Chi ha ucciso Gesù Cristo?...1° parte...
Chi ha ucciso Gesù Cristo?...2° parte...
IL NUOVO POPOLO ELETTO
Gli oppositori della nostra tesi continuano a ripetere che, nonostante l’uccisione di Cristo, il popolo ebraico non è stato rigettato da Dio, e che la stessa distruzione di Gerusalemme e del Tempio non fu una punizione da parte di Dio per l’orrendo deicidio del Suo Figlio, inviato alla casa di Israele per salvarla, ma soltanto una previsione da parte di Gesù, come è stato detto. Noi già abbiamo dimostrato il contrario, specialmente nei due capitoli intitolati «Valore e conseguenza della frase «Il suo sangue sia sopra di noi e dei nostri figli» e «Il popolo ebraico riprovato da Dio», riferendo ed annotando ciò che è detto nel Vangelo, e quello che esegeti antichi e moderni hanno scritto intorno alla medesima frase. Quindi, ci pare che sarebbe inutile insistere ancora sullo stesso argomento. Piuttosto, ci sembra più utile cercare di conoscere come mai sia potuto avvenire che il popolo ebraico abbia rifiutato Cristo, e, a sua volta, esso sia stato rifiutato da Dio come popolo o razza eletta. A questa domanda ecco come risponde Mons. E. Le Camus: «Israele sognava un Messia terreno; voleva una rivoluzione politica e non una trasformazione religiosa. Nulla importavagli di quanto si riferiva solamente all’anima. Avendo collocato il suo ideale messianico nell’apparizione di un Re conquistatore, che dovesse regnare sull’universo, era incapace di riconoscerlo come fondatore pacifico di una religione novella; tanto più che questa religione, come la verità, era universale, e non esclusiva per il popolo ebraico, il quale nel suo egoismo, aspettava un salvatore unicamente per sé. Un Messia più umanitario che nazionale, che apportasse al popolo beni di un ordine puramente invisibile e completamente spirituale, non poteva essere il Messia; tale era il ragionamento che si faceva a Gerusalemme. Di fronte a simili pregiudizi, le opere, le parole, l’onnipotenza e la santità di Gesù erano nulla e non dimostravano nulla. Per tal modo si correva fatalmente alla conclusione segnalata più sopra: Israele per aver rigettato Cristo, veniva rigettato a sua volta; per averlo ucciso, si preparava ad essere a sua volta sterminato». Ed ancora: «Niente, infatti, mancò al delitto di costoro per essere inescusabile; né da parte dei colpevoli la malizia, né da parte di Dio la bontà paziente e benigna. Per mettercene sotto gli occhi la prova, San Giovanni riassume le dichiarazioni formali che Gesù era venuto loro facendo. Esse erano complete e per chiarezza e per autorità. Gesù aveva dichiarato a voce abbastanza alta per farsi capire: «Chi crede in me, crede veramente non in me, ma in Colui che mi ha mandato, e chi mi guarda, guarda Colui che mi ha inviato» 30. «Poiché, come abbiamo osservato più volte, Gesù aveva provato con i miracoli di essere la Sua causa quella di Dio, e Lui non essere che una cosa col Padre. Fuori di Lui, Dottore inviato dal cielo agli uomini, non vi erano che tenebre. Uno sguardo solo gettato sul mondo bastava a dimostrarlo… Guai quindi a chi si è ostinato a non riconoscere il divin Maestro e a chiudere gli occhi davanti alla Sua gloriosa manifestazione. Gli increduli hanno appreso dalla Sua stessa bocca la sorte che li attende: «Se qualcuno ascolta le mie parole e non le osserva – ha detto – non io lo giudicherò, poiché io non sono venuto a giudicare il mondo, ma a salvarlo. Chi respinge me e non accoglie i miei discepoli ha già il suo giudice: la parola che io annuncio sarà quella che giudicherà nell’ultimo giorno…». Ad onta di tutto ciò, Israele restò insensibile, ostinato e contrario. Invano, secondo la profezia di Isaia, invocata da San Paolo, Dio gli ha steso in ogni ora le braccia durante il tempo del ministero