prender le mosse la sociale riforma, perché questa ben composta e
riformata sarà pure tutto il corpo sociale che dalle private famiglie
appunto assorge […]. Datemi famiglie veramente cattoliche e io vi do per
sicura la pace e la prosperità della Chiesa e della società civile».
Leone XIII
Egli sottolineava l’indissolubilità del vincolo matrimoniale, che è legge di natura, e la sacralità della sua istituzione. Per questo motivo rammentava la pericolosità del divorzio poiché «oggi
grazie ad una nuova religione non già edificatrice ma distruggitrice di
tutto ciò che è santo si vuol ritenere il matrimonio un contratto
qualunque» e quindi auspicava il ritorno alla concezione cattolica del
matrimonio mentre «l’unione puramente legale è uno scandalo inaudito
dato dai cristiani in mezzo alla fulgida luce del Vangelo». Con questo Zola non condannava il matrimonio civile inteso come «civile
cerimonia imposta ai novelli sposi dalle odierne leggi, di
regolarizzare cioè anche dinanzi allo Stato la propria posizione […] per
attestare civilmente la legittimità della prole, […] per assicurare i
diritti di successione», ma ammoniva gli sposi cristiani a non
fermarsi al solo matrimonio civile perché quello religioso è l’unico che
ne contiene la vera essenza.
Inoltre esortava i genitori a non trascurare l’educazione cattolica dei propri figli. Scriveva, infatti: «Con
una religione alla moda e con una morale puramente umana non si potrà
giammai né formare lo spirito, né educare il cuore del piccolo
fanciulletto; non si potranno moderare i giovanili suoi affetti, non
porre un freno alle sue passioni, non dirigere la sua ragione al bene,
non difendere da tanti pericoli la sua innocenza, né prepararlo per un
felice avvenire».
Inoltre auspicava la recita comune
del Santo Rosario almeno la sera, come era raccomandato dal Pontefice, e
ribadiva l’importanza della santificazione del giorno festivo perché
esso rinvigorisce la «fiamma celeste che sola è capace di alimentare nei nostri cuori l’amore di Dio». Per questo scrisse una lettera pastorale sul giorno di festa in cui denunciava il «doloroso spettacolo» della profanazione del giorno festivo poiché «i disprezzatori del dì festivo contradicono apertamente a Dio e antepongono i propri capricci alle sovrane intenzioni di Lui» e nello stesso tempo insultano la Chiesa.
La “riforma satannica” della società. Contro le ideologie
Lecce,
piazza Sant’Oronzo durante la festa del patrono. Come appariva più o
meno ai tempi dell’episcopato zoliano e dello strapotere massonico
Zola non si stancò mai di denunciare quei «falsi profeti, eredi di quel protestantesimo che aveva lacerato la Chiesa di Cristo e del paganesimo della Rivoluzione francese».
Questi, nel suo secolo, disprezzavano l’autorità e la legge di Dio,
rifiutando il Papa, i Vescovi, i sacerdoti, i religiosi e le monache,
volendo attuare una riforma laica della società che, per il nostro
Vescovo, era una «riforma infernale», una «riforma satannica».
La fede era minacciata in un contesto in cui si subiva l’influenza di dottrine come quella dello «scellerato Proudhon»,
secondo il quale era dovere dell’uomo libero cancellare dalla propria
mente la nozione della divinità in quanto, se Dio c’è, egli stesso è il
male. Anche la massoneria incideva negativamente nella società perché
mirava alla negazione di Dio che diveniva una «parola vuota di senso».
Alla fede in Dio e alla Rivelazione divina veniva, poi, contrapposto un
empio Razionalismo, a cui si aggiungevano gli articoli di «certi sozzi giornali, le bestemmie orribili e continue che si ascoltano». Così Zola scriveva: «Non
si crede più ai Sacramenti, non all’intercessione di Maria Santissima,
non alla esistenza di una vita futura, non al premio di una virtù, non
al castigo del vizio. Molto meno poi si crede alla Chiesa, e niuna fede
si presta alla parola infallibile del Vicario di Gesù Cristo. […] Questa
[…] è la cancrena che rode la povera società, cancrena terribile e
funesta! […] Ma e non è la incredulità il peggiore stato in cui può
cadere la umanità?»
