LETTERA ENCICLICA
SATIS COGNITUM
DEL SOMMO PONTEFICE
LEONE XIII
SULLA UNITÀ DELLA CHIESA
Ai Venerabili Fratelli Patriarchi, Primati, Arcivescovi, Vescovi e agli altri Ordinari locali che hanno pace e comunione con la Sede Apostolica.
Il Papa Leone XIII. Venerabili Fratelli, salute e Apostolica Benedizione.
Vi è abbastanza noto che una parte non piccola dei Nostri pensieri e delle Nostre cure è rivolta a far sì che i traviati ritornino all’ovile del sommo pastore delle anime, Gesù Cristo. Tenendo presente questo, credemmo opportuno, con consiglio e propositi salutari, che gioverebbe non poco descrivere l’immagine e i lineamenti della Chiesa, fra i quali è degnissima di speciale considerazione l’unità, che il divino autore le impresse per l’eternità come insegna di verità e di assoluto valore. L’innata bellezza della Chiesa deve impressionare molto gli animi di chi la contempla; e non è lontano dal vero che con la contemplazione di essa possa essere rimossa l’ignoranza o possano essere sanate le false e preconcette opinioni, specialmente di coloro che sono in errore senza loro colpa, ché anzi può destarsi negli uomini un amore verso la Chiesa simile alla carità, con la quale Gesù Cristo, redimendola col suo sangue divino, la fece sua sposa: “Cristo ha amato la Chiesa, e per essa ha dato se stesso”(Ef 5,25). A quanti faranno ritorno all’amantissima madre, finora non bene conosciuta, o malamente abbandonata, se non è necessario che questo ritorno costi loro del sangue (che peraltro fu il prezzo con il quale Cristo la conquistò) ma qualche fatica o molestia, molto più lieve a sopportarsi, questo almeno sia loro chiaro e palese: che tale peso non è imposto ad essi dalla volontà dell’uomo, ma da un volere e comando divini. Conseguentemente, mediante la grazia celeste, facilmente conosceranno la verità della sua divina affermazione: “Il mio giogo è soave e il mio peso è leggero” (Mt 11,30). Per questo, avendo riposto grandissima speranza nel “Padre dei lumi”, da cui discende “ogni bel dono ed ogni regalo perfetto” (Gc 1,17), di tutto cuore lo supplichiamo, affinché egli, che solo “fa crescere” (1Cor 3,6), voglia benignamente concederci la forza di persuadere.
Benché Dio possa da solo, con le sue facoltà, compiere tutte le cose che vengono compiute dalle nature create, tuttavia volle con benigna provvidenziale decisione, servirsi degli uomini per aiutare gli uomini; e come nell’ordine delle cose naturali si serve dell’opera e del contributo degli uomini per conferire alle cose la debita perfezione, così pure si comporta — nelle cose che superano il limite naturale — allo scopo di dare all’uomo la santità e la salvezza. Ora è chiaro che tra gli uomini non vi può essere comunicazione di sorta se non attraverso le cose esterne e sensibili. Per tale motivo il Figlio di Dio assunse la natura umana e “pur essendo di natura divina... spogliò se stesso assumendo la condizione di servo, divenendo simile agli uomini”(Fil 2,6-7); così, operando sulla terra, parlando direttamente, insegnò agli uomini la sua dottrina e i precetti della sua legge.
E poiché conveniva che la sua divina missione fosse perenne, egli riunì intorno a sé alcuni discepoli della sua dottrina, e li fece partecipi del suo potere; e avendo su di essi chiamato dal cielo “lo Spirito di verità”, comandò loro di percorrere tutta la terra, predicando fedelmente a tutte le genti quanto egli aveva insegnato e comandato, affinché il genere umano, professando la sua dottrina e ubbidendo alle sue leggi, potesse conseguire la santità in terra e la felicità eterna nel cielo.
Per questa ragione e in virtù di questo principio fu generata la Chiesa, la quale, se si considera l’ultimo fine a cui mira, e le cause prossime della santità, è certamente spirituale; ma se si considerano i membri che la compongono e i mezzi che conducono al conseguimento dei doni spirituali, è esterna e necessariamente visibile. Gli Apostoli ricevettero la missione d’insegnare attraverso segni, che si percepiscono con la vista e con l’udito, e non altrimenti essi l’eseguirono se non con parole e con fatti, che in ogni caso colpiscono i sensi. E così la loro voce, percuotendo esternamente gli orecchi, produsse la fede negli animi: “La fede dipende dalla predicazione, e la predicazione si attua per la parola di Cristo”(Rm 10,17). E sebbene la stessa fede, o l’assenso alla prima e suprema verità, per sé sia contenuta nella mente, tuttavia occorre che si manifesti con un’esplicita professione: “Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia, e con la bocca si professa la fede per ottenere la salvezza” (Rm 10,10). Così pure non vi è nulla per l’uomo di più interno della grazia celeste, che produce la santità, ma gli ordinari e principali strumenti per la partecipazione della grazia stessa sono esterni: li chiamiamo sacramenti, che vengono amministrati con certi riti da persone scelte appositamente a tale scopo. Gesù Cristo comandò agli Apostoli e ai loro successori in perpetuo che istruissero e dirigessero le genti, e comandò a queste che ne ricevessero la dottrina e fossero sottomesse ed obbedienti al loro potere. Ma codesti mutui diritti e doveri nel Cristianesimo non avrebbero potuto non solo sopravvivere, ma neppure cominciare, se non attraverso i sensi, interpreti e messaggeri delle cose.
È per questo che spesso le sacre Scritture nominano la Chiesa ora corpo, ora corpo di Cristo: “Ora voi siete il corpo di Cristo”(1Cor 12,27). Come corpo la Chiesa è visibile e, in quanto è di Cristo, è un corpo vivo, operoso e vitale, poiché Gesù Cristo la custodisce e la sostenta con la sua virtù, come la vite alimenta e rende fruttiferi i suoi tralci. Come negli animali il principio di vita è celato e del tutto nascosto, e tuttavia si rivela e si manifesta con il movimento e con l’atteggiamento delle membra, così pure nella Chiesa il principio di vita soprannaturale si manifesta con evidenza con le sue stesse azioni.
Da ciò deriva che sono in un grande e fatale errore coloro i quali si foggiano in mente a proprio capriccio una Chiesa quasi latente e per nulla visibile, come anche coloro che la considerano un’umana istituzione con un certo ordinamento di disciplina e di riti esterni, ma senza la perenne comunicazione dei doni della grazia divina, e senza quelle cose che con aperta e quotidiana manifestazione attestino che la sua vita è derivata da Dio. Ora tanto ripugna che l’una o l’altra cosa sia la Chiesa di Gesù Cristo, quanto che l’uomo sia solo corpo o solo spirito. L’insieme e l’unione di queste due parti è del tutto necessaria alla Chiesa, come alla natura umana l’intima unione dell’anima e del corpo. Non è la Chiesa come un corpo morto, ma è il corpo di Cristo informato di vita soprannaturale. E come Cristo, nostro Capo ed esemplare, non è tutto lui se in lui si considera o la sola natura umana visibile, come sostengono i Fotiniani e i Nestoriani, o solamente la natura divina invisibile, come sogliono affermare i Monofisiti, ma è uno solo per l’una e l’altra natura visibile e invisibile; così il suo corpo mistico non è vera Chiesa se non per questo, che le sue parti visibili derivano forza e vita dai doni soprannaturali e dagli altri elementi da cui sgorgano la loro ragione di essere e la loro natura propria.
E poiché la Chiesa è quello che è per volontà e istituzione divina, deve rimanere tale in perpetuo; e se tale non rimanesse, non sarebbe certamente fondata in perpetuo, e il fine stesso, a cui essa tende, verrebbe circoscritto da determinati confini di tempo e di luogo: ma l’una e l’altra cosa ripugnano alla verità. Pertanto questa unione di cose visibili e invisibili, appunto perché naturale e congenita nella Chiesa per volere divino, deve necessariamente perdurare, finché durerà la Chiesa. Perciò Crisostomo diceva: “Non allontanarti dalla Chiesa, poiché nulla vi è più forte della Chiesa. La tua speranza è la Chiesa, la tua salute è la Chiesa, il tuo rifugio è la Chiesa. Essa è più alta del cielo, più vasta della terra. Non invecchia mai, ma è sempre giovane. Infatti per dimostrare la sua fermezza e stabilità, la Scrittura la chiama monte”[1]. E Sant’Agostino: “Credono (i gentili) che la religione cristiana deve vivere in questo mondo fino a un certo tempo, e poi, non più. Fino a tanto che nasce e tramonta il sole, essa durerà come il sole; cioè, fino a tanto che durerà il volgere dei secoli, non verrà meno la Chiesa di Dio, cioè il corpo di Cristo sulla terra”[2]. La stessa cosa dice altrove: “Vacillerà la Chiesa, se vacillerà il fondamento: ma come mai vacillerà Cristo?... Non vacillando Cristo, neppure essa declinerà in eterno. Dove sono coloro che dicono che la Chiesa è perita nel mondo, mentre essa neppure può inclinarsi?”[3].
Di questi fondamenti deve servirsi chiunque cerca la verità. La Chiesa fu istituita e formata da Cristo Signore: e perciò quando si cerca quale sia la sua natura, occorre anzitutto conoscere quello che Cristo ha voluto e ha fatto. Secondo questa norma si deve specialmente esaminare l’unità della Chiesa, di cui Ci parve bene dare in questa Lettera un cenno a comune vantaggio.
Che la vera Chiesa di Gesù Cristo sia una, è cosa a tutti così nota, per le chiare e molteplici testimonianze della sacra Scrittura, che nessun cristiano osa contraddirla. Però nel giudicare e stabilire la natura dell’unità, vari errori sviano molti dal retto sentiero. Non solo l’origine, ma tutta la costituzione della Chiesa appartiene a quel genere di cose che liberamente si effettuano dagli uomini, e quindi tutto l’esame deve basarsi sui fatti, e si deve cercare non in che modo la Chiesa possa essere una sola, ma come una sola l’ha voluta chi l’ha fondata.