del Figlio. Non ne provocò che l’incredulità e l’opposizione. Stanco di incalzarlo, la grazia l’abbandonò finalmente a suoi istinti pervertiti, e noi lo vedremo commettere a sangue freddo l’eccesso dell’ingratitudine, il delitto più odioso, il sacrilegio più esecrabile che mai abbia macchiato la memoria di un popolo. Per tal maniera, il castigo divino, per quanto terribile, resterà ancora al di sotto della colpa» 31. Dunque, nessun dubbio che il popolo ebraico sia stato ormai rigettato, come popolo, da Dio, avendo essi prima rigettato l’Inviato del medesimo Dio. Un altro popolo, quindi, è nato, e si è messo al suo posto: il popolo degli eletti o, meglio, dei figli di Dio. I quali, come scrive San Giovanni, sono divenuti tali non a motivo del «sangue, né da volontà di carne, né da volontà d’uomo», ma perché hanno accolto e creduto nel Figlio di Dio, e perciò essi stessi «sono nati da Dio» (Gv 1, 12-13). E quindi sì è formato il nuovo popolo eletto, popolo di acquisto e di conquista da parte di Cristo, al quale potranno appartenere tutti, giudei e gentili, purché lo accolgano ed ascoltino la Sua parola, entrando a far parte del Suo ovile, di cui Egli è il Pastore eterno, e sopra del quale pose quale Maestro e Moderatore supremo e Pastore visibile che conduca gli agnelli e le pecore ai pascoli della vita, Pietro e i suoi successori. Questo è il nuovo popolo eletto, di cui possono esser partecipi tutti gli uomini a qualunque razza appartengano e di qualunque colore sia la loro pelle, giacché ormai, come scrive San Paolo, «non vi è distinzione di giudeo e greco. è lo stesso il Signore di tutti, ricco per tutti quelli che lo invocano. Poiché chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvo» (Rm 10, 12,13). Continua, pertanto l’Apostolo: «Siete tutti figli di Dio per la fede in Cristo Gesù; quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non vi è più giudeo, né greco, non vi è schiavo, né libero, non maschio o femmina; ma tutti voi siete uno solo in Cristo Gesù. E se voi siete di Cristo, siete seme di Abramo, eredi secondo la promessa» (Gal 3, 26-29). Non la razza o il sangue di Abramo, dunque, forma ormai il popolo eletto, bensì l’appartenenza a Cristo per mezzo del Battesimo, e il Suo Spirito rende veri figli di Abramo ed eredi, «secondo la promessa». Questa è la logica paolina da cui non è lecito sfuggire. In breve: «Con la caduta della città santa e del suo Tempio, l’ebraismo terminava la sua missione di unica vera religione rivelata da Dio, e cedeva il passo alla nuova religione, il cristianesimo» 32. Nota pertanto il citato Mons. Le Camus: «Del resto, tutto Israele non rigettò il Messia, e l’Evangelista si compiace di riconoscere che, anche tra i capi del popolo, parecchi credettero in Lui [...]. Dopo la Pentecoste, infatti, arditi e coraggiosi come tanti leoni, questi uomini pusillanimi ed esitanti, ma che avevano internamente riconosciuto la missione divina di Gesù, si levarono, e strappando, per così dire, dalle mani dei carnefici la croce fumante ancora di sangue, percorsero tutto l’universo ripetendo la parola del centurione: «Sì, questo crocifisso era veramente il Figlio di Dio». Il gruppo che formarono e che divenne la Chiesa, fu il vero Israele delle divine promesse; gli altri, come se l’erano ben meritato, rimasero l’Israele della riprovazione» 33. Intorno a questa questione della riprovazione d’Israele e del nuovo popolo eletto, merita di essere letto lo studio di D. Iudant intitolato Les deux Israël, da noi riportato nella Bibliografia. Sono pregevolissimi specialmente il cap. III («Israël et Jesus»); il VI («L’église a hérité des privilèges d’Israël»); il VII («Israël a perdu ses privilèges»), e l’VIII («La trasformation de l’Alliance»; pag. 33 e ss.; 111 e ss.; 151 e ss.).