Purtroppo c’era anche un «fatale indifferentismo» che, «partorito dall’orgoglio e dalla corruzione del cuore, dà morte a tutti i nobili affetti», c’era un «freddo razionalismo» che proponeva la «individuale ragione» come guida esclusiva del credere e dell’operare. Di fatto, i razionalisti erano dei «miscredenti e nemici della ragione stessa», in quanto la divinizzavano, le attribuivano un valore che non ha. Erano, quindi, «fabbri di menzogna e sostenitori di dottrine false e perverse».
Essi sostenevano fermamente che fosse contrario alla ragione credere
all’incomprensibile, ma Zola ribadiva che è contro ragione il non
crederlo perché sarebbe come se il cieco non credesse ai colori sol
perché non li vede.
Allo stesso modo, era sopraggiunto anche un «lurido
sensualismo, che getta la umanità nella più sozza abiezione, rendendola
simile ai bruti che non hanno intelletto. È venuta una incredulità
generale che ti spaventa, che non ammette differenza alcuna tra vizio e
virtù […] che ammette per legittimo tutto quello che può farsi
impunemente, che chiama la coscienza pregiudizio, una debolezza il
rimorso, che dichiara unici moventi dell’essere ragionevole l’interesse e
il piacere […]. E stabilisce uguale dinanzi alla morte tanto l’uomo
dabbene che lo scellerato». Era un secolo che predicava una stolta filosofia e divinizzava la ribellione dell’uomo a qualsiasi autorità divina e umana.
Inoltre, commentando l’enciclica Quod Apostolici muneris di Leone XIII, il Vescovo metteva in evidenza l’esistenza della «Triplice setta» formata da socialismo, comunismo, e nichilismo che trasformava la società in un «nome vuoto di senso»
perché considerava nulla il regio potere, la proprietà privata, i
Sacramenti, la patria potestà e le leggi, portando alla formazione di
Stati completamente privi di Dio e di scuole e università laiche, alla
pretesa della sovranità da parte della moltitudine e alla bramosia dei
soli beni terreni. Negando Dio, fonte e origine di ogni autorità, si
nega difatti l’autorità medesima e quindi quella paterna, quella
religiosa della Chiesa, del Pontefice e dei Vescovi e la stessa autorità
politica. Poiché Dio ad alcuni ha dato l’autorità di comandare e ad
altri l’obbligo di obbedire, come nella Chiesa i laici, i sacerdoti e i
Vescovi devono obbedire al Papa, così anche nello Stato i popoli devono
obbedire a chi li governa, auspicando sempre una collaborazione tra
Chiesa e Stato. La Chiesa, infatti, proprio perché suggerisce al popolo
l’obbedienza, favorisce il benessere sociale e non le rivoluzioni.
Certamente, il Vescovo era anche ben consapevole
che la cospicua presenza di una stampa anticattolica influenzava
negativamente le masse, una stampa completamente anticlericale e che
assumeva un carattere sempre più aggressivo creando «un clima di
stato d’assedio un po’ dovunque, anche nel governo centrale della
Chiesa. […] Si esercita un minuto e rigoroso controllo sulla vita delle
singole diocesi, sul governo dei singoli Vescovi».
Anche nell’ambito dell’istruzione,
l’amministrazione liberal-massonica compiva ogni sforzo per istituire o
per potenziare scuole di vario tipo con l’obiettivo di sottrarre le
nuove generazioni all’influenza della Chiesa cattolica. Per questo Zola,
per contrastare quest’orientamento, si impegnò con ogni mezzo a sua
disposizione a fornire al Seminario leccese scuole organizzate secondo
le disposizioni governative «affinché i giovani non chiamati al sacerdozio potessero continuare la carriera di studi senza alcun ritardo»
e si adoperò affinché le Suore appartenenti all’ordine delle Marcelline
accettassero la proposta di far nascere anche a Lecce un educandato
femminile. Riuscì a coinvolgere in quest’impresa la cofondatrice Madre
Marina Videmari, inizialmente del tutto contraria, convincendola
finalmente ad aprire nella città salentina un Istituto nel 1882.