Ora se si osserva ciò che fu compiuto, Gesù Cristo non formò la sua Chiesa in modo che abbracciasse più comunità dello stesso genere, ma distinte e non collegate insieme con quei vincoli che formano una sola e individua Chiesa, a quel modo che nel recitare il simbolo della fede noi diciamo “Credo unam... Ecclesiam”. “La Chiesa ebbe in sorte una sola natura, ed essendo una, gli eretici vogliono scinderla in molte. Affermiamo dunque che è unica l’antica e cattolica Chiesa nel suo essere e nella comune credenza, nel suo principio e per la sua eccellenza... Del resto anche l’eminenza della Chiesa, come principio di costruzione, risulta dalla sua unità, superando ogni altra cosa, e nulla avendo di simile a sé o di eguale”[4]. E infatti Gesù Cristo, parlando di questo mistico edificio, non parla che di una Chiesa, che egli chiama sua: “Edificherò la mia Chiesa”. Qualora si pensi a qualunque altra fuori di questa, non essendo fondata da Gesù Cristo, non può essere la vera Chiesa di Cristo. E questo diventa ancora più evidente, se si considera l’intento del divino Autore. Che cosa infatti egli ebbe di mira nel fondare la Chiesa, che cosa volle Cristo Signore? Questo: trasmetterle l’ufficio e la missione che egli aveva avuto dal Padre, perché la continuasse. Questo egli aveva stabilito di fare, e questo fece: “Come il Padre ha mandato me, così io mando voi”(Gv 20,21). “Come tu hai mandato me nel mondo, anch’io li ho mandati nel mondo”(Gv 17,18).
Ora, ufficio di Cristo è di salvare ciò che era perito, cioè non alcune genti e città, ma tutto il genere umano senza distinzione di tempi e di luoghi: “Venne il Figlio dell’uomo... affinché il mondo sia salvato per opera di lui”(Gv 3,17). “Infatti non vi è sotto il cielo altro nome dato agli uomini, per il quale noi possiamo essere salvati” (At 4,12). È pertanto dovere della Chiesa diffondere largamente in tutti gli uomini in nome di Gesù Cristo, e propagare in tutte le età, la salvezza e insieme tutti i benefici che ne provengono. Per questo è necessario che, secondo il volere del suo Autore, sia unica in tutto il mondo e in tutti i tempi. Perché potesse essere più d’una, occorrerebbe che si estendesse fuori del mondo, e che s’immaginasse un nuovo e non mai udito genere umano.
Che la Chiesa dovesse essere una, che in ogni tempo dovesse abbracciare quanti sono nel mondo, vide e vaticinò Isaia, quando in una visione del futuro egli la vide sotto l’apparenza di un monte di smisurata altezza, che esprimeva l’immagine della Casa del Signore, cioè della Chiesa: “E avverrà negli ultimi giorni che il monte della casa del Signore si ergerà sulla sommità dei monti”(Is 2,2). Ora uno è il monte sovrastante gli altri monti, una la casa del Signore, a cui concorreranno tutte le genti per chiedere la norma del vivere. “E tutte le genti affluiranno ad esso... e diranno: Venite, saliamo al monte del Signore, alla casa del Dio di Giacobbe; egli ci indicherà le sue vie, e noi cammineremo per i suoi sentieri”(Is 2,2-3). Accennando a questo testo, Ottato di Milevi dice: “Sta scritto nel profeta Isaia: Da Sion uscirà la legge, e da Gerusalemme la parola di Dio. Dunque, Isaia non vede la valle nel monte Sion, ma nel monte santo, che è la Chiesa: monte che per tutto il mondo romano innalzò il capo sotto ogni cielo... Pertanto la Chiesa è quella Sion spirituale, nella quale Cristo è costituito Re dal Padre, e che esiste in tutto il mondo: quel mondo in cui la Chiesa cattolica è una”[5].
E Agostino dice: “Che vi è di più visibile di un monte? Eppure vi sono monti, in qualche parte della terra, a noi sconosciuti... Ma non così quel monte che ha di sé riempito tutta la superficie della terra, e di cui si dice che è fondato sulle vette dei monti”[6]. Inoltre il Figlio di Dio volle che la Chiesa fosse il suo mistico corpo, a cui egli come Capo si sarebbe unito a somiglianza del corpo umano che assunse e al quale, appunto, è connesso come capo naturale con legame di natura. E come egli prese un unico corpo mortale, che offrì ai tormenti e alla morte per pagare il prezzo dell’umano riscatto, così pure egli ha un solo corpo mistico, nel quale e per il quale rende gli uomini capaci della santità e della salute eterna. “Dio costituì lui (Cristo) capo sopra tutta la Chiesa, che è il corpo di lui”(Ef 1,22-23). Membra separate e disperse non possono aderire al capo per formare insieme un corpo. Ora Paolo dice: “Come tutte le membra del corpo, benché molte, formano tuttavia un solo corpo, così anche Cristo”(1Cor 12,12). E perciò dice di questo corpo mistico che è compatto e collegato. “Il capo è Cristo, da cui tutto il corpo è compatto e solidamente collegato, per tutte le congiunture del rifornimento, secondo l’attività proporzionata a ciascun membro”(Ef 4,15-16). Quindi, se qualche membro si divide e vaga disperso dagli altri, non può rimanere congiunto con lo stesso ed unico capo. “Uno è Dio, dice San Cipriano, Cristo è uno, una la sua Chiesa, una la sua fede, uno il suo popolo, congiunto col glutine della concordia in una solida unità di corpo. Non si può scindere l’unità, né sciogliere la compagine di un corpo che per sé è uno”[7]. E per meglio rappresentare la Chiesa una, la paragona al corpo animato, le cui membra non possono vivere altrimenti che congiunte col capo, da cui derivano la loro virtù vitale; separate che siano, necessariamente muoiono.
“Non può (la Chiesa)... essere squarciata e lacerata nelle viscere, non può essere fatta a pezzi. Tutto ciò che viene strappato dalla matrice non può avere per sé spirito e vita”[8]. Ora, che somiglianza ha mai un corpo morto con uno vivo? San Paolo dice: “Nessuno odia il proprio corpo, ma lo nutre e lo custodisce, come Cristo fa con la Chiesa, perché siamo membri del suo corpo, carne della sua carne, ossa delle sue ossa” (Ef 5,29-30)
. Se dunque si vuole formare un’altra Chiesa, un altro corpo, gli si dia un altro Capo, un altro Cristo. “Guardate bene, dice Sant’Agostino, quello che dovete evitare, guardate quello che dovete osservare, guardate quello che dovete temere. Accade che nel corpo umano, anzi dal corpo umano, si tagli via qualche membro, una mano, un dito, un piede; forse che l’anima segue il membro reciso? Quand’esso era unito al corpo, viveva: tagliato, perde la vita. Non altrimenti l’uomo cristiano è cattolico in quanto vive nel corpo (della Chiesa); tagliatone fuori, diviene eretico: lo spirito non segue un membro amputato”[9]. La Chiesa di Cristo è dunque unica e perpetua. Chiunque se ne separa, devìa dalla volontà e dal precetto di Cristo nostro Signore, e, abbandonata la via della salute, corre alla rovina. “Chiunque, dice San Cipriano, segregato dalla (vera) Chiesa, si unisce alla adulterina, si allontana dalle promesse (fatte) alla Chiesa; né giungerà al premio di Cristo chi abbandona la Chiesa di Cristo. Chi non mantiene questa unità, non osserva la legge di Dio, non ha la fede del Padre e del Figlio, non raggiunge la vita e la salute”[10].
Ora, colui che la fece unica, la fece una, cioè, tale che quanti fossero in essa, si mantenessero associati con strettissimi vincoli, in modo da formare un popolo, un regno, un corpo: “Un solo corpo ed un solo spirito, come siete stati chiamati ad una sola speranza, grazie alla vostra vocazione”(Ef 4,4).
Gesù Cristo confermò e consacrò in modo solenne questa sua volontà poco prima di morire, così pregando il padre suo: “Io non prego solamente per essi, ma anche per quelli che mediante la loro parola crederanno in me, affinché anch’essi siano una sola cosa in noi... affinché giungano a perfetta unità”(Gv 17,20-21-23). Ché anzi volle che l’unità fosse tra i suoi seguaci così intima e perfetta che in qualche modo imitasse la sua unione col Padre: “Prego... affinché tutti siano una cosa sola, come tu, o Padre, sei in me, ed io in te”(Gv 17,21). Necessario fondamento di tanta e così assoluta concordia tra gli uomini sono il consenso e l’unione delle menti, da cui nascono naturalmente l’armonia delle volontà e la somiglianza delle azioni. Perciò volle, nel suo divino consiglio, che ci fosse nella Chiesa “l’unità della fede”: virtù che tiene il primo luogo tra i vincoli che legano l’uomo a Dio, e da cui riceviamo il nome di fedeli. “Un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo”(Ef 4,5), che è quanto dire che, come uno solo è il Signore e uno il battesimo, così anche una sola dev’essere la fede di tutti i cristiani in tutto il mondo. Pertanto l’Apostolo Paolo non solo prega, ma domanda e scongiura che tutti abbiano lo stesso sentimento, e fuggano la discordia delle opinioni: “Fratelli, in nome del Signore nostro Gesù Cristo, io vi scongiuro che tutti teniate uno stesso linguaggio, e non esistano tra voi divisioni, ma siate perfettamente uniti in uno stesso sentimento e in uno stesso pensiero”(1Cor 1,10). Questi testi non hanno certamente bisogno d’interpretazione, poiché parlano chiaramente da sé. Del resto che una debba essere la fede, quanti si professano cristiani comunemente ne convengono. Quello piuttosto che è di massimo rilievo, anzi assolutamente necessario, e in cui molti s’ingannano, è di conoscere quale sia questa specie e forma di unità. La qual cosa, come abbiamo fatto più innanzi in simile assunto, si deve discutere non già con argomenti di probabilità e con congetture, ma con la certa scienza dei fatti: ossia si deve cercare e stabilire quale sia quell’unità di fede che Gesù Cristo ci ha comandato.
La celeste dottrina di Gesù Cristo, benché in gran parte fissata nelle carte divine, non poteva tuttavia, se fosse stata lasciata all’arbitrio dell’uomo, vincolare le menti. Infatti poteva accadere che desse luogo a varie e differenti interpretazioni: e ciò non solo per se stessa e per i misteri della sua dottrina, ma anche per la varietà delle menti umane e per il turbamento delle passioni, aberranti in contrarie direzioni. Dalla differenza dell’interpretazione nascono necessariamente le divergenze nel sentire: e quindi le controversie, i dissidi, le contese, quali ne vide la stessa età prossima all’origine della Chiesa.