SAN LORENZO DA BRINDISI E LA RESPONSABILITA’ EBRAICA NELLA MORTE DI CRISTO
San Lorenzo da Brindisi (1559-1619), in più punti dell’Opera omnia torna a parlare della morte di Cristo e dei giudei, in quanto ne furono i principali attori 34. Noi, però, ci serviremo soltanto di quello che egli asserisce nel V volume (parte I-II e III della medesima opera). In questo volume, egli afferma chiaramente che gli ebrei, pure ammirando la dottrina di Cristo (II, 356-357), si perdettero a causa della loro ambizione ed avarizia (I, 341; II, 61). Accecati, pertanto, per giusta punizione di Dio, non credettero in Cristo (I, 71; II, 240, 359, 390), nonostante i tanti miracoli visti. Disprezzarono, anzi, lo stesso Cristo (III, 140), e l’odiarono (I, 492, 515), e vollero perfino ucciderlo (II, 43). A causa della loro durezza di cuore, derisero e calunniarono i Suoi miracoli (I, 335; II, 136, 364, 390). Sicché giunsero all’incredibile e inaudita follia di chiedere la liberazione di Barabba e la morte di Cristo (III, 302). Giustamente, quindi, furono condannati da Dio (II, 53); e, in pena della loro empietà, perirono nell’eccidio di Gerusalemme (I, 55), avvenuto quarant’anni dopo la morte di Cristo (III, 359). Anzi, per punizione dello stesso delitto, furono condotti in schiavitù perpetua (II, 392; III, 292), peggiore assai della schiavitù babilonese, come quella babilonese fu peggiore di quella d’Egitto (1, 337). Gli ebrei odiarono Cristo perché Egli denunciò e condannò i loro vizi (III, 1). Essi erano ambiziosi ed avari (III, 168, 180). Cercarono di lapidare Cristo (III, 7, 272). Erano pieni di spirito diabolico (III, 32, 70, 122). Avevano una volontà depravata (III, 180). Ignorando la Sua divinità (III, 14), non Gli credettero e l’uccisero (III, 37, 104, 123, 176, 267), per suggestione dei demoni (II, 332), temendo l’avvento del Suo regno (II, 361). Ma poiché Cristo non solo disse di essere Dio e vero Figlio di Dio, ma confermò, con l’evidenza delle Sue opere prodigiose, la Sua affermazione (III, 104), l’ignoranza, da parte dei giudei, della Sua divinità, non fu di pura negazione, bensì di prava affezione, e cioè ebbe origine dalla loro volontà depravata e perversa (I, 342). La quale ignoranza di prava affezione, afferma il Santo Dottore, mentre è «causa di tutti i mali», fu anche causa di rovina per i giudei e li trattiene tuttora fuori della Chiesa, nella quale soltanto si può sperare salvezza. In altre parole: l’ignoranza degli ebrei nel chiedere ed imporre a Pilato la morte di Cristo, fu pienamente colpevole. «Molti, infatti – dice San Lorenzo – soltanto per il depravato affetto della mente o volontà, non vogliono intendere la verità. Così, lo scostumato non vuole capire il decoro della castità, l’ambizioso non vuol capire la gloria dell’umiltà. Perciò Cristo disse ai giudei: «Come voi potete credere, se vi date gloria a vicenda e non cercate la gloria che viene da Dio»? (Gv 5, 44) «Dunque – conclude il Santo Dottore – avendo depravato l’intelletto dall’avarizia e dall’ambizione, non conobbero Cristo, e quindi, giustamente, furono puniti. Questo è ciò che disse Isaia: «Israele non mi conobbe [...], il mio popolo non ha avuto intelligenza. Oh gente peccatrice…». Così il Profeta predice la misera schiavitù in cui oggi si trova l’infelice Sinagoga: «Perciò, il mio popolo è condotto in schiavitù, per la sua sconsideratezza» (Is 5, 13); poiché non conobbe Cristo. Quindi, Cristo medesimo, predicendo l’eccidio di Gerusalemme, dice: «Poiché non hai riconosciuto il momento nel quale sei stata visitata. Oh se conoscessi anche tu, proprio in questo giorno, quel che giova alla tua pace»! (Lc 13, 44) (I, 341, 342). Ma poiché, come si è detto, questa ignoranza, non fu di pura negazione, ma di perversa affezione, nessuna