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giovedì 17 febbraio 2011

PAOLO VI, GIOVANNI PAOLO II E L’ERMENEUTICA DELLA CONTINUITÀ...

 
d. CURZIO NITOGLIA
9 febbraio 2011



PAOLO VI
Paolo VI denunciò «una falsa e abusiva interpretazione del Concilio, che vorrebbe una rottura con la Tradizione, anche dottrinale, giungendo al ripudio della Chiesa pre-conciliare, e alla licenza di concepire una Chiesa “nuova”, quasi “reinventata” dall’interno, nella costituzione, nel dogma, nel costume, nel diritto» (Dichiarazione conciliare del ‘6 marzo 1964’, ripetuta il ‘16 novembre 1964’). Sempre Paolo VI, nel settembre-ottobre del 1964, durante il periodo “buio” - come lo chiamano i novatori - in cui l’offensiva del Coetus Internationalis Patrum e dei cardinali più antimodernisti della Curia romana si fece sentire più fortemente, disse che la collegialità doveva essere letta “in connessione con il Concilio Vaticano I” (il quale invece è l’apoteosi del Primato monarchico del Papa e dunque l’esatto opposto della collegialità episcopale), del quale il Vaticano II è la continuazione logica[1]. Inoltre ancora Paolo VI in quest’ottica della continuità il ‘18 novembre 1965’ informò il Concilio che «sarebbe stata introdotta la causa di beatificazione di Pio XII e Giovanni XXIII»[2]. Jan Grooaters ci spiega che «una delle maggiori preoccupazioni» Paolo VI «fu la preparazione dei fedeli, ma soprattutto dei preti, alla ricezione del Concilio: più degli altri, egli aveva già allora compreso che il destino del Vaticano II si sarebbe giocato negli sviluppi post-conciliari. […]. Dalla necessità di riformare la Curia romana, di convertirla in qualche modo al Concilio, ma nello stesso tempo di rassicurarla… […]. Gli toccò a volte svolgere un compito di sentinella, tenendo, in alcune circostanze, rapporti più stretti con l’opinione pubblica della Chiesa che con il Concilio e la Curia […] per assicurare il più possibile la continuità richiesta dal post-concilio. […]. Prevedendo le future cause di tensione, Paolo VI volle dare all’attuazione del rinnovamento un ritmo per quanto possibile Uniforme, esortando i ritardatari ad affrettare il passo e moderando l’impazienza di chi voleva troppo precorre i tempi. […]. Il Papa appariva preoccupato di fare qualche concessione alla corrente minoritaria [anti-modernista], per ottenere nella votazione finale un risultato il più possibile vicino all’unanimità morale. […]. All’inizio del quarto ed ultimo periodo del Concilio (‘settembre del 1965’), si avvertì che l’azione del Papa aveva assunto un carattere più direttivo, parallelamente all’indebolirsi della leadership della corrente maggioritaria. Si disse allora che “gli eroi erano stanchi” e che i vescovi desideravano tornarsene a casa. […]. Si deve a Paolo VI il merito di aver agito in senso “più progressista” di quanto facesse la maggioranza dei vescovi dell’assemblea conciliare. […]. Bisogna riconoscere che uno dei meriti principali di Paolo VI nei confronti del Vaticano II consistette nel preparare le condizioni per una sua attuazione che si prolungasse nel tempo e che fosse quindi conciliabile con il contesto e gli usi di tutta la Chiesa. In conclusione, Paolo VI sembra che abbia soprattutto cercato di tradurre l’evento conciliare in istituzioni»[3]. Paolo VI nel Discorso al Sacro Collegio dei Cardinali del ‘23 giugno 1972’ denunciò «una falsa e abusiva interpretazione del Concilio, che vorrebbe una rottura con la Tradizione, anche dottrinale, giungendo al ripudio della Chiesa pre-conciliare, e alla licenza di concepire una Chiesa “nuova”, quasi “reinventata” dall’interno, nella costituzione, nel dogma, nel costume, nel diritto».


GIOVANNI PAOLO II
● Un anno dopo la sua elezione, nel suo viaggio apostolico in Messico compiuto a cavallo tra il gennaio-febbraio del 1979, durante la Conferenza dell’Episcopato Latino-Americano a Puebla, Giovanni Paolo II parlò del Concilio, durante l’omelia tenuta il 26 gennaio nella cattedrale di Città del Messico. Egli sottolineò l’importanza di studiare i Documenti del Concilio Vaticano II, affermò che in essi non si trova «come pretendono alcuni una “nuova Chiesa”, diversa od opposta alla “vecchia Chiesa”. […]. Non sarebbero fedeli, in questo senso, coloro che rimanessero troppo attaccati ad aspetti accidentali della Chiesa, validi nel passato ma oggi superati. Così come non sarebbero neppure fedeli coloro che, in nome di un profetismo poco illuminato, si gettassero all’avventurosa e utopica costruzione di una “nuova Chiesa” cosiddetta “del futuro”, disincarnata da quella presente»[4]. Nella sua visita pastorale in Belgio 18 maggio 1985 specifica che alcuni il Concilio «lo hanno studiato male, male interpretato, male applicato», causando «qua o là scompiglio, divisioni»[5]. Nel Sinodo Straordinario del novembre-dicembre 1985 Giovanni Paolo II ha affermato: «Il Concilio deve essere compreso in continuità con la grande Tradizione della Chiesa […]. La Chiesa è la medesima in tutti i Concili (Ecclesia ipsa et eadem est in omnibus Conciliis[6]. Nel suo libro-intervista con Vittorio Messori Varcare le soglie della speranza del 1994 (Milano, Mondadori) a pagina 171 scrive che occorre «parlare del Concilio, per interpretarlo in modo adeguato e difenderlo dalle interpretazioni tendenziose». Poi durante il Giubileo del 2000 ritorna sul tema e precisa la necessità di superare «interpretazioni prevenute e parziali che hanno impedito di esprimere al meglio la novità del magistero conciliare»[7]. Quindi esplicita che «l’insegnamento del Vaticano II, deve essere inserito organicamente nell’intero Deposito della Fede, e quindi integrato con l’insegnamento di tutti i precedenti Concili e Insegnamenti pontifici»[8].
Due prelati “periti conciliari” progressisti in odore di continuità postconcilare
●Il card Franz König già fin dal ‘4 luglio del 1965’[9], durante un pellegrinaggio a Mariazell, denunciò «i due atteggiamenti sbagliati di fronte al rinnovamento della Chiesa: quello di coloro che con il pretesto del rinnovamento mettevano in pericolo la sostanza stessa del patrimonio della fede, e quello di coloro che minacciavano il rinnovamento della Chiesa rifiutando di ammettere che essa è un organismo che va sviluppandosi, e non un pezzo da museo»[10]. Addirittura il 1° settembre 1966 di fronte ad intempestive iniziative liturgiche König pubblicò sul suo giornale diocesano una diffida contro gli abusi liturgici, richiamandosi al Concilio di Trento e alla Messa di S. Pio V, cfr. Documentation catholique, n° 63, 1966, pp. 1725-1726. Qualche mese prima in una conferenza fatta sempre a Costanza König aveva paragonato il rinnovamento conciliare al movimento del mare in cui l’onda presenta un flusso e un riflusso, così all’attuale fase conciliare della storia della Chiesa sarebbe succeduta un’altra fase, la quale - attenzione - non annullerà la prima ma la consoliderà[11].
●«Monsignor Carlo Colombo si preoccupò innanzitutto dei vescovi che parevano più angosciati dal pericolo di un allontanamento dalla Tradizione, e per questo avrebbe partecipato ad incontri con rappresentanti dell’ala tradizionalista dell’assise conciliare»[12]. Quel che stupisce non è la tattica tipica dei modernisti di innovare realmente e nello stesso tempo di affermare verbalmente che tutto è rimasto sostanzialmente come prima, ma è l’ingenuità con cui, ancora oggi, alcuni “tradi-ecumenisti” o “teo-tradi” credono alle buone intenzioni di Benedetto XVI nel colloquiare con gli antimodernisti dopo cinquanta anni di inganni e promesse non mantenute. Jan Grootaers, professore di ‘Scienze religiose’ all’Università di Lovanio, ci informa che la figura di Carlo Colombo era discreta anzi «addirittura schiva [e] fu poco conosciuta dal grande pubblico del Concilio. Essa nascondeva però una fortissima personalità, la cui propensione alla riservatezza andò ulteriormente aumentando quando da consigliere e amico di monsignor Montini divenne improvvisamente, nel 1963, il “teologo personale” – e sotto certi aspetti clandestino – di Paolo VI. Un aspetto di questa “clandestinità” consisteva, ad esempio, nel fatto che mons. Colombo, diversamente dai consiglieri di Curia, veniva ricevuto al di fuori delle udienze ufficiali e senza alcuna forma di pubblicità»[13]. La sua teologia era caratterizzata da un forte orientamento ecumenista, da un’ecclesiologia aperta alla collegialità episcopale, egli era nettamente contrario alla scuola romana di teologia e guardava al nord-Europa, ossia alla nouvelle théologie. Durante il Pontificato montiniano divenne ufficiosamente “centrista” o “estremista di centro” (J. Grooaters), vale a dire anticipò la dottrina dell’ermeneutica della continuità, che è vecchia quanto Paolo VI.
Conclusione
Come si vede “l’ermeneutica della continuità” è vecchia come il Concilio al quale il giovane teologo Joseph Ratzinger ha partecipato come perito del card. Frings in maniera del tutto innovativa, basti pensare che lui stesso ha ammesso di aver collaborato alla stesura del discorso di Frings per quanto riguarda ‘le fonti della Rivelazione’, Frings sostenne la teoria dell’unica fonte[14], la quale fu votata a maggioranza il 20 novembre 1962, circa un mese dopo l’inizio del Vaticano II (11 ottobre 1962), con essa il porporato tedesco respinse come inadeguato lo schema preparatorio del S. Uffizio sulle ‘Fonti della Rivelazione’, che riprendendo le definizioni dogmatiche, irreformabili e infallibili di Trento (sess. IV, DB 783) e del Vaticano I (DB 1787) ammetteva la Tradizione e la S. Scrittura come le due Fonti della Rivelazione, invece Frings parlava - come Lutero - di “sola Scriptura[15]. Per ‘la collegialità episcopale’ «efficacissimo fu l’intervento del card. Frings, per il quale è legittimo supporre il contributo del suo teologo Ratzinger. Si trattò forse del discorso più incisivo dal punto di vista critico, giacché demoliva lo schema [preparatorio del S. Uffizio]»[16]. Storico è lo scontro (8 novembre 1963) che ebbe Frings con Ottaviani sulla collegialità, che indurrà «Paolo VI a chiedere a Jedin, Ratzinger e ad Onclin alcuni pareri sulla riforma della Curia»[17].
Caveamus! “Normalizzare” dopo aver cambiato è il tipico atteggiamento dei modernisti, i quali hanno innovato durante il Concilio e dopo hanno detto che tutto è rimasto sostanzialmente immutato. Sia Montini che Woytjla e Ratzinger, i quali parteciparono come vescovi i primi due e come semplice perito il terzo, hanno introdotto, durante l’assise conciliare, le novità dell’unica fonte della Rivelazione, della collegialità episcopale, della libertà delle false religioni, della proto-riforma liturgica, e poi hanno detto ma non provato che esse sono in continuità e non in rottura con la Tradizione apostolica. Recentemente mons. Brunero Gherardini (Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare, Frigento, 2009) ha chiesto a Benedetto XVI di provare l’asserto o di correggere le novità.

d. CURZIO NITOGLIA
9 febbraio 2011

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