Degli eretici scrive Ireneo: “Essi confessano, è vero, le Scritture, ma ne pervertono il senso”[11]. E Agostino: “Non sono nate le eresie e certi dogmi perversi, che irretiscono le anime e le precipitano nel profondo, se non quando le sacre Scritture non furono bene intese”[12]. Per armonizzare dunque le menti allo scopo di produrre e mantenere l’accordo delle sentenze, oltre le sacre Scritture era sempre necessario un altro principio. Lo esige la divina sapienza; infatti Dio non poteva volere che vi fosse una sola fede, se non avesse procurato qualche mezzo adatto per conservare questa unità: ciò che le sacre Scritture, come diremo fra poco, apertamente dichiarano. Certamente l’infinita potenza di Dio non è legata e vincolata ad alcuna cosa, e usa tutte le cose come strumenti docili e obbedienti. Si deve dunque esaminare quale sia questo principio esterno che Cristo ha prescelto tra quanti sono in suo potere. Quindi occorre richiamare alla mente i princìpi della religione cristiana.
Rammentiamo cose a noi attestate dalle divine Scritture e a tutti note. Gesù Cristo, con la sua virtù taumaturgica, prova la sua divinità e la sua missione divina; ammaestra con la parola le moltitudini intorno alle cose celesti, e comanda a tutti, con promessa di premi e minaccia di pene eterne, perché prestino fede a lui che insegna. “Se io non faccio le opere del Padre mio, non vogliate credermi (Gv 10,37). Se non avessi operato in loro cose che nessun altro fece, non avrebbero colpa. Se poi faccio tali cose, e non mi volete credere, credete almeno alle mie opere”(Gv 10,38).
Tutto ciò che egli comanda, lo comanda con la stessa autorità, e nell’esigere l’assenso dell’intelletto niente eccettua, niente distingue. Coloro dunque che avevano udito Gesù, se si volevano salvare, erano obbligati a ricevere non solo la sua dottrina in genere, ma ad assentire pienamente a tutte le cose da lui insegnate: poiché ripugna che anche in una cosa sola non si creda a Dio.
Giunto il tempo di ritornare al cielo, con quello stesso potere con cui era stato inviato dal Padre, egli manda i suoi Apostoli, ordinando loro di spandere e diffondere la sua dottrina: “A me fu dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque, e ammaestrate tutte le genti... insegnando loro ad osservare tutto quanto vi ho comandato”(Mt 28,18-20). Saranno salvi quanti ubbidiranno agli Apostoli, e riprovati quanti negheranno loro ubbidienza. “Chi crederà e sarà battezzato si salverà, ma chi non crederà sarà condannato”(Mc 16,16 ). Ora, essendo cosa sommamente conveniente alla Provvidenza di Dio il non prescegliere alcuno a un grande ed eccellente ufficio senza dargli contemporaneamente quanto gli occorre per bene adempierlo, per questo Gesù Cristo promise che avrebbe mandato ai suoi Apostoli lo Spirito di verità, e che questo Spirito sarebbe rimasto in essi perpetuamente. “Se vado, vi manderò (il Confortatore)... Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intiera (Gv 16,7-13). Io pregherò il Padre, ed egli vi darà un altro Confortatore perché rimanga con voi per sempre lo Spirito di verità (Gv 14,16-17). ... Egli mi renderà testimonianza, e voi pure mi renderete testimonianza” (Gv 15,26-27). Quindi comanda che la dottrina degli Apostoli sia ricevuta con religioso ossequio e santamente osservata come la sua propria. “Chi ascolta voi, ascolta me; chi rigetta voi, rigetta me”(Lc 10,16). Per questo gli Apostoli sono ambasciatori di Gesù Cristo, come egli lo è del Padre: “Come il Padre ha mandato me, così io mando voi”(Gv 20,21): per conseguenza, come gli Apostoli e i discepoli dovevano essere ossequenti ai detti di Gesù Cristo, così lo debbono essere a quelli degli Apostoli quanti vengono istruiti da loro per divino mandato. Quindi non è lecito ripudiare nemmeno uno degli ammaestramenti degli Apostoli, come non si può rigettare alcuna cosa della dottrina di Cristo. E veramente la voce degli Apostoli, investiti dello Spirito Santo, largamente risuonò dappertutto. Ovunque essi si fermassero, ivi si presentavano come ambasciatori di Cristo: “Per mezzo di lui (Gesù Cristo) abbiamo ricevuto la grazia dell’Apostolato per ottenere l’obbedienza alla fede da parte di tutte le genti, a gloria del suo nome”(Rm 1,5); e Dio autentica con miracoli la loro divina missione: “Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro e confermava la parola con i prodigi che l’accompagnavano”(Mc 16,20). E quale insegnamento? Quello senza dubbio che in sé conteneva quanto essi avevano imparato dal Maestro: infatti apertamente davanti a tutti essi dichiarano che non potevano tacere le cose che avevano vedute e udite.
Ma, come abbiamo detto altrove, questa missione apostolica non era tale che potesse terminare con la persona degli Apostoli o venire meno con l’andar del tempo, essendo essa una missione universale e istituita per la salvezza del genere umano. Agli Apostoli infatti Gesù Cristo comandò che predicassero “il Vangelo ad ogni creatura”; che portassero “il suo nome innanzi alle genti e ai re”, e che fossero “suoi testimoni sino alla estremità della terra”. E promise loro per l’adempimento di sì grande missione la sua assistenza, non già per alcuni anni o epoche determinate, ma per tutto il tempo sino “alla fine del mondo”. A questo proposito Girolamo dice: “Colui che promette di essere coi suoi discepoli sino alla fine del mondo, fa chiaramente intendere che essi sempre vivranno, e che egli non si allontanerà mai dai credenti”[13]. Le quali cose come mai si sarebbero potute verificare nei soli Apostoli, soggetti anch’essi per l’umana condizione alla morte? Era dunque nei disegni della Provvidenza che il magistero, istituito da Gesù Cristo, non finisse con la vita degli Apostoli, ma fosse perpetuo. Infatti noi lo vediamo propagarsi e passare, diremo così, di mano in mano. Gli Apostoli perciò consacrarono dei vescovi, e nominatamente designarono coloro che dovevano succedere loro di lì a poco nel ministero della parola. Né si tennero paghi di ciò, ma imposero anche ai loro successori che scegliessero persone idonee, le quali, investite dalla medesima autorità, avessero lo stesso incarico ed ufficio d’insegnare. “Tu, dunque, figlio mio, attingi forza nella grazia che è in Gesù Cristo, e le cose che hai udite da me in presenza di molti testimoni, trasmettile a persone fidate, le quali siano in grado di ammaestrare a loro volta anche altri”(2Tm 2,1-2). E perciò come Cristo fu mandato da Dio, e gli Apostoli da Cristo, così i vescovi e quanti successero agli Apostoli sono mandati dagli Apostoli. “Gli Apostoli furono costituiti per noi predicatori del Vangelo da Nostro Signore Gesù Cristo, e Gesù Cristo fu mandato da Dio. Cristo perciò fu mandato da Dio, e gli Apostoli da Cristo, e l’una e l’altra cosa furono compiute successivamente per volontà di Dio... Predicando poi la parola nelle regioni e nelle città, costituirono vescovi e diaconi scegliendoli fra coloro che erano stati fra i primi convertiti, dopo averne provata la capacità... Costituirono i suddetti e quindi ordinarono che, alla loro morte, altri uomini capaci prendessero il loro posto nel ministero”[14]. È dunque indispensabile per un lato che sia costante e immutabile l’ufficio d’insegnare quanto Cristo insegnò, e per l’altro che sia pure costante ed immutabile il dovere di ricevere e professare tutta la dottrina degli Apostoli. Il che splendidamente Cipriano illustra con queste parole: “Quando Nostro Signore Gesù Cristo nel suo Vangelo affermò che erano suoi nemici coloro che non erano con lui, non additò alcuna specie di eresia, ma mostrò come suoi avversari tutti coloro che, non essendo né raccogliendo con lui, disperdevano il suo gregge, dicendo: Chi non è con me, è contro di me; chi non raccoglie con me, disperde”[15].
Ammaestrata da tali precetti, la Chiesa, memore del proprio ufficio, non si è mai tanto preoccupata di impegnarsi con ogni zelo e con ogni sforzo come quando si è trattato di tutelare in ogni sua parte l’integrità della fede e di considerare ribelli e di espellere da sé coloro che non la pensassero come lei in un articolo qualunque della sua dottrina. Gli Ariani, i Montanisti, i Novaziani, i Quartadecumani, gli Eutichiani non avevano certamente abbandonato in tutto la dottrina cattolica, ma solo in qualche parte; tuttavia, chi ignora che essi sono stati dichiarati eretici ed espulsi dal seno della Chiesa? Allo stesso modo vennero in seguito condannati quanti furono in vari tempi autori di perverse dottrine. “Niente vi può essere di più pericoloso di questi eretici, i quali, mentre percorrono il tutto (della dottrina) senza errori, con una sola parola, come con una stilla di veleno, infettano la pura e schietta fede della divina e dell’apostolica tradizione”[16]. Tale, appunto, fu sempre il modo di comportarsi della Chiesa, e ciò anche per l’unanime giudizio dei santi Padri, i quali considerarono sempre eretici e scomunicati tutti coloro che, anche per poco, si allontanarono dalla dottrina proposta dal legittimo magistero. Epifanio, Agostino, Teodoreto fornirono un lungo catalogo delle eresie dei loro tempi. Agostino osserva che errori d’ogni specie possono pullulare; e se qualcuno aderisce ad uno solo di essi, per questo si separa dall’unità cattolica: “Chi crede a queste cose (cioè alle eresie indicate), perciò stesso non deve ritenersi o dirsi cristiano cattolico. Vi possono essere e formarsi anche altre eresie, che non sono ricordate in questa nostra opera; se uno aderirà a qualcuna di esse, non sarà cristiano cattolico”[17].
Il beato Paolo nella lettera agli Efesini insiste sul modo di tutelare l’unità, di cui parliamo, come fu stabilito per divino volere. Egli dapprima esorta a conservare con grande impegno la concordia degli animi: “Studiatevi di conservare l’unità dello spirito mediante il vincolo della pace”(IV, 3 et seqq.); e, poiché gli animi non possono essere in tutto concordi per la carità, quando gli intelletti non consentano nella fede, vuole che in tutti vi sia una sola fede: “Un solo Signore, una sola fede”; e così perfettamente una, che rimuova ogni pericolo di errare: “Allora non saremo più fanciulli sbalzati e portati qua e là da ogni vento di dottrina, tra i raggiri degli uomini e la scaltrezza a inoculare l’errore”. E questo, egli dice, si deve osservare non per qualche tempo, ma “finché tutti insieme non giungiamo all’unità della fede... alla misura della piena statura di Cristo”.