scusa può addursi per attenuare la colpa ebraica nella morte di Cristo. L’uccisero temendo il Suo regno, e così perdettero il proprio regno (III 170, 176 178). Ciononostante, «anche ora si mostrano perfidi ed increduli» (III, 62). Per tutte queste ragioni, ed altre che qui omettiamo, dice il Santo Dottore, la misera ed infelice Sinagoga fu condannata e riprovata da Dio, e, al suo posto, fu eletta un’altra gente che forma la Chiesa in cui entrerà il popolo delle nazioni gentili (I, 338). «La legge di Mosè fu data soltanto al popolo ebraico, il quale era il popolo eletto di Dio, e per questo Dio lo aveva separato la tutte le altre nazioni. Ma allorché Gesù Cristo commosse tutta la città, diede la legge a tutti i popoli: «Predicate il Vangelo ad ogni creatura», cioè ad ogni uomo; poiché Egli disse: «La mia casa è casa di orazione per tutte le nazioni» (I, 313, 314). Dunque, il popolo ebraico, una volta fu il popolo eletto, ma ora non è più tale, poiché al suo posto sono state chiamate tutte le nazioni, alle quali è stato inviato, il messaggio evangelico per mezzo degli Apostoli e di coloro che ai medesimi succedono nei secoli, e ne continuano la missione. Nel quale popolo nuovo, eletto per la fede che riceve in Cristo, può inserirsi qualunque individuo, anche del popolo ebraico, purché accetti lo stesso messaggio e riconosca che Cristo è il vero Messia, e che soltanto in Lui si può avere salute e salvezza, come disse già San Pietro dinanzi al popolo ebraico che lo ascoltava a Gerusalemme (At 4, 12).
SAN PAOLO E IL RITORNO D’ISRAELE
Nonostante il delitto del deicidio commesso dai capi e dal popolo d’Israele, Dio è sempre pronto, nella Sua infinita bontà, a perdonare a chiunque torni a Lui, come perdonò a San Paolo e a molti altri giudei attraverso i secoli. Tuttavia, trattandosi del popolo intero, di tutta la massa e razza ebraica, dobbiamo ritenere, con San Paolo, che soltanto alla fine dei secoli, e cioè dopo l’entrata nel regno di Dio della totalità – moralmente intesa – dei gentili, il popolo ebraico, di fatto, tornerà a Dio e al suo Messia, acclamandolo, come Gesù stesso disse, con le parole enfatiche con cui già un giorno l’aveva acclamato, dicendo: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore». San Paolo, infatti, nei capitoli, IX, X, XI della sua Lettera ai Romani, mentre è dolente che i giudei non giungono alla salvezza, insegna: 1) La salvezza non dipende dalla discendenza, ma è un dono di Dio, «perché non tutti quelli i che vengono da Israele sono israeliti; né i nati dalla stirpe di Abramo, sono tutti figli». 2) Dio non è ingiusto a salvare chi vuole, perché egli dice a Mosé: «Avrò misericordia (ogni salvezza è misericordia di Dio) di colui al quale mi piacerà usare misericordia, e avrò compassione di colui con il quale vorrò essere compassionevole» (Rm 15, 3). 3) Le genti entrano a far parte del regno di Dio, mentre molti ebrei vengono esclusi dal medesimo. Si legge, infatti, in Osea: «Chiamerò mio popolo quello che non era mio popolo» (Rm 9, 25). 4) Israele commise una colpa: si ostinò a non credere alla predicazione del Vangelo; alla quale, invece, prestò fede il popolo gentile. «Israele, che seguiva la legge e la giustizia, non ha raggiunto la legge della giustizia. E perché la cercò non nella fede, ma come se venisse dalle opere; così urtò nella pietra d’inciampo (Cristo) secondo quello che è scritto: «Ecco io pongo in Sion una pietra d’inciampo, una pietra di scandalo; ma chi crede in Lui, non resterà confuso» (vv. 30-33) Quindi, San Paolo è addolorato, perché i giudei non hanno conosciuto Cristo, fine della legge, e hanno rigettato la fede, unica via di salvezza. 