L’istituto ebbe un enorme successo, tanto da essere frequentato dalle
figlie degli stessi politici leccesi, perfino di stampo
liberal-massonico. Ancora oggi, questa scuola è punto di riferimento
dell’istruzione cittadina.
“Con gli occhi fissi all’altare”
La Salette
L’intenso impegno pastorale di Zola scaturiva da un costante dialogo con il Signore: era uomo di preghiera totale.
«Da giovinetto mostrò subito svegliatissimo
ingegno, da sorpassare tutti i suoi compagni e dedicarsi con amore
speciale alle lettere ed alle scienze teologiche […]. Quanto a morale fu
edificantissimo, quantunque di carattere impetuoso, che seppe frenare
con virtù, che ebbe tutto l’aspetto di un eroismo». A prima vista Zola
sembrava avere un carattere «bollente, quasi impetuoso»; quando, però,
lo si avvicinava e se ne approfondiva la conoscenza, «bisognava
convincersi del contrario», cioè che fosse estremamente mite. «Era
martire del proprio carattere. […] Aveva lampi di sdegno e fulgori di
maestà uniti a celesti sprazzi di santità».
Mons. Zola fu «l’Angelo della preghiera»,
durante la notte passava molte ore in ginocchio «con gli occhi fissi
all’Altare» e, a volte, lo si doveva scuotere e chiamare a gran voce,
per quanto egli fosse intensamente assorbito nella sua estasi. Un giorno
fu sorpreso immobile, steso bocconi per terra nella cappella
dell’episcopio, dinnanzi al tabernacolo, così immerso nella preghiera
tanto da rivolgere un paterno rimprovero a coloro che lo avevano
distratto da quel suo intimo colloquio con Dio. La sua preghiera si
prolungava spesso fino all’alba, specialmente nei giorni che precedevano
le sacre ordinazioni dei novelli sacerdoti.
Spesso anche le preghiere liturgiche
erano «intersecate da pianti e sospiri, pregava Dio con le sue
lacrime». Quando «discendeva dall’Altare per la Comunione portando il
suo Dio tra le mani, la sua andatura grave e raccolta gli dava l’aspetto
di un Angelo». Ancora qui si notano i toni un po’ troppo carichi tipici
dell’agiografia e delle rappresentazioni edificanti ottocentesche.
Dalla preghiera Zola attinse
sempre forza e conforto per affrontare le avversità della vita. La
preghiera e la mortificazione furono le vie percorse dal servo di Dio;
egli le esercitò durante tutta la sua vita».
«Ogni suo apparire era sempre salutato
da entusiastiche dimostrazioni di affetto. I suoi seminaristi lo
amavano e «facevano a gara a chi dovesse servirgli la Santa Messa ogni
mattina». In città, tutti accorrevano ad assistere alle sue funzioni,
terminate le quali «era un esclamare generale: “Beato lui!. Che santo
abbiamo in Lecce!” E si correa con tanta calca a baciargli la mano,
chiamandosi fortunati quei che potevano arrivarvi».
Come Leone XIII, Zola dimostrò sempre
di possedere un acuto spirito profetico. Infatti, come il Papa aveva
denunciato i mali della società e precorso i tempi additando una strada
verso la quale indirizzare gli animi degli individui e dei popoli, anche
il Vescovo denunciò «i mali che si vanno di giorno in giorno
aumentando, e annunziano alla società una catastrofe che sarà la più
terribile fra tutte le altre narrate nella storia». Egli, infatti,
reputava imminente lo scoppio di una guerra mondiale a causa dei mali
che divenivano sempre più evidenti, e lo palesava scrivendo: «Guardate
l’odierno atteggiamento delle Fronti coronate; guardate gli eserciti
permanenti; ascoltate il convulso moto delle nazioni; oh Dio! I sintomi
di una guerra terribile e mondiale si fan pur troppo manifesti».
Come rimedi proponeva il ritorno alla devozione verso la Madonna, il Sacro Cuore di Gesù e i Santi. In particolare insisteva nel proporre il Santo Rosario come «mezzo efficacissimo per conservar sempre ardente nel nostro cuore la Speranza cristiana»
ricordando che già Leone XIII ne aveva «ripetutamente consigliato la
recita». Infatti Zola fu devotissimo della Vergine Maria ed esortò
costantemente i cattolici a deporre le proprie preghiere «nelle mani di Colei che si chiama piena di grazia» poiché, in questo modo, sarebbero salite «più spedite al trono dell’Altissimo».