Ma di questa unità, dove Gesù Cristo pose il principio per stabilirla e il presidio per conservarla? In questo: “È Lui stesso che costituì alcuni Apostoli... altri pastori e dottori, per rendere i santi capaci di compiere il loro ministero, affinché sia edificato il corpo di Cristo”(Ef 4,11,12). Per la qual cosa fin dalla più remota antichità i dottori e i Padri della Chiesa solevano seguire questa regola, e difenderla ad una voce. Così dice Origene: “Ogni volta in cui (gli eretici) mostrano le scritture canoniche, che ogni cristiano ammette e nelle quali crede, sembrano dire: Ecco la parola di verità. Ma noi non dobbiamo credere loro, né allontanarci dalla prima tradizione ecclesiastica, né credere diversamente, se non come per successione le Chiese di Dio ci hanno tramandato”[18]. E Ireneo afferma: “La vera dottrina è quella degli Apostoli... secondo le successioni dei vescovi... trattazione ripiena delle Scritture, custodita con diligenza e senza inganno, che giunse fino a noi”[19]. Tertulliano dice: “È certo che ogni dottrina, che sia conforme a quelle tenute dalle primitive Chiese apostoliche, è veritiera, e senza dubbio afferma ciò che le Chiese ricevettero dagli Apostoli, gli Apostoli da Cristo, e Cristo ricevette da Dio... Abbiamo comunione con le Chiese apostoliche; in nessuna di esse vi è una dottrina diversa: questa è la testimonianza della verità”[20]. Ilario poi afferma: “(Cristo, insegnando dalla barca) indica che quelli che sono fuori della Chiesa non possono capire la parola divina. La barca infatti è la figura della Chiesa; quelli che sono fuori di essa e quelli che stanno vuoti e inutili sulla riva, non possono comprendere la parola di vita posta e predicata in essa”[21]. Rufino loda Gregorio Nazianzeno e Basilio, perché “si dedicavano solamente allo studio dei libri della sacra Scrittura, e li interpretavano non seguendo la propria intelligenza, ma secondo l’autorità e gli scritti degli autori precedenti, che a loro volta avevano ricevuto le regole dell’interpretazione dalla successione apostolica”[22].
Da quanto si è detto appare dunque che Gesù Cristo istituì nella Chiesa un “vivo, autentico e perenne magistero”, che egli stesso rafforzò col suo potere, informò dello spirito di verità e autenticò coi miracoli; e volle e comandò che i precetti della sua dottrina fossero ricevuti come suoi. Dunque ogni volta in cui questo magistero dichiara che questo o quel dogma è contenuto nel corpo della dottrina divinamente rivelata, ciascuno lo deve tenere per vero, poiché, se potesse essere falso, ne seguirebbe che Dio stesso sarebbe autore dell’errore dell’uomo, il che ripugna: “O Signore, se vi è errore, siamo stati ingannati da te”[23]. Quindi, rimossa ogni ragione di dubitare, a chi mai sarà lecito ripudiare una sola di queste verità, senza che egli venga per questo stesso a cadere in eresia e senza che, essendo separato dalla Chiesa, rigetti in complesso tutta la dottrina cristiana? Tale è infatti la natura della fede che nulla tanto le ripugna come ammetterne un dogma e ripudiarne un altro. Infatti la Chiesa dichiara apertamente che la fede è una “virtù soprannaturale, con la quale, ispirati ed aiutati dalla grazia di Dio, crediamo che sono vere le cose da lui rivelate, non già per l’intrinseca verità delle medesime conosciuta con il lume naturale della ragione, ma per l’autorità dello stesso Dio rivelante, che non può ingannare né essere ingannato”[24]. Se dunque si conosce che una verità è stata rivelata da Dio, e tuttavia non si crede, ne consegue che nulla affatto si crede per fede divina. Infatti quanto Giacomo Apostolo sentenzia a proposito del delitto in materia di costumi, deve affermarsi circa un’opinione erronea in materia di fede: “Chiunque avrà mancato in un punto solo, si è reso colpevole di tutti”. Anzi, a più forte ragione deve dirsi di questa che di quello. Infatti, meno propriamente si dice violata tutta la legge da colui che la trasgredì in una cosa sola, non potendosi vedere in lui, se non interpretandone la volontà, un disprezzo della maestà di Dio legislatore. Invece colui che, anche in un punto solo, dissente dalle verità rivelate, ha perduto del tutto la fede, in quanto ricusa di venerare Dio come somma verità e proprio motivo di fede; perciò Agostino dice: “In molte cose concordano con me, in alcune poche no; ma per quelle poche cose in cui non convengono con me, a nulla giovano loro le molte in cui convengono con me”[25].
E con ragione; perché coloro che prendono della dottrina cristiana quello che a loro piace, si basano non sulla fede, ma sul proprio giudizio: e non “riconducendo tutto il proprio intelletto all’obbedienza a Cristo”(1Cor 10,5), obbediscono più propriamente a loro stessi che a Dio. “Voi, diceva Agostino, che nel Vangelo credete quello che volete, e non credete quello che non volete, credete a voi stessi piuttosto che al Vangelo”[26].
Per questo i Padri del Concilio Vaticano nulla hanno decretato di nuovo, ma solo ebbero presente l’istituzione divina, l’antica e costante dottrina della Chiesa e la stessa natura della fede, quando decretarono: “Per fede divina e cattolica si deve credere tutto ciò che è contenuto nella parola di Dio scritta o tramandata, e viene proposto dalla Chiesa o con solenne definizione o con ordinario e universale magistero come verità da Dio rivelata”[27]. Pertanto, essendo chiaro che Dio vuole assolutamente nella sua Chiesa l’unità della fede, e conoscendo quale essa sia e con quale principio deve essere tutelata per divino comando, Ci sia permesso d’indirizzare a quanti non persistono nel voler chiudere gli orecchi alla verità, le seguenti parole di Agostino: “Vedendo noi tanta copia di aiuti da parte di Dio, tanto profitto e frutto, dubiteremo di chiuderci nel seno di quella Chiesa la quale (anche per confessione del genere umano, dalla Sede Apostolica per la successione dei vescovi, nonostante che intorno a lei latrino vanamente gli eretici, già condannati sia dall’opinione popolare, sia dal grave giudizio dei Concilii, sia dalla grandezza dei miracoli) è giunta all’apice dell’autorità? Il negarle il primato, è proprio o di una somma empietà, o di una precipitosa arroganza... E se ogni arte, per quanto vile e facile, perché si possa apprendere, richiede un insegnante o un maestro, che v’è di più superbamente temerario che non voler conoscere i libri contenenti i divini misteri dai loro interpreti, o, non conoscendoli, volerli condannare?”[28].
È dunque, senza dubbio, compito della Chiesa custodire la dottrina di Cristo e propagarla inalterata ed incorrotta. E neppur questo è tutto; anzi, nemmeno in ciò si racchiude il fine per cui la Chiesa fu stabilita. Infatti, come Gesù Cristo si è sacrificato per la salvezza del genere umano, e a questo scopo ha diretto quanto ha insegnato ed operato, così volle che la Chiesa cercasse nella verità della dottrina quanto fosse necessario alla santificazione e alla salute eterna degli uomini.
Ora, la sola fede non basta a raggiungere così grande ed eccelsa meta, ma sono necessari sia quel culto giusto e devoto di Dio, che specialmente consiste nel divin sacrificio e nella partecipazione dei sacramenti, sia la santità delle leggi e della disciplina.
Tutte queste cose deve contenere in sé la Chiesa, che continua nel tempo l’ufficio del Salvatore. Essa sola dà ai mortali quella religione perfetta, che egli volle in lei incarnare, e sola somministra quelle cose, le quali, secondo l’ordine della Provvidenza, sono gli strumenti della salute.
E nello stesso modo in cui la celeste dottrina non fu mai lasciata in balìa dell’ingegno e della volontà dell’uomo, ma, insegnata inizialmente da Cristo, venne poi affidata specificamente come già si disse, al magistero della Chiesa, così non ai singoli individui del popolo cristiano, ma a persone scelte fu comunicato da Dio il potere di operare e amministrare i divini misteri, insieme al potere di reggere e governare. Infatti non ad altri che agli Apostoli e ai loro legittimi successori si riferiscono quelle parole di Gesù Cristo: “Andate per tutto il mondo e predicate il Vangelo... battezzandoli... Fate questo in memoria di me... A chi rimetterete i peccati, saranno rimessi”. Allo stesso modo solo agli Apostoli e ai loro successori comandò che pascessero il suo gregge, cioè che governassero tutta la cristianità, e per conseguenza comandò ai fedeli che dovessero essere a loro soggetti ed obbedienti. Tutti questi uffici apostolici vengono da Paolo compendiati in una sentenza: “Ognuno ci consideri come ministri di Cristo e amministratori dei misteri di Dio”(1Cor 4,1).
Per questo Gesù Cristo invitò tutti i mortali, presenti e futuri, a seguirlo come capo e salvatore, e non solo come singoli individui, ma anche come associati e uniti insieme realmente e di cuore, tanto da formare di una moltitudine un popolo giuridicamente costituito in società: uno per l’unità di fede, di fine e di mezzi, soggetto ad uno stesso unico potere. Così egli pose nella Chiesa tutti quei naturali princìpi che danno origine all’umana società, in cui gl’individui raggiungono la perfezione propria della loro natura; egli pose infatti nella Chiesa quanto occorre perché coloro che vogliono essere figli adottivi di Dio, possano conseguire una perfezione conforme alla loro dignità ed ottenere la salvezza. La Chiesa dunque, come accennammo altrove, è guida alle cose celesti; ad essa Dio diede l’incarico di provvedere e stabilire quanto concerne la religione, e di governare con potere proprio e con tutta libertà la società cristiana. Per questo, o non conoscono bene la Chiesa, o la calunniano con malanimo coloro che l’accusano di volersi intromettere nelle cose civili o invadere i diritti dello Stato. Ché anzi Dio ha fatto sì che la Chiesa fosse di gran lunga superiore a tutte le altre società; infatti il fine a cui tende è tanto più eccelso di quello a cui mirano le altre società, quanto la grazia sovrasta alla natura e i beni immortali ai caduchi.
La Chiesa è una società divina nella sua origine; soprannaturale nel suo fine e nei mezzi immediatamente ordinati a quello; ed è umana perché si compone di uomini. In verità, la vediamo spesso indicata nella sacra Scrittura con nomi che designano una società perfetta. Infatti viene detta non solo Casa di Dio, Città posta sul monte, dove è necessario che si raccolgano tutte le genti, ma anche Ovile, in cui devono riunirsi tutte le pecorelle di Cristo sotto un solo pastore, anzi Regno che Dio fondò, e che durerà in eterno, e finalmente Corpo di Cristo, mistico, sì, ma vivo, perfettamente composto e risultante di molti membri, i quali non hanno la stessa operazione e tuttavia si mantengono uniti insieme sotto lo stesso capo, che li regge e governa.