5) L’ignoranza degli ebrei è inescusabile. Dice infatti l’Apostolo: «Nonostante che la predicazione evangelica sia giunta ovunque, nonostante che Dio sia stato trovato dai gentili, non è stato trovato da Israele, di cui Dio si lamenta per mezzo di Isaia, dicendo: «Tutto il giorno stesi le mie mani verso un popolo incredulo e ribelle». (Is 10, 21). Tuttavia: 6) Due cose sono chiare: a) che Israele nella sua totalità, e cioè come popolo, non ha conseguito quello che cercava, cioè la sua salvezza; b) ciò non toglie che la parte eletta di esso abbia conseguito e, perciò può conseguire, la sua salvezza. Ciò pare evidente nelle parole di San Paolo, il quale scrive: «Cos’è dunque successo? Che Israele non ha conseguito quello che cercava; ma l’ha conseguito la parte eletta; mentre gli altri sono stati accecati, secondo quello che sta scritto: «Dio diede loro lo spirito di stordimento, occhi da non vedere, orecchi da non sentire, fino al giorno d’oggi». E Davide dice: «La loro mensa sia per essi un laccio, un cappio, un inciampo e giusta punizione; siano oscurati i loro occhi da non vederci più, e la loro schiena incurvata del tutto» (Rm 11. 7-10). 7) Finalmente, dopo essere stati gli israeliti di giovamento alla stessa conversione dei gentili entrati che siano tutti (cosa già predetta da Isaia, al quale peraltro fa esplicita allusione lo stesso Gesù, quando dice che i giudei non lo vedranno più fin quando non lo acclameranno: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore»; Mt 24, 15), anche il popolo Israelitico rientrerà. E così si compirà, anche in ciò, quello che disse Gesù: «Verranno dall’Oriente e dall`Occidente [...] e i figli del regno saranno cacciati fuori [...] e i primi saranno gli ultimi e gli ultimi i primi» (Mt 8, 11-12; Lc 13, 29-30). Quest’ultima affermazione viene chiaramente insegnata dalle parole dell’Apostolo, il quale così pone termine al capitolo XI della sua Lettera ai Romani: «Poiché io non voglio, o fratelli, che ignoriate questo mistero affinché non siate dentro di voi orgogliosi, che è avvenuto un induramento in una parte d’Israele, e ciò finché non sia entrata la totalità dei gentili; allora tutto Israele si salverà, conforme sta scritto: «Verrà da Sion il Liberatore e allontanerà l’empietà di Giacobbe», e «questo sarà il mio patto con loro, quando io abbia cancellato i loro peccati». Riguardo al Vangelo sono nemici per via di voi, ma rispetto all’elezione sono amati per via dei Padri; i doni e la vocazione di Dio non sono cose che soggiacciono a pentimento». Egli non dice che Israele è anche ora il popolo eletto, come è stato affermato (cfr. P. Marzano, Il Sangue di Lui). Dice soltanto che Dio, per via dei Padri, continua ad amare e ad offrire anche ai figli del popolo ebraico la sua misericordia affinché si convertano, e cioè, finalmente, riconoscano Cristo quale Messia, ne accettino il messaggio divino, ed abbiano la vita eterna (Gv 17, 3). «Come voi avete in passato disobbedito a Dio, ora invece avete ottenuto misericordia per la loro incredulità, così anche essi non hanno ora creduto per la misericordia che è nell’incredulità per usare a tutti misericordia. O profondità della ricchezza e sapienza e conoscenza di Dio! Come sono imperscrutabilità i suoi giudizi e non intracciabili le sue vie! Chi ha conosciuto il pensiero del Signore? E chi gli fu consigliere? O chi diede a Lui per primo da averne il contraccambio? Poiché da Lui e per Lui e a Lui ogni cosa; a Lui gloria nei secoli, così sia» (Rm 11, 25-35). Rimane dunque stabilito che, di fatto, ora Israele è nell’indurimento; ma verrà un giorno, come dice San Paolo, e cioè dopo l’entrata totale dei gentili, che esso si salverà per la misericordia e i giudizi imperscrutabili di Dio. Del medesimo parere è Giuseppe Ricciotti nella sua ben nota opera. Parlando dell’annunzio da parte di Gesù di tutte le sciagure che sarebbero venute sopra il popolo ebraico per averlo rifiutato, scrive: «All’annuncio che i farisei hanno colmato la misura dei loro padri, segue la deplorazione, come nella procedura forense alla dimostrazione del delitto seguiva la pena; è la terza parte del discorso: «Serpenti, razza di vipere, come avverrà che sfuggiate al giudizio di condanna della geenna? Per questo, ecco, io invio a voi profeti e sapienti e scribi: di essi ucciderete e crocifiggerete e di essi flagellerete nelle vostre sinagoghe e perseguiterete di città in città, affinché venga su voi il sangue giusto versato sulla terra dal sangue di Abele il giusto, fino al sangue di Zaccaria figlio di Barachia, che uccideste fra il santuario e l’altare. In verità vi dico: verranno tutte queste cose su questa generazione! Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidie gli inviati a te! Quante volte volli radunare insieme i tuoi figli, come una gallina raduna i pulcini sotto le ali, e voi non voleste! Ecco, è lasciata la vostra casa deserta. Vi dico infatti, non sarà che mi vediate da adesso fino a che diciate: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore»! «Quest’ultima parte – commenta il Ricciotti – più che una minaccia è in realtà una deplorazione. Gesù deplora che i suoi reiterati tentativi di salvare città e nazione siano stati frustrati e che l’intero edificio costruito man mano da Dio per la salvezza d’Israele venga demolito man mano dalla pervicacia degli uomini; ciò che è avvenuto al tempo della legge quando i Profeti di Jahvé finivano lapidati, avverrà anche al tempo del Messia, i cui inviati finiranno in maniera analoga. Ma in tal modo, tutto il peso dei delitti anche più antichi graverà su quelli che compiono l’ultimo delitto, perché costoro scalzano le ultime fondamenta dell‘edificio di Dio, e, colmando la misura, attireranno su se stessi la vendetta totale. è dunque una minaccia salutare, un supremo angoscioso grido affinché le guide cieche della nazione eletta s’arrestino sull’estremo orlo dell’abisso. Ma con quest’appello angoscioso e minaccioso i tentativi di Gesù finiscono. Quando sia avvenuta l’ultima ripulsa e consumato l’ultimo delitto, la loro casa sarà abbandonata ad essi deserta, priva dell’aiuto di Colui che hanno respinto. Né essi rivedranno mai più Lui, se non in tempi d’un futuro remotissimo, allorché l’aberrante nazione si sarà ravveduta del suo errore e cercherà il respinto: «Una voce sulle nude colline, si ode il pianto supplichevole dei figli d’Israele: poiché aberrarono dalla loro via, dimenticarono Jahvè loro Dio; saranno giorni, quelli in cui non si esclamerà più oltre: «O Arca dell’alleanza di Jahvè»!, non starà (più) a cuore, non si penserà ad essa, non sarà rimpianta nè costruita più oltre; e agli aberranti sarà rivolto un invito: «Ritornate, o figli ribelli, guarirò io le vostre ribellioni»! Ed essi risponderanno: «Eccoci, noi veniamo a te, perché tu sei Jahvé nostro Dio! [...] Davvero, in Jahvè nostro Dio sta la salvezza d’Israele»! (Ger 3, 16-23, con inversioni) «Questa visione dell’antico Profeta – conclude il Ricciotti – è contemplata nuovamente da Gesù, sullo sfondo d’un tempo del tutto nuovo ed ancora più remoto, quello della parusia; allora Israele, riconciliato col già respinto Messia, potrà nuovamente vederlo, perché gli andrà incontro rivolgendogli l’acclamazione già rivoltagli nel breve trionfo di due giorni prima: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore»! Qualche anno più tardi, il fariseo Paolo di Tarso, divenuto «schiavo» di Cristo Gesù, contemplerà anch’egli il remotissimo tempo in cui i suoi connazionali, presentemente accecati, riacquisteranno la vista e così l’intero Israele sarà salvato» (vedi Rm 11, 25-26) 35.
CHIARIFICAZIONE
Riassumendo quanto è stato detto in questo opuscolo, è evidente: 1) Che a premere sulla volontà di Pilato non fu un piccolo numero di persone e molto meno si trattò di un gruppo anonimo e non qualificato. Si trattò, invece, delle «guide spirituali del giudaismo e di una larga rappresentanza del popolo di Gerusalemme» (G. Ricciotti, op. cit.) 2) Quelle «guide spirituali» e quella «larga rappresentanza del popolo di Gerusalemme», sono i veri responsabili del delitto di deicidio, commesso contro la divina Persona di Cristo Uomo-Dio. 3) Il grido blasfemo ed empio delle guide spirituali dell’ebraismo e di una larga rappresentanza del popolo di Gerusalemme, mentre strappò dalle mani di Pilato la sentenza di morte di Cristo – poiché quello stesso grido fu pronunziato da una «rappresentativa vox populi, e fu un voto strettamente ufficiale che riassumeva i desideri sia dei capi che delle membra, sia del Sinedrio che del popolo» – ottenne anche che venisse accolto da Dio «mostrandolo avverato nella Storia» (G. Ricciotti, op. cit.). Questi i fatti, purtroppo dolorosi, deplorevoli, ed altrettanto misteriosi, se si pensa chi è Cristo e quel che fece per il Suo popolo, e come questo popolo si sia deciso a rifiutarlo chiedendone la morte di croce… Da una parte, dunque, un popolo che chiede, dall’altra Dio che accoglie la richiesta di quel popolo; la quale richiesta non soltanto sarà una punizione per esso ivi presente, ma anche per i loro figli lontani, poiché anche per essi il popolo e le guide si sono assunti la responsabilità del «suo Sangue» (Mt 27, 25). Tutto questo – dicevamo – è vero ed è altamente misterioso e doloroso. Ma in che senso dobbiamo e possiamo spiegare i fatti, i quali sono altrettanto eloquenti quanto innegabili per chiunque stia al Vangelo e alla Storia? Forse nel senso che Dio, dopo quell’infelice ed empia imprecazione, privi gli ebrei e i loro figli della libertà e della grazia per cui sia loro impedito di fare penitenza ed evitare la richiesta punizione? Forse nel senso che gli ebrei e i loro figli siano e rimangano maledetti, senza che essi continuino a cooperare liberamente e a rimanere nella loro ostinata negazione e ribellione? No, certamente. Dopo quell’invocazione, o presa di posizione responsabile da parte degli ebrei, per sé e per i loro figli, questi rimangono sempre liberi, e Dio, nella Sua infinita benignità, non nega loro la grazia, che suole concedere liberamente, a tutti, secondo i Suoi altissimi disegni. A proposito di ciò che andiamo affermando, Jean Daniélou fa la seguente riflessione: «La verità è che il piano di Dio, in certi momenti, può colpire una razza i cui individui potranno salvarsi o no, individualmente, secondo la loro personale corrispondenza alla grazia. Ci sono degli ebrei la cui responsabilità nella condanna di Cristo è estremamente grave, ma nell’insieme certamente «essi non sanno quello che fanno», come disse Gesù. Non si vuol perciò affermare che c’è una condanna individuale dei giudei, ma che era nel piano di Dio che quel popolo, in quanto tale venisse messo da parte per qualche tempo» 36. Tuttavia, è tale e così enorme il delitto commesso dagli ebrei, da farli rimanere accecati e nel loro «indurimento» (San Paolo), anche sotto la pioggia della grazia di Dio; e, pur potendo cooperare alla medesima, non cooperano – come popolo – non entrano nell’unica ovile di salvezza. E così, di fatto, rimanendo nel loro accecamento, per propria colpa, essi e i loro figli rimangono sotto quella maledizione che invocarono per ottenere la morte del Figlio di Dio. In realtà, Dio avrebbe potuto accogliere, anche in senso assoluto, l’invocazione o imprecazione dei giudei, sicché nessuno di essi e dei loro figli ne rimanesse immune; tuttavia, come nota un eminente esegeta, seguendo in ciò il pensiero di San Giovanni Crisostomo (ca 345-407), il Signore misericordiosissimo mitigò quella sentenza, applicandola soltanto a coloro che persistono nella loro incredulità e negazione di Cristo. Ecco le sue parole: «In secondo luogo, si deve notare che, quantunque tale pena fu imprecata dai giudei sopra sè stessi, e sopra i propri figli, tuttavia il misericordiosissimo Dio mitigò quella sentenza, applicandola soltanto agli increduli, e risparmiando i fedeli, come ebbe a notare San Giovanni Crisostomo (cfr. Hom. 87, in Matth.). «Il misericordiosissimo Gesù – dice il santo Dottore – nonostante che i giudei impazzissero sia contro sè stessi, sia contro i loro figli, tuttavia Egli non volle condannare tutti, secondo la loro sentenza. E così, sia tra essi, e sia tra i loro figli scelse molti, i quali si pentirono ed ebbero da Lui favori e doni copiosi. Fu, infatti, dei loro Paolo, e quelle molte migliaia, che a Gerusalemme accolsero la fede, dei quali parlano gli Atti degli Apostoli (21, 20). Di essi, infatti, San Giacomo dice a Paolo: «Fratello, tu vedi quante migliaia di giudei si sono convertiti alla fede». La stessa cosa insegna il medesimo Dottore in un’altra omelia (cfr. Hom. de Cruce ac latraone, in fine tertii tomi), confermando la sua tesi con l’esempio della fornace di Babilonia (Dn 3, 4). Dice, dunque, egli: «Il sangue di Cristo non è meno efficace del fuoco della fornace di Babilonia. Ora, quel fuoco seppe onorare e salvare i corpi dei santi, e bruciare i corpi dei caldei. Dunque, il sangue preziosissimo di Cristo saprà ben salvare i credenti, e bruciare gli increduli. In terzo luogo, va notato che il grido dei giudei ferì profondamente il Cuore di Cristo, come molte anime pie ebbero il privilegio di contemplare. Vide, cioè, Gesù con grande dolore che il Suo popolo, così gridando, sottometteva sè stesso e i propri figli a dure e gravi pene; mentre Egli veniva giudicato degno di morte dal Suo popolo, il quale invocava su sè stesso e sopra i suoi figli la pena e il castigo dello spargimento del Suo sangue divino» 37. Lo stesso pensiero esprime San Paolo nella sua Lettera ai Romani, dove scrive: «E anche quelli, cioè i giudei, se non rimarranno ostinati nella incredulità, saranno innestati; poiché Dio è potente a innestarli di nuovo. Poiché, se tu (una volta pagano) sei stato tagliato dall’olivo per sua natura selvatico, e contro natura sei stato innestato nell’olivo buono, quanto più saranno essi (ebrei) naturalmente innestati nel loro proprio olivo»! (Rm 11, 22-24). Come si vede, tutto dipende dalla corrispondenza alla grazia, nel ricevere liberamente, ancora una volta, l’innesto nel proprio olivo, tornando, cioè, a quella fede dei Patriarchi che videro già in Cristo il futuro Messia, Figlio di Dio «ucciso dai giudei, ma da Dio risuscitato da morte» (At 2, 23-24; 3,15). Tornare a questa fede, significa convertirsi, e perciò sfuggire a quella maledizione che i giudei invocarono sopra di sé e sopra i loro figli. è questo, credo, uno dei tanti motivi che dovrebbero indurre gli ebrei a ristudiare serenamente la vita, i miracoli e la dottrina di Cristo, per potere gioire di Lui e con Lui, come di Lui, con Lui e per Lui gioì lo stesso Abramo, il quale, come disse Gesù: «Vidit diem meum et gavisus