Bastava che fosse pronunciato il nome della Madonna,
che lui si entusiasmava, i suoi occhi brillavano di gioia e «si
elevavano in alto quasi cercasse tra l’azzurro dei Cieli la sua Mamma
bella». Egli diceva che, dopo Dio e Gesù Cristo, il più valido sostegno
della nostra speranza è la Vergine Maria «come in causa secondaria e istrumentale, ond’esser da essa soccorsi per ottenere il bene ordinato all’eterna beatitudine». Ella, «per
eterno consiglio dell’augustissima Triade, è destinata a compiere in
Cielo l’amorevole ufficio di mediatrice fra la giustizia e la
misericordia e perorar con buon esito ogni causa dei travagliati mortali». Per questo motivo «taccia
lo sciagurato apostata Lutero e con esso tutti gli antichi e moderni
eretici, che lo sperar nella Vergine Maria hanno in conto di gravissima
ingiuria a Dio, ed a Gesù Cristo».
Zola fu soprattutto il «Vescovo dell’Eucaristia»
per la sua ardente devozione verso il SS. Sacramento: «Per lui
l’Eucaristia è più che una sublime dottrina […], è Gesù con tutte le
attrattive stupende della sua Santissima Umanità». Egli ebbe anche un
amore particolarissimo per le Anime abbandonate del Purgatorio. Infatti,
«bastava vederlo durante la Messa nel Memento dei Defunti. I suoi occhi
si imperlavano di lacrime, i suoi sospiri, le sue preghiere si
accendevano di fervore più intimo. Pareva che dinanzi a lui falangi di
anime si presentassero a domandargli il pane della carità, il suffragio
tanto desiderato. Qualche cosa di sovrumano parea che volesse
sprigionarsi dalla sua anima impetrante dal Signore la liberazione, non
risparmiando d’offrirsi vittima d’espiazione per le anime che tanto gli
stavano a cuore, e per le quali offriva in quel momento tutte le sue
pene, tutte le sue insonnie, tutte le trafitture del suo cuore».
Lapide commemorativa di Zola, a Lecce
Monsignor Zola visse sacrificando sempre
le sostanze di cui disponeva. Quando era vescovo ad Ugento, per la
particolare devozione per la Madonna, si occupò del Santuario di Santa
Maria di Leuca, si adoperò affinché fossero restituiti al Santuario i
fabbricati facenti parte dell’antica Mensa Vescovile e dell’Ospizio che
erano stati incamerati dal Governo. Da Vescovo di Lecce, invece,
restaurò il Seminario spendendo ingenti somme e molto spesso mantenne, a
proprie spese, numerosi studenti che per insufficienza dei mezzi non
avrebbero potuto frequentare gli studi.
Diede un così grande prestigio al nuovo
Seminario che fu frequentato da molti che venivano da altre Diocesi.
Nel 1887 dettò un corpo di Regole che resero il Seminario leccese il
primo della Puglia per disciplina, studio e pietà, tanto che molti
Vescovi vicini vi mandarono i propri giovani affinché si perfezionassero
e altrettanti, fra quelli lontani, adottarono le stesse Regole.
La sua carità, oltre ad indirizzarsi a vantaggio del clero,
si estese al popolo «che in lui vedeva sempre il proprio benefattore.
Erano centinaia di lire che distribuivansi settimanalmente ai numerosi
poveri che piovevano all’Episcopio, come all’asilo sicuro del soccorso».
Un sacerdote scriveva: «I
poverelli, conosciuto il cuore di questo Padre caritatevole, venivano a
fiumane presso la sua porta per chiedere e per chiedere ancora oltre il
necessario. Più volte egli mi diceva con tutta semplicità: “Oggi non
tengo proprio un soldo!” Ed io che sapea ciò anche prima, mi facea di
fuoco, impedendo che altri poveri venissero». Era un continuo
pellegrinaggio sull’Episcopio «di accattoni, di famiglie erubescenti, di
studenti privi di libri e mancanti di mezzi per pagare le tasse, di
chierici poveri aspiranti al sacerdozio, di fanciulle bisognose di dote,
di operai senza lavoro, di uno sterminato numero di diseredati e
proletari, cui mancava qualche cosa».