Non si può pensare ad una vera e perfetta società fra gli uomini senza un sommo potere che la regga. Gesù Cristo deve dunque aver preposto alla Chiesa un sommo reggitore, a cui tutta la moltitudine dei cristiani sia sottomessa e ubbidisca. Per tale motivo, come per l’unità della Chiesa, in quanto è “riunione dei fedeli”, si richiede necessariamente l’unità della fede, così per l’unità della medesima, in quanto è una società divinamente costituita, si esige per diritto divino l’“unità di governo”, la quale produce e in sé racchiude l’“unità della comunione”. “Ora l’unità della Chiesa è riposta in queste due cose: nella mutua unione dei membri della Chiesa, cioè nella comunione; e nella corrispondenza di tutti i membri della Chiesa con un solo Capo”[29].
Da questo si può capire che gli uomini si separano dall’unità della Chiesa non meno con lo scisma che con l’eresia. “Tra l’eresia e lo scisma corre, per comune opinione, questa differenza: l’eresia ha un perverso dogma, lo scisma invece si separa dalla Chiesa per una scissura episcopale”[30]. In ciò concorda anche il Crisostomo, dicendo: “Io dico e professo che non è minor male lo scindere la Chiesa, che cadere nell’eresia”[31]. Quindi, se non può essere giusta qualsiasi eresia, per la stessa ragione non vi ha scisma che si possa giustificare. “Nulla è più grave del sacrilegio di uno scisma... non vi è mai giusta necessità di rompere l’unità”[32].
Quale sia poi questo potere, a cui tutti i cristiani debbono obbedire, non si può altrimenti determinare che dopo avere esaminato e conosciuto la volontà di Cristo.
Certamente Cristo è re in eterno e, benché invisibile, tutela e governa perpetuamente dal cielo il suo regno: ma poiché volle che questo fosse visibile, dovette designare chi, dopo la sua ascensione al cielo, facesse le sue veci in terra. “Chiunque affermasse, dice Tommaso, che il solo capo e il solo pastore della Chiesa è Cristo, che è l’unico sposo dell’unica Chiesa, non si esprimerebbe con precisione. Infatti è evidente che è lo stesso Cristo che opera i sacramenti della Chiesa, che battezza, che rimette i peccati, che, vero sacerdote, s’immolò sull’altare della croce, e che per sua virtù ogni giorno si consacra il suo corpo sull’altare; e tuttavia, poiché non sarebbe stato corporalmente e personalmente presente a tutti i fedeli per l’avvenire, elesse dei ministri, per mezzo dei quali potesse dispensare quanto è stato indicato, come già si è detto (cap. 74). Per la stessa ragione, prima di privare la Chiesa della sua corporale presenza, gli fu necessario destinare qualcuno che in suo luogo ne avesse cura. Quindi disse a Pietro prima dell’ascensione: Pasci le mie pecorelle”74[33]. Gesù Cristo dunque diede alla Chiesa, per sommo reggitore, Pietro, e nello stesso tempo stabilì che tale potere, istituito in perpetuo per la comune salvezza, si trasmettesse per eredità ai successori, nei quali lo stesso Pietro sopravvive con perenne autorità. Infatti fece quell’insigne promessa a Pietro, e a nessun altro: “Tu sei Pietro, e su questa pietra io edificherò la mia Chiesa”(Mt 16,18 ). “A Pietro il Signore ha parlato, a lui solo, perché da uno solo fondasse l’unità”[34]. “Senza aggiungere altre parole... (Gesù) chiama il padre di lui e lui stesso per nome (beato te, Simone, figlio di Iona), ma poi non sopporta che si chiami ancora Simone, già fin d’ora reclamandolo tutto per sé, per i suoi fini, e con significativo paragone volle che si chiamasse Pietro da pietra, perché sopra di lui avrebbe fondato la sua Chiesa”[35]. Dalla citata profezia è evidente che per volere e ordine di Dio la Chiesa si fonda sul beato Pietro, come l’edificio sul suo fondamento.
Ora la natura e la forza del fondamento consistono nel far sì che le diverse parti dell’edificio si mantengano collegate insieme, e che all’opera sia necessario quel vincolo di stabilità e fermezza, senza il quale ogni edificio cade in rovina. È dunque proprio di Pietro sorreggere e conservare unita e ferma in indissolubile compagine la Chiesa. Ma chi potrebbe adempiere un compito così grave senza il potere di comandare, proibire e giudicare che veramente e propriamente si chiama giurisdizione? Infatti, solo in virtù di questo potere si reggono le città e gli Stati. Un primato di onore e quella tenue facoltà di consigliare e di ammonire, che si chiama direzione, non possono giovare molto né all’unità né alla fermezza.
Il potere, di cui parliamo, ci viene dichiarato e confermato da quelle parole: “E le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa”. “A chi si riferisce, domanda Origene, la parola essa? Alla pietra su cui Cristo edifica la Chiesa, o alla Chiesa stessa? Ambigua è la frase: vorrà dire che siano quasi una stessa cosa la pietra e la Chiesa? Io credo appunto che questo sia vero; poiché né contro la pietra, su cui Cristo edifica la Chiesa, né contro la Chiesa prevarranno le porte dell’inferno”[36]. La forza perciò di quella divina sentenza è questa: qualunque violenza o artificio usino i nemici visibili e invisibili, non sarà mai che la Chiesa affidata a Pietro soccomba e perisca: “La Chiesa, essendo edificio di Cristo, che sapientemente edificò la sua casa sulla pietra, non può essere preda delle porte dell’inferno, che possono sì prevalere contro qualsiasi uomo che sia fuori della pietra e della Chiesa, ma non contro di essa”[37]. Dunque Dio affidò la sua Chiesa a Pietro, affinché egli, quale invitto tutore, la conservasse perpetuamente incolume. Quindi lo investì del necessario potere, poiché per tutelare qualsiasi società di uomini è indispensabile a chi deve tutelarla il diritto di comandare. Gesù inoltre aggiunse: “E a te io darò le chiavi del regno dei cieli”. Egli continua a parlare della Chiesa, che poc’anzi aveva chiamata sua, e che aveva affermato di voler stabilire su Pietro come sopra il fondamento. La Chiesa è raffigurata non solo come un edificio, ma anche come un regno, e nessuno ignora che le chiavi sono il simbolo del comando; perciò quando Gesù promise a Pietro le “chiavi del regno dei cieli”, gli promise che gli avrebbe dato il potere e il diritto sulla Chiesa: “Il Figlio (del Padre) diede l’incarico (a Pietro) di diffondere per tutto il mondo la conoscenza del Padre e di se stesso, e a un uomo mortale diede ogni potere in cielo, quando gli affidò le chiavi, ed estese la Chiesa per tutto il mondo e la indicò più stabile dei cieli”[38]. Concordano con queste le altre parole di Cristo: “E ciò che legherai sulla terra, resterà legato nei cieli; e ciò che scioglierai sulla terra, resterà sciolto nei cieli”. Le parole metaforiche di legare e di sciogliere indicano il diritto di far leggi e insieme il potere di giudicare e di punire. Detto potere si afferma così ampio e di tanta virtù, che qualunque cosa venga da esso decretata verrà da Dio confermata. Pertanto esso è sommo e del tutto libero, come quello che non ha superiore in terra: abbraccia tutta la Chiesa e tutte le cose che ad essa furono affidate.
Cristo Signore mantiene poi la sua promessa dopo la sua risurrezione, quando, avendo per ben tre volte domandato a Pietro se lo amasse, gli dice con tono di chi comanda: “Pasci i miei agnelli... Pasci le mie pecorelle”(Gv 21,16-17). Cristo volle così a lui affidate, come a pastore, tutte le pecorelle che sarebbero entrate nel suo ovile. “Il Signore non dubita, dice Sant’Ambrogio, perché non interroga per imparare, ma per insegnare, indicandoci colui che egli, prossimo a salire in cielo, ci lasciava per Vicario del suo amore... E poiché egli solo fra tutti professa (la sua fede), è a tutti preferito... affinché il perfettissimo governi i più perfetti”[39]. Ufficio e dovere del pastore è quello di guidare il gregge e di procurare il suo benessere con la salubrità dei pascoli, con l’allontanarlo dai pericoli, col preservarlo dalle insidie e col difenderlo dalla violenza: in breve, col reggerlo e governarlo. Essendo dunque Pietro il pastore preposto a tutto il gregge di Cristo, egli ricevette il potere di governare tutti gli uomini, alla cui salute Gesù Cristo aveva provveduto col suo sangue: “Perché, chiede il Crisostomo, sparse egli il suo sangue? Per redimere quelle pecorelle, che affidò a Pietro e ai suoi successori”[40].
E poiché è necessario che tutti i cristiani siano tra loro uniti per la comunione di una fede immutabile, perciò Cristo Signore, con la forza delle sue preghiere, ottenne che Pietro, nell’esercizio del suo potere, non errasse mai nella fede: “Io ho pregato per te, perché non venga meno la tua fede”(Lc 22,32); e gli comandò che nel bisogno comunicasse ai suoi fratelli luce e forza: “Conferma i tuoi fratelli”(Lc 22,32). Volle insomma che colui che aveva destinato a fondamento della Chiesa, fosse anche il baluardo della fede. “Non poteva, dice Sant’Ambrogio, rafforzare la fede di colui al quale di propria autorità dava il regno, e che additò, chiamandolo pietra, quale fondamento della Chiesa?”[41]. Lo stesso Gesù volle che certi nomi, significanti grandi cose, che “a lui per propria potestà convengono, fossero rivolti anche a Pietro per partecipazione con lui stesso”[42], affinché dalla comunanza dei titoli apparisse anche quella dei poteri. E così colui che è “pietra angolare, su cui ogni costruzione cresce ben ordinata per essere tempio santo nel Signore”(Ef 2,21), stabilisce Pietro quale pietra fondamentale della Chiesa. “Avendo udito (sei pietra) è stato encomiato. Benché sia pietra, però, non è pietra come Cristo, ma come Pietro. Cristo infatti è essenzialmente la pietra inconcussa; e Pietro lo è per (questa) pietra. Infatti Gesù dona le sue cariche onorifiche, ma non si esaurisce... È sacerdote, e fa i sacerdoti... è pietra, e fa la pietra”[43]. Il re stesso della Chiesa, che “tiene la chiave di Davide, e quando apre, nessuno chiude, e quando chiude, nessuno apre”(Ap 3,7), consegnate a Pietro le chiavi, lo dichiara principe della società cristiana. E così pure il sommo pastore, che chiama se stesso “buon pastore”, dà a Pietro il governo dei “suoi agnelli e delle sue pecorelle”: “Pasci gli agnelli, pasci le pecorelle”. Il Crisostomo commenta: “Esimio era (Pietro) tra gli Apostoli, bocca dei discepoli, capo del loro collegio... E (Gesù) per mostrargli che conveniva per l’avvenire credere in lui, dimenticata la negazione, affida a lui il governo dei fratelli, dicendo: Se mi ami, presiedi ai fratelli”[44]. Infine colui che ci conferma “in ogni opera e parola di bene”(2Ts 2,16), comandò a Pietro che “confermasse i suoi fratelli”. Giustamente Leone Magno diceva: “In tutto il mondo, il solo Pietro viene eletto per essere preposto e alla chiamata di tutte le genti, e a tutti gli Apostoli e a tutti i Padri della Chiesa: affinché, per quanto siano molti nel popolo di Dio i sacerdoti e molti i pastori, tutti nondimeno siano retti da Pietro, benché Cristo per lui principalmente li governa tutti”[45]. E Gregorio Magno così scriveva all’imperatore Maurizio Augusto: “È evidente a quanti conoscono il Vangelo, che attraverso la parola del Signore è stata affidata la cura di tutta la Chiesa all’Apostolo Pietro, principe di tutti gli Apostoli... Egli ricevette le chiavi del regno dei cieli; a lui è dato il potere di legare e di sciogliere; a lui sono affidati la cura e il principato di tutta la Chiesa”[46]. Ora, essendo questo principato contenuto nella stessa costituzione e nell’ordinamento della Chiesa, come parte principale, o piuttosto come principio di unità e fondamento della sua perpetua esistenza, non poteva perire con Pietro, ma doveva trasmettersi dall’uno all’altro ai suoi successori.
Perciò San Leone diceva: “Rimane quindi l’ordinamento della verità, e il beato Pietro, perseverando nella ricevuta forza della pietra, non lascia il comando della Chiesa”[47]. Pertanto, i Pontefici, che succedono a Pietro nell’episcopato romano, ottengono per diritto divino la suprema autorità sulla Chiesa. “Noi definiamo, dicono i Padri del Concilio di Firenze, che la santa Sede Apostolica e il Pontefice Romano hanno il primato su tutto l’orbe, e che lo stesso Pontefice Romano è successore del beato Pietro, principe degli Apostoli, vero Vicario di Cristo, capo di tutta la Chiesa, padre e dottore di tutti i cristiani; a lui, nella persona del beato Pietro, fu dato da Gesù Cristo, nostro Signore, pieno potere di pascere, reggere e governare tutta la Chiesa, come si afferma anche negli atti dei Concilii ecumenici e nei sacri canoni”[48]. E il Concilio Lateranense IV definisce similmente: “La Chiesa Romana, per disposizione del Signore, primeggia su tutte le altre per l’ordinaria sua potestà, come quella che è madre e maestra di tutti i cristiani”. Questi decreti erano stati preceduti dal consenso di tutta l’antichità, la quale venerò sempre i vescovi romani come legittimi successori del beato Pietro. E chi ignora le tante e così splendide testimonianze dei santi Padri a questo proposito? Luminosa è quella d’Ireneo, il quale parlando della Chiesa Romana, dice: “A questa Chiesa per una più degna supremazia è necessario che concordi ogni Chiesa”[49]. E Cipriano, parlando della medesima Chiesa Romana, la chiama “radice e madre della Chiesa cattolica[50], Cattedra di Pietro e Chiesa principale da cui è sorta l’unità del sacerdozio”[51]. La chiama Cattedra di Pietro, perché vi siede il successore di Pietro; Chiesa principale, per il primato conferito a Pietro e ai suoi legittimi successori; da cui è sorta l’unità, perché la causa efficiente dell’unità nel Cristianesimo è la Chiesa Romana. E così Girolamo si rivolge a Damaso: “Io parlo col Successore del pescatore e discepolo della Croce... Alla tua Beatitudine, cioè alla Cattedra di Pietro, io per la comunione mi associo. So bene che su quella pietra è edificata la Chiesa”. Era suo costume riconoscere un cattolico dalla unione che aveva con la Sede romana di Pietro; e diceva: “Se qualcuno è unito alla Cattedra di Pietro, è dalla mia parte”[52]. Allo stesso modo Agostino attesta apertamente che “nella Chiesa Romana sempre fiorì il principato della Cattedra Apostolica”[53], e nega che sia cattolico chiunque dissenta dalla fede romana: “Non credere di avere la vera fede cattolica, se non insegni la necessità di avere la fede romana”[54]. La stessa cosa afferma Cipriano: avere comunione con Cornelio “è lo stesso che avere comunione con la Chiesa cattolica”[55]. Pure Massimo Abate insegna che è segno caratteristico della vera fede e della vera comunione l’obbedienza al Romano Pontefice: “Perciò se non vuole essere eretico, non ascolti e non accontenti questo o quello... S’affretti ad accontentare la sede romana. Fatto questo, comunemente e ovunque tutti lo riterranno pio e retto. Infatti parla inutilmente e invano chi fa diversamente, e non soddisfa e non implora il beatissimo Papa della santissima Chiesa Romana, cioè la Sede Apostolica”. E ne dà la seguente ragione: “Fra tutte le Chiese sante di Dio che si trovano sulla terra essa ricevette (ed ha) dallo stesso Verbo di Dio incarnato, ed anche da tutti i santi Concilii, secondo i sacri canoni e precise regole, il comando, l’autorità e il potere di legare e di sciogliere. Quando lega o scioglie qualcosa, anche in cielo è ratificato dal Verbo, che comanda ai celesti principati”[56]. Quello dunque che già esisteva nella fede cristiana, quello che non un popolo solo o una sola età, ma tutte le età, e l’Oriente insieme e l’Occidente abitualmente riconoscevano e osservavano, venne dal presbitero Filippo, legato del Papa, ricordato al Concilio di Efeso, senza che alcuno sorgesse a contraddirlo: “Nessuno può dubitare, anzi è noto a tutti, da secoli, che il santo e beatissimo Pietro, principe e capo degli Apostoli, colonna della fede e fondamento della Chiesa cattolica, ricevette da nostro Signore Gesù Cristo, salvatore e redentore del genere umano, le chiavi del regno, e gli fu dato il potere di sciogliere e di ritenere i peccati: a lui, che finora e per sempre vive ed esercita il potere nei suoi successori”[57]. Allo stesso argomento si riferisce la sentenza del Concilio Calcedonese: “Pietro attraverso Leone... ha parlato”[58]; ad essa a cui fa eco la voce del Concilio Costantinopolitano III: “Il sommo Principe degli Apostoli era d’accordo con noi; avemmo con noi infatti il suo imitatore e successore nella Sede... sembrava carta e inchiostro, e invece Pietro parlava attraverso Agatone”[59]. Nella formula della professione cattolica proposta da Ormisda sul principio del sesto secolo, e sottoscritta dall’Imperatore Giustiniano e dai Patriarchi Epifanio, Giovanni e Menna viene dichiarato con forti parole: “Poiché non si può tralasciare l’affermazione di nostro Signore Gesù Cristo: Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia Chiesa,... quanto è stato detto è provato dai fatti, poiché nella Sede Apostolica la religione cattolica è stata sempre conservata senza macchia”[60].
Non vogliamo citare più a lungo le singole testimonianze; ma basterà qui ricordare la formula di fede che professò Michele Paleologo nel secondo Concilio di Lione: “La santa Chiesa Romana ha un sommo e pieno primato e principato su tutta la Chiesa cattolica, e (il Paleologo) con tutta verità e umiltà riconosce che essa lo ha ricevuto con piena potestà dallo stesso Signore nella persona del beato Pietro, principe e capo degli Apostoli, del quale è successore il Romano Pontefice. E poiché questi sopra tutti è tenuto a difendere la verità della fede, così, se nasceranno questioni intorno alla medesima, egli dovrà con sua sentenza definirle”[61].
Sebbene sia somma e piena la potestà di Pietro, non si creda tuttavia che essa sia la sola. Infatti colui che pose Pietro a fondamento della Chiesa, “scelse anche dodici... ai quali diede il nome di Apostoli”(Lc 6,13). Come è necessario che l’autorità di Pietro si perpetui nel romano Pontefice, così i Vescovi, come successori degli Apostoli, ne ereditano l’ordinaria potestà, e quindi l’Ordine episcopale necessariamente tocca l’intima costituzione della Chiesa. Benché essi non abbiano una somma, piena e universale autorità, tuttavia non devono ritenersi come dei semplici vicari dei romani Pontefici, poiché hanno una potestà propria, e con verità si dicono presuli ordinari dei popoli che reggono.
Però, siccome il successore di Pietro è uno solo, e i successori degli Apostoli sono molti, è conveniente che si veda quali siano per divina costituzione le relazioni di questi con quello. In primo luogo, è certa ed evidente la necessità dell’unione dei vescovi col successore di Pietro; poiché, sciolto questo vincolo, necessariamente si scioglie e si disperde la stessa moltitudine dei cristiani, così da non poter formare in alcun modo un solo corpo e un solo gregge. “La salute della Chiesa dipende dalla dignità del sommo sacerdote, e se non gli si dà un potere speciale e superiore a tutti, vi saranno nella Chiesa tanti scismi, quanti sono i sacerdoti”[62].
Pertanto è bene avvertire che niente fu conferito agli Apostoli separatamente da Pietro, ma molte cose a Pietro separatamente dagli Apostoli. Giovanni Crisostomo, nel commentare l’affermazione di Cristo (Giov. XXI, 15), si domanda: “Perché Cristo, lasciati gli altri, parla di queste cose solamente a Pietro?”; e risponde: “Perché era il primo fra gli Apostoli, la bocca dei discepoli, il capo del loro collegio”[63]. Egli infatti era il solo designato da Cristo a fondamento della Chiesa; a lui era data la facoltà di legare e di sciogliere; il solo, al quale era dato di pascere. Invece, quanto di autorità e di ministero ricevettero gli Apostoli, lo ricevettero unitamente a Pietro: “Se la concessione divina volle che qualche cosa fosse comune a lui (Pietro) con gli altri prìncipi (Apostoli), non concedette esclusivamente a lui quello che non negò agli altri... Avendo da solo ricevuto molte cose, nulla passò in alcuno senza la sua partecipazione”[64]. Perciò è evidente che i vescovi decadono dal diritto e dalla potestà di governare, quando volutamente si separino da Pietro e dai suoi successori. Infatti, con lo scisma si distaccano dal fondamento su cui deve basarsi tutto l’edificio; sono esclusi quindi dallo stesso edificio, e per la stessa causa separati dall’ovile (la cui guida è il Pastore supremo) e banditi dal regno (le cui chiavi furono date per volere divino al solo Pietro).
E in questo Noi riconosciamo ancora il celeste disegno e la mente divina che presiedettero alla costituzione della società cristiana. Cioè, il divino Autore, avendo stabilito nella Chiesa l’unità della fede, del governo e della comunione, elesse Pietro e i suoi successori, perché fossero attuati in essi il principio e il centro dell’unità. Afferma Cipriano: “La dimostrazione è data dal conseguimento di una ovvia verità nel cammino verso la fede. Dice il Signore a Pietro: Io ti dico, che tu sei Pietro... Sopra uno solo edifica la Chiesa. E benché a tutti gli Apostoli, dopo la sua risurrezione, dia uguale potestà, e dica: Come il Padre ha mandato me..., tuttavia per manifestare l’unità, dispose autorevolmente che l’origine della stessa unità cominciasse da uno solo”[65]. E Ottato di Milevi dice: “Non puoi negare di sapere che nella città di Roma a Pietro per primo fu conferita la cattedra episcopale, sulla quale sedette il capo di tutti gli Apostoli, Pietro, (chiamato Cefa, cioè roccia, pietra); affinché in quella sola cattedra, l’unità fosse mantenuta da tutti, e così neppure gli altri Apostoli difendessero le proprie cattedre contro quella, tanto da essere scismatico e in peccato chi ne ponesse un’altra contro l’unica Cattedra”[66]. Perciò Cipriano afferma che sia l’eresia sia lo scisma nascono dal fatto che non si presta la dovuta obbedienza alla suprema potestà: “Non da altro infatti sono sorte le eresie e sono nati gli scismi, se non perché non si obbedisce al sacerdote di Dio, e non si pensa che nella Chiesa vi è un solo sacerdote e un solo giudice vicario di Cristo”[67]. Nessuno dunque che non sia unito a Pietro può partecipare dell’autorità, essendo assurdo pensare che possa comandare nella Chiesa chi è fuori di essa. Perciò Ottato di Milevi rimproverava i Donatisti, dicendo: “Leggiamo che contro le porte (dell’inferno) ricevette le chiavi della salute Pietro, nostro Principe, a cui fu detto da Cristo: A te darò le chiavi del regno dei cieli, e le porte dell’inferno non le vinceranno. Perché dunque pretendete di usurpare le chiavi del regno dei cieli, voi che militate contro la cattedra di Pietro?”[68].
Pertanto si deve credere che l’Ordine episcopale, come Cristo dispose, sia unito a Pietro soltanto se è sottomesso a Pietro e gli obbedisce; altrimenti diventerà necessariamente una moltitudine confusa e disordinata. Per ben conservare l’unità della fede e della comunione non basta un primato di onore, né una sopraintendenza nella Chiesa, ma è assolutamente necessaria una vera e somma autorità, a cui tutta la comunità obbedisca. E a che altro il Figlio di Dio mirò, quando al solo Pietro promise le chiavi del regno dei cieli? L’espressione biblica e il consenso unanime dei Padri non lasciano minimamente dubitare che col nome di chiavi venga in quel luogo significato il supremo potere. Né in altro modo è lecito interpretare quanto viene attribuito separatamente a Pietro, o agli Apostoli uniti a Pietro. Se la facoltà di legare, di sciogliere, di pascere fa sì che ognuno dei Vescovi, successori degli Apostoli, governi con vera potestà il suo popolo, certamente la stessa facoltà deve produrre il medesimo effetto in colui al quale fu assegnato da Dio l’ufficio di pascere “gli agnelli e le pecorelle”. “(Cristo) costituì Pietro non solamente pastore, ma pastore dei pastori; Pietro pasce dunque gli agnelli, e pasce anche le pecorelle; pasce i figli e pasce anche le madri; governa i sudditi e governa anche i prelati, perché oltre gli agnelli e le pecorelle non vi è nulla nella Chiesa”[69]. Si spiegano quindi le espressioni usate dagli antichi riguardo al beato Pietro, e che significano tutte apertamente un sommo grado di dignità e di potere. Egli viene indicato spesso coi titoli di “principe dell’adunanza dei discepoli, principe dei santi Apostoli, corifeo del loro coro, bocca di tutti gli Apostoli, capo di quella famiglia, preposto a tutto il mondo, primo fra gli Apostoli, baluardo della Chiesa”. Sembra che Bernardo voglia racchiudere tutti questi titoli nelle seguenti parole dirette al Papa Eugenio: “Chi sei tu? Il gran sacerdote, il sommo Pontefice. Tu sei il principe dei vescovi, tu l’erede degli Apostoli... Tu sei colui al quale furono consegnate le chiavi, colui al quale furono affidate le pecorelle. Vi sono pure altri portinai del cielo e pastori dei greggi; ma tu hai ereditato un nome tanto più glorioso quanto, più diversamente da essi, hai ereditato l’uno e l’altro nome. Ogni pastore ha il suo gregge particolare a lui assegnato; a te vennero affidati tutti i greggi, a te solo l’unico, tutto il gregge, non solo delle pecorelle, ma anche dei pastori; tu solo sei il pastore di tutti. Mi domandi in che modo io lo provi? Dalla parola del Signore. Infatti a chi, non dico dei vescovi, ma ancora degli Apostoli, furono in un modo così assoluto e indefinito affidate le pecorelle? Se mi ami, o Pietro, pasci le mie pecorelle. Quali? Popoli di questa o di quella città, di questa o di quella regione, o di un certo regno? Le mie pecorelle, disse. A chi non è manifesto non avergli egli assegnate alcune, ma tutte? Nulla si eccettua, ove nulla si distingue”[70].
È cosa contraria alla verità e apertamente ripugna alla costituzione divina dire che i singoli vescovi sono soggetti alla giurisdizione dei romani Pontefici, e non già tutto il corpo episcopale. Infatti, tutta la ragion d’essere del fondamento sta nel dare unità e saldezza a tutto l’edificio, piuttosto che a ciascuna delle sue parti in particolare. Il che nel caso nostro è tanto più vero, in quanto Cristo Signore volle che per la virtù appunto del fondamento le porte dell’inferno non prevalessero contro la Chiesa; e questa promessa divina, com’è a tutti manifesto, si deve intendere di tutta la Chiesa e non delle singole sue parti, le quali possono essere vinte dal furore dell’inferno, e parecchie infatti lo furono.
È inoltre necessario che chi è preposto a tutto il gregge non solo abbia il comando sulle singole pecorelle, ma anche su di esse riunite insieme. Forse che l’ovile potrà reggere e guidare il pastore? Forse i successori degli Apostoli, uniti in corpo, saranno il fondamento, su cui il successore di Pietro potrà appoggiarsi per avere fermezza? Chi possiede le chiavi del regno dei cieli non ha soltanto potere e autorità sopra le singole regioni, ma su tutte insieme; e come ciascun vescovo nella sua diocesi presiede con vera potestà non solo ai singoli individui, ma a tutta la comunità, così pure i romani Pontefici, il cui potere abbraccia tutta la cristianità, hanno soggette ed obbedienti alla loro autorità tutte le parti di questa, anche insieme raccolte. Cristo Signore, come già si disse ripetutamente, concedette a Pietro e ai suoi successori che fossero suoi vicari, ed esercitassero perpetuamente nella Chiesa quel potere che egli stesso aveva esercitato nella sua vita mortale. Si potrà forse dire che il Collegio Apostolico sia stato superiore al suo Maestro?
La Chiesa non cessò mai in alcun tempo di riconoscere e di attestare questo potere, di cui parliamo, sopra il corpo episcopale, potere così chiaramente indicato dalla sacra Scrittura. Ecco come parlano in proposito i Concilii: “Noi leggiamo che il Romano Pontefice ha giudicato i prelati di tutte le Chiese, ma non leggiamo che qualcuno lo abbia giudicato”[71]. E ne viene data la seguente ragione: “Non esiste un’autorità superiore alla Sede Apostolica”[72]. Gelasio, parlando dei decreti dei Concilii, così scrive: “Come fu nullo tutto ciò che non venne approvato dalla prima Sede, così ciò che essa ha creduto di dover sentenziare fu ammesso da tutta la Chiesa”[73]. Infatti fu sempre privilegio dei Romani Pontefici confermare o invalidare le decisioni e i decreti dei Concilii. Leone Magno annullò gli atti del conciliabolo di Efeso; Damaso rigettò quelli del conciliabolo di Rimini, e Adriano secondo quelli del conciliabolo di Costantinopoli. Il canone XXVIII del Concilio di Calcedonia, perché privo dell’assenso e della volontà della Sede Apostolica, rimase, com’è noto, senz’alcun valore. Con ragione dunque Leone X nel quinto Concilio Lateranense sentenziò: “Solo il Romano Pontefice, temporaneamente in carica, in quanto ha il potere su tutti i Concilii, ha il pieno diritto e l’autorità di indire, trasferire e sciogliere i Concilii; e questo è evidente non solo per testimonianza della sacra Scrittura, delle dichiarazioni dei Padri e degli altri Romani Pontefici e dei decreti dei sacri canoni, ma anche per l’ammissione degli stessi Concilii”. Per la verità al solo Pietro furono consegnate le chiavi del regno celeste, e a lui, unitamente agli Apostoli, fu dato, per testimonianza della sacra Scrittura, il potere di legare e di sciogliere; ma non si legge in alcun luogo che gli Apostoli ricevessero questo sommo potere “senza Pietro e contro Pietro”. Così davvero non l’hanno ricevuto da Gesù Cristo. Per questo, col decreto del Concilio Vaticano intorno alla forza e alla ragione del primato del Romano Pontefice, non fu introdotto un nuovo dogma, ma asserita l’antica e costante fede di tutti i secoli (del cristianesimo)[74].
Né il sottostare a un doppio potere reca confusione nel governo. Anzitutto la sapienza di Dio, per disposizione della quale questa forma di governo venne stabilita, ce ne vieta anche il semplice sospetto. E poi si deve osservare che l’ordine e le relazioni vengono turbate solamente se nel popolo vi sono due magistrati dello stesso grado, indipendenti l’uno dall’altro. Ma il potere del Romano Pontefice è supremo, universale e del tutto indipendente, mentre quello dei vescovi è ristretto entro determinati confini e non è del tutto indipendente. “Non è conveniente che due siano costituiti sopra lo stesso gregge con poteri eguali; ma non ripugna che due, dei quali uno è superiore all’altro, siano costituiti sullo steso popolo; così sullo stesso popolo vi sono immediatamente e il parroco e il vescovo e il Papa”[75].
I Romani Pontefici, memori del loro ufficio, vogliono meglio degli altri conservare nella Chiesa tutto ciò che fu divinamente istituito; e quindi come tutelano la propria autorità con quella cura e vigilanza che si conviene, così sempre si preoccuparono e si preoccuperanno perché l’autorità dei Vescovi sia mantenuta. Anzi reputano fatti a se stessi tutto l’onore e l’ossequio che vengono resi ai Vescovi. Per questo San Gregorio Magno diceva: “È mio onore l’onore della Chiesa universale. Mio onore è il solido vigore dei miei fratelli. Allora io sono veramente onorato, quando a ognuno di loro non si nega il dovuto onore”[76].
Con quanto si è detto finora abbiamo fedelmente espresso, secondo la divina costituzione, l’immagine e la forma della Chiesa. Abbiamo ragionato a lungo dell’unità, e spiegato in che cosa essa consista e con quale principio il divino Autore abbia voluto conservarla.
Non dubitiamo affatto che la Nostra voce apostolica sarà ascoltata da coloro che per favore e grazia di Dio, essendo nati nel seno della Chiesa cattolica, vivono in essa: “Le mie pecorelle ascoltano la mia voce”(Gv 10,27); né dubitiamo che essi ne trarranno incitamento a istruirsi più profondamente e ad unirsi con maggiore affetto ai propri pastori, e per essi al supremo pastore, affinché possano con più sicurezza rimanere nell’unico ovile e cogliere maggiore ricchezza di frutti salutari. Senonché, fissando il Nostro sguardo “all’autore e perfezionatore della fede, a Gesù”(Eb 12,2), del quale, benché impari a tanta dignità e ufficio, sosteniamo le veci, il cuore s’infiamma della sua carità; e a Noi non senza ragione applichiamo quello che Cristo disse di se stesso: “Ho altre pecorelle, che non sono di questo ovile; anche quelle io devo condurre; ascolteranno la mia voce”(Gv 10,16). Non ricusino dunque di ascoltarCi e di assecondare il Nostro paterno amore quanti hanno in abominio l’empietà, così largamente diffusa, e riconoscono e confessano Gesù Cristo Figlio di Dio e Salvatore del genere umano, e tuttavia vanno errando lontano dalla sua Sposa. Quelli che ricevono Cristo, è necessario che lo ricevano tutto intero: “Tutto il Cristo è capo e corpo (insieme); è capo l’Unigenito Figlio di Dio; suo corpo è la Chiesa; lo sposo e la sposa, due in una carne. Chiunque intorno allo stesso capo discorda dalla sacra Scrittura, ancorché concordi in tutti quei punti in cui è designata la Chiesa, non è nella Chiesa. E così pure, chiunque ammette tutto ciò che nella Scrittura si dice dello stesso capo, ma non è unito in comunione con la Chiesa, non è nella Chiesa”[77].
Con lo stesso affetto l’animo Nostro vola a coloro che il pestilente soffio dell’empietà non ha del tutto corrotto; essi almeno desiderano grandemente questo, che il vero Dio, Creatore del cielo e della terra, sia loro Padre. Costoro considerino attentamente e comprendano che non possono essere annoverati tra i figlioli di Dio, se non riconoscono come loro fratello Gesù Cristo, e insieme come loro madre la Chiesa. A tutti dunque amorosamente Ci rivolgiamo con le parole dello stesso Agostino: “Amiamo Dio nostro Signore, amiamo la sua Chiesa; quello come padre, questa come madre. Nessuno dica: Sì, vado dagli idoli, consulto gl’invasati e gl’indovini, e tuttavia non abbandono la Chiesa di Dio: sono cattolico. Tenendo la madre, hai offeso il padre! Un altro dice: Non consulto alcun indovino, non cerco gli invasati, non cerco sacrileghe divinazioni, non vado ad adorare i demoni, non servo agli dei di pietra; però sono dalla parte di Donato. Che ti giova non avere offeso il padre, se questi vendica la madre offesa? Che ti vale confessare il Signore, onorare Dio, predicarlo, riconoscere il suo Figliuolo e confessare che siede alla destra del Padre, se bestemmi la sua Chiesa?... Se tu avessi un patrono a cui ogni giorno prestassi ossequio; e tuttavia manifestassi una sola colpa della sua consorte, avresti tu ardire di entrare in casa sua? Abbiate dunque, carissimi, abbiate tutti concordemente Dio per padre, e per madre la Chiesa”[78].
Avendo piena fiducia in Dio misericordioso, che può muovere efficacemente il cuore degli uomini e spingerli come e dove vuole, con tutto l’affetto raccomandiamo alla sua bontà tutti coloro a cui rivolgemmo la Nostra esposizione. E come pegno dei celesti doni e attestato della Nostra benevolenza, a voi, Venerabili Fratelli, al vostro Clero e al vostro popolo amorevolmente impartiamo nel Signore l’Apostolica Benedizione.
Dato a Roma, presso San Pietro, il 29 giugno 1896, nell’anno decimonono del Nostro Pontificato.
LEONE PP. XIII
[1] Hom. De capto Eutropio, n. 6.
[2] In Psal. LXXI, n. 8.
[3] Enarratio in Psal. CIII, Sermo II, n. 5.
[4] Clemens Alexandrinus, Stromatus lib. VII, cap. 17.
[5] De Schism. Donatist. lib. III, n. 2.
[6] In Epist. Ioan. tract. I, n. 13.
[7] S. Cyprianus, De cath. Eccl. Unitate, n. 23.
[8] Id., loc. Cit.
[9] S. Augustinus, Sermo CCLXVII, n. 4.
[10] S. Cyprianus, De cath. Eccl. Unitate, n. 6.
[11] Lib. III, cap. 12, n. 12.
[12] In Evang. Ioan. tract. XVIII, cap. 5, n. 1.
[13] In Matth. lib. IV, cap. 28, v. 20.
[14] S. Clemens Rom., Epist. I ad Corinth., capp. 42, 44.
[15] Epist. LXIX, ad Magnum, n. 1.
[16] Auctor Tractatus de Fide Orthodoxa contra Arianos.
[17] De Haeresibus, n. 88.
[18] Vetus Interpretatio Commentariorum in Matth., n. 46.
[19] Contra Haereses, lib. IV, cap. 33, n. 8.
[20] De Praescript., cap. XXI.
[21] Comment. in Matth., XIII, n. 1.
[22] Hist. Eccl., lib. II, cap. 9.
[23] Richardus de S. Victore, De Trin., lib. I, cap. 2.
[24] Conc. Vat., sess. III, cap. 3.
[25] S. Augustinus, In Psal. LIV, n. 19.
[26] S. Augustinus, lib. XVII, Contra Faustum Manichaeum, cap. 3.
[27] Sess. III, cap. 3.
[28] De utilitate credendi, cap. XVII, n. 35.
[29] S. Thomas, 2a 2ae, q. XXXIX, a. 1.
[30] S. Hieronymus, Commentar. in Epist. ad Titum, cap. III, vv. 10-11.
[31] Hom. XI, in Epist. ad Ephes., n. 5.
[32] S. Augustinus, Contra Epistolam Parmeniani, lib. II, cap. 11, n. 25.
[33] S. Thomas, Contra Gentiles, lib. IV, cap. 76
[34] S. Pacianus, Ad Sempronium, epist. III, n. 11.
[35] S. Cyrillus Alexandrinus, In Evang. Ioan., lib. II, in cap. I, v. 42.
[36] Origenes, Comment. in Matth., tom. XII, n. 11.
[37] Origenes, Comment. in Matth., tom. XII, n. 11.
[38] S. Ioannes Chrysostomus, Hom. LIV, In Matth., n. 2.
[39] S. Ambrosius, Exposit. in Evang. secundum Lucam, lib. X, nn. 175
176.
[40] S. Ioannes Chrysostomus, De Sacerdotio, lib. II
[41] S. Ambrosius, De Fide, lib. IV, n. 56.
[42] S. Leo M., Sermo IV, cap. 2.
[43] Hom. De poenitentia, n. 4, in appendice opp. S. Basilii.
[44] Hom. LXXXVIII, in Ioan., n. 1.
[45] Sermo IV, cap. 2.
[46] Epistolarum, lib. V, epist. XX.
[47] S. Leo M., Sermo III, cap. 3.
[48] Concilium Florentinum.
[49] Contra Haereses, lib. III, cap. 3, n. 2.
[50] Epist. XLVIII, Ad Cornelium, n. 3.
[51] Epist. LIX, Ad eund., n. 14.
[52] Epist. XVI, Ad eund., n. 2.
[53] Epist. XLIII, n. 7.
[54] Sermo CXX, n. 13.
[55] Epist. LV, n. 1.
[56] Defloratio ex Epistola ad Petrum illustrem.
[57] Actio III.
[58] Actio II.
[59] Actio XVIII.
[60] Post Epistolam XXVI, ad omnes Episc. Hispan., n. 4.
[61] Actio IV.
[62] S. Hieronymus, Dialog. contra Luciferianos, n. 9.
[63] Hom. LXXXVIII in Ioan., n. 1.
[64] S. Leo M., Sermo IV, cap. 2.
[65] De unit. Eccl., n. 4.
[66] De Schism. Donat., lib. II.
[67] Epist. XII, Ad Cornelium, n. 5.
[68] Lib. II, nn. 4, 5.
[69] S. Brunonis Episcopi Signiensi, Comment. in Ioan., part. III, cap. 21n. 55.
[70] De Consideratione, lib. II, cap. 8.
[71] Hadrianus II, In Allocutione III ad Synodum Romanam an. 869. Cf. Actionem VII Concilii Constantinopolitani IV.
[72] Nicolaus, In epist. LXXXVI, ad Michael. Imperat. — “Patet profecto Sedis Apostolicae, cuius auctoritate maior non est, iudicium a nemine fore retractandum, neque cuiquam de eius liceat iudicare iudicio”.
[73] Epist. XXVI, ad Episcopos Dardaniae, n. 5.
[74] Sess. IV, cap. 3.
[75] S. Thomas, In IV Sent., dist. XVII, a. 4, ad q. 4, ad 3.
[76] S. Gregorius M., Epistolarum lib. VIII, epist. XXX, ad Eulogium.
[77] S. Augustinus, Contra Donatistas Epistola, sive De Unit. Eccl., cap. IV, n. 7.
[78] Enarratio in Psal. LXXXVIII, Sermo II, n. 14.
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