Istituì anche “la visita dei poveri a domicilio”,
spronando le associazioni laiche a compierla abitualmente. Lui stesso,
senza alcuna ostentazione metteva il necessario a disposizione dei
bisognosi, perfino a costo di umiliazioni tanto da farlo esclamare: «Io mi sono ridotto lacero e sono sempre ricambiato con ingratitudine».
Se ne accorsero bene le Figlie di san Vincenzo de’ Paoli quando videro
che il loro vescovo aveva le vesti lacere e provvidero alla donazione di
nuovi abiti.
Famose restarono nella memoria
collettiva le visite che fece nel 1886 a Torchiarolo (in provincia di
Brindisi) colpito, come altri comuni limitrofi, da una gravissima
epidemia di colera che, solo in questo piccolo paese di 1800 anime aveva
già causato in un mese la morte di 74 persone. Mons. Zola, incurante
del pericolo, lo si vide aggirarsi da solo nelle case, nei tuguri,
ovunque si trovava un coleroso. Quasi tutti i giorni vi si recava
prendendo a nolo una carrozza e intimando al cocchiere di lasciarlo alle
porte del paese. Così, con mille premure lo si trovava al capezzale dei
moribondi, per dispensare loro quel che poteva per il loro
sostentamento e per spronarli a ricevere i sacramenti.
«La carità fu il suo ideale […].
Finché avea soldi visitava i poveri; quando non ne aveva, visitava i
ricchi» e la sua «carità sconfinata […] non poteva lasciarlo insensibile
verso i bambini che, nati sordomuti, rimangono come fuori dal consorzio
umano crescendo senza potere apprendere dalla viva voce della mamma o
dei maestri i principi della religione e della istruzione». Ma «la
Provvidenza gli aprì la via». Infatti nel 1882 arrivò a Lecce un
sacerdote napoletano, Filippo Smaldone, che gli manifestò la volontà di
dedicarsi all’educazione dei sordomuti. Così fu fondata nel 1888 una
piccola comunità di suore che furono poste sotto la protezione di San
Francesco di Sales e dei SS. Cuori di Gesù e Maria.
Zola diede forte impulso alla nascita
di associazioni devozionali, con fini di promozione spirituale ed
assistenziale, affiancando il clero che diveniva meno numeroso. Istituì
il primo Oratorio domenicale per i giovani nel 1888, un Comitato per gli
Interessi Cattolici di Lecce nel 1892, l’organizzazione delle Donne
cristiane, l’Opera dei Tabernacoli e delle Chiese povere e l’Assistenza
ai malati poveri.
Consigliò costantemente l’adesione
alle Associazioni cattoliche quali la Propagazione della Fede e la
Santa Infanzia, quella delle Buone Opere, della Buona Stampa, delle
Madri Cristiane ed altre ancora.
Zola non ignorò la presenza e lo sviluppo delle antiche Confraternite presenti nel territorio, sollecitandole a puntare su un ruolo sociale e su «un’azione
di contrasto nei confronti di organizzazioni laiche “contrarie alle
istituzioni della Chiesa”, per cristianizzare la società e provvedere al
decoro del sacro culto». Il ruolo delle Confraternite doveva essere quello di opporsi alle associazioni anticattoliche al fine di «promuovere
la carità verso Dio e verso il prossimo, dare ospitalità ai pellegrini,
dare assistenza agli infermi, «vestire i nudi», seppellire i poveri
gratuitamente, «accompagnare i condannati all’estremo supplizio».
Tra le opere attuate da Zola ci fu anche
il riordino della liturgia. Infatti egli «ordinò e volle disciplinate
le funzioni religiose, e fu severo nello svolgimento delle cerimonie
liturgiche, inculcando lo studio tra i giovani leviti e togliendo degli
abusi che deformavano i sacri riti». Inoltre impedì che «si
continuassero le vecchie cantilene nella salmodia liturgica, contrarie
alla disciplina della Chiesa, ed incoraggiò, benedisse, premiò
l’introduzione del canto gregoriano, istituendo nel Seminario non solo
la scuola di Sacre cerimonie, ma anche quella per il canto liturgico».
Nella notificazione del 2 dicembre 1894 scriveva: «Noi dichiariamo
obbligatoria per i Seminaristi e i Chierici la scuola di canto, […]
niuno sia promosso agli Ordini Sacri senza l’attestato di profitto nel
detto canto».
“Questa è la mia ultima messa”. La salma insepolta
Il sarcofago di mons. Zola, nella cattedrale di Lecce
Mons. Zola aveva addirittura preconizzato la sua morte,
tanto che il suo segretario scriveva: «Per me sta che a Mons. Zola
l’ora della morte era stata rivelata». Infatti, quando da Lecce andò a
Cavallino, un paese poco distante, nove giorni prima della sua
dipartita, disse agli abitanti: «Me ne vado, figli miei, a Cavallino,
per ritornare morto alla mia Lecce […]. Son sicuro che la fine di
questo mese non la vedrò certo». Infine, tre giorni prima della sua
morte, disse di aver celebrato la sua ultima Messa. Quando morì tutti
«lo piansero amaramente ed a ragione, perché avean perduto in Lui, il
Padre, il benefattore, l’amico!». I suoi funerali furono una vera
apoteosi, la folla mesta e raccolta bene, senza sosta, per sfilare e
inginocchiarsi davanti al Padre tanto amato».
Anche quattordici anni dopo la sua morte,
quando la sua salma fu riesumata per essere, poi, trasportata nel Duomo
dal cimitero, ci fu un’imponente dimostrazione di affetto da parte dei
fedeli provenienti da tutta la Provincia: più di sessantamila persone,
una folla immensa per una piccola città come era Lecce all’epoca,
assistettero alla traslazione della salma. La gente si era riversata da
tutto il Salento, dalle provincie limitrofe e da altre parti d’Italia,
con i mezzi più disparati. Folle che volevano attestare il loro affetto
per la santità di questo semplice vescovo, la cui bontà aveva
travalicato la propria Diocesi, grazie alle innumerevoli amicizie e atti
di carità che aveva prodigato con il suo cuore. Paradossalmente, «dopo
l’apoteosi tributata alla salma incorrotta del Servo di Dio, questa
rimase per 22 anni insepolta nello stanzino retrostante al monumento
erettogli in Cattedrale» fino a quando non avvenne la sepoltura canonica
il 27 aprile 1935, giorno dell’anniversario della sua morte. Anche in
questa circostanza «non fu possibile allontanare l’immensa calca di
popolo che aveva invaso il Duomo fin dalle primissime ore del giorno».
Il suo elogio fu sulla bocca di
tutti perché era venerato non solo come un dotto ma «ancora, e
sopratutto, come un santo». Infatti, furono raccolte innumerevoli firme
per promuovere la causa di Beatificazione di questo perfetto discepolo
di Cristo.
Il segreto di Melanie Calvat
La
Madonna de La Salette. Statua in cartapesta lecce, risalente all’epoca
del vescovo di Lecce, Zola, che ne fu devoto e difensore
Certamente degno di nota è l’interesse
che il Vescovo Zola dimostrò per l’apparizione della Madonna avvenuta a
La Salette, in Francia, nel 1846, tanto da poter facilmente intuire la
stretta assonanza tra alcune sue lettere pastorali come quelle sulla
bestemmia e sulla domenica giorno del Signore e le fondamentali
ammonizioni rivolte dalla Vergine Maria nell’apparizione. Determinante
fu l’incarico affidato a mons. Zola di dirigere spiritualmente la
veggente Mélanie Calvat che lo portò ad assumerne la difesa in seguito
ai molteplici attacchi da lei subiti, il più grave dei quali fu quello
di voler dimostrare l’inattendibilità di una parte del segreto che la
Madonna le avrebbe rivelato.
A tal proposito emblematica è la corrispondenza
che si sviluppò nel corso degli eventi e di cui riporto solo alcuni
stralci, che potranno dare un’idea di ciò che è avvenuto, specie in
seguito all’imprimatur che il vescovo Zola diede alla pubblicazione del
famoso “segreto” di Melanie.
Il 29 gennaio 1872 Zola scrive a nome di Monsignor Petagna al Vescovo Emerito di Luçon,: «[…]
Abbiamo appreso che si osa far giungere voci menzognere sulla condotta
di quella povera figliola fino al nostro Santo Padre, il Papa […].
Monsignor Petagna è desolato nell’apprendere questa triste notizia e […]
vi prega anche di parlarne col Sommo Pontefice, perché il suo cuore
paterno non abbia a soffrirne oltre. […] Melania in tutto si è
dimostrata sottomessa al suo vescovo ed a quanti esercitano autorità su
di lei. Ecco, Monsignore, la verità che esprimo con piena sincerità
davanti a Dio e che certifico davanti a voi […]. Si vede che questa
guerra è suscitata dal demonio, non tanto contro quella povera cara
figliola, quanto contro le celesti rivelazioni de La Salette, allo scopo
di distruggerle, o quanto meno di affievolirle, onde impedire, se fosse
possibile, il bene delle anime e la conversione del mondo».
Una forte polemica investì, poi, anche lo stesso Zola in seguito, come già detto, alla concessione dell’imprimatur per la pubblicazione del segreto, ma egli ne aveva dato il nulla osta solo dopo aver appurato che le norme stabilite a riguardo dalla Costituzione Dominici Gregis di Pio IV erano state perfettamente rispettate e dopo che il segreto «tutto intero»
era già stato reso noto a Leone XIII nell’edizione di Napoli. Il
Pontefice aveva incaricato un tale Avv. Nicolas di comporre un libro
capace di spiegare l’intero segreto, affinché fosse compreso dal
pubblico. La notizia dell’incarico riempì di gioia il Vescovo Zola, il
quale rispose all’avvocato: «Ho ricevuto la vostra buona lettera […],
la quale mi ha fatto molto piacere per le notizie che mi donate. […] Mi
felicito del vostro zelo nel difendere, propagare e far meglio
comprendere il segreto de La Salette. Continuate a lavorare per la
gloria di Dio e della Divina Maria; le anime pie resteranno edificate
del vostro buon libro; i nemici de La Salette rimarranno confusi; io
benedico voi ed il vostro pio lavoro. Vi seguirò con le mie preghiere.
Poiché la lotta si svolge alla luce del sole ed attinge la sfera
religiosa, nella questione del segreto de La Salette, non c’è motivo che
io mi opponga al desiderio che mi avete espresso di pubblicare la mia
lettera […] se giudicate che la sua lettura possa apportare qualche
frutto. […] Nostra Signora de La Salette, che ha cominciato la sua
opera, la compia!»
Importante è quanto attestò l’abbé Rigaux,
parroco di Argoeuvres, che conosceva Melanié da moltissimi anni: «Ho 28
edizioni del Segreto con imprimatur di Cardinali Vescovi, ne ho anche
diverse edizioni ornate da sigilli di vescovi francesi, ed il vescovo di
Lecce ha dato il suo visto solo dopo aver visitato Leone XIII, che, dal
1878 possedeva il manoscritto di Melania. Ne fanno fede le mie lettere
da Roma di quell’epoca, e Mons. Zola ha proceduto canonicamente, con il
consenso del Papa. Posseggo la sua lettera autografa». E ancora: «Quand
Léon XIII avait reçu Mélanie le 3 décembre 1878, il avait une belle
occasion de la bâillonner s’il eut voulu rejeter le Secret destiné au
public à partir de 1858». Questo conferma quanto dichiarato dalla
veggente e cioè che Roma aveva esaminato il Segreto per ben quattro mesi
senza rilevare nulla di contrario alla dottrina.
Mons. Zola da parte sua scrisse: «Tutti
i prelati ed altri dignitari ecclesiastici di mia conoscenza che hanno
conosciuto il Segreto, tutti, senza nessuna eccezione, hanno emesso un
giudizio interamente favorevole a detto Segreto, sia in rapporto alla
sua autenticità, sia per la sua origine divina, vagliata con le s.
Scritture, ciò che dà al segreto un carattere di verità da cui d’ora in
poi è inseparabile. Tra questi prelati basta nominare il Card. Riario
Sforza, Arcivescovo di Napoli; Ricciardi, arcivescovo di Sorrento; Mons.
Petagna, vescovo di Castellamare, ed altri prelati…».
Pio IX, letti i segreti, disse:
«Devo rileggermi queste lettere con più calma. Sono flagelli che
minacciano la Francia, ma la Germania, l’Italia e l’Europa tutta sono
colpevoli e meritano castighi. Ho meno di temere per l’empietà
dichiarata che per l’indifferenza ed il rispetto umano. Non è senza
ragione che la Chiesa è chiamata militante e ne vedete qui il capitano».
Mons. Cortet Vescovo di Troyes,
nel 1880 chiese che l’opuscolo fosse messo all’Indice, altrimenti non
avrebbe mandato il cosiddetto obolo di San Pietro. Il pretesto era che
il Segreto “causava disordine in Francia”. Il Card. Prospero Caterini,
segretario del S. Uffizio, rispose con due lettere, di carattere
privato, a mons. Cortet e al P. Archier, superiore dei Missionari di N.
S. de La Salette dicendo loro che «con dispiacere la S. Sede ha visto
comparire in pubblico il suddetto opuscolo. Per cui è suo volere che gli
esemplari del medesimo, nella misura del possibile, vengano ritirati
dalle mani dei fedeli, ma lasciati ai sacerdoti perché ne profittino».
È da notare che tale “provvedimento”, dunque, non aveva carattere di condanna, ma di consiglio, per evitare scandalo nei fedeli.
Il Vescovo di Tryes, però, non
osando pubblicare questa lettera, la inviò al Vescovo di Nimes che la
pubblicò omettendo la parte, oltremodo significativa: “ma lasciati ai sacerdoti perché ne profittino” e sostituendola con dei punti di sospensione.
Melanie Calvat, ormai matura, “esiliata” in Puglia, dove morì
Nonostante tuttto ciò, e sebbene
le numerosissime attestazioni di bontà sul contenuto del segreto
accompagnate dal silenzio-assenzo di ben due pontefici – Pio IX e Leone
XIII –, nel 1923 la Santa Sede condannò con un decreto il libro di
Mélanie iscrivendolo nell’Indice dei libri proibiti. Va soltanto
precisato che la Chiesa non ha mai condannato il segreto in sé, ma solo
la versione pubblicata da Mélanie nel 1879. Un documento del Santo
Uffizio, datato 4 giugno 1936 (Prot. 28/1910), attesta che la
pubblicazione del segreto costituì un grande ostacolo alla causa di
beatificazione di Monsignor Zola «perché si darebbe occasione con essa
di riparlare del famoso Segreto de La Salette. E ciò anche se nulla sia
da osservare sul modo di trattare usato dal medesimo Mgr. Zola con la
serva di Dio Melania Calvat de La Salette».
Finisce qui, per ora, la storia
di mons. Zola. Chissà, forse un giorno la causa di beatificazione sarà
riaperta oppure il suo ricordo finirà definitivamente nel dimenticatoio
Sappiamo che non sempre i santi
vengono riconosciuti tali, non perché non lo siano, ma a volte la
Provvidenza ha altri piani a noi sconosciuti. Possiamo solo umanamente
rattristarci, ben sapendo che ci sono in Cielo più santi di quanti ne
possiamo immaginare, e magari anche più grandi e immensamente più
intercessori di quelli canonizzati. Per me Mons. Zola è uno di questi! E
sorrido di cuore al pensiero di aver visto un giorno d’estate, con i
miei stessi occhi, una torma di turisti, che ignari di chi fosse sepolto
in quella tomba, la più anonima di tutte, la più semplice del Duomo di
Lecce, impolverata e quasi abbandonata, si sono fermati davanti ad essa
per fare delle foto all’altare prospiciente e iniziare a dire sorpresi
tra di loro di aver sentito l’inaspettato rumore di uno scroscio di
acqua, come di un fiume proveniente da quella tomba. E so che non è la
prima volta che il fenomeno si ripete. Mah, tante volte, la Provvidenza
fa sentire a noi ignari spettatori di questa fulgida santità, il rumore
del Mistero che vorrebbe inondarci della sua grazia.
Mi è venuto spontaneo fare il raffronto tra questo santo Vescovo e quello con il poncho a scacchi del post precedente...Lascio a voi immaginare in quale stato d'animo ciò mi ha lasciato!
RispondiEliminaTommaso Pellegrino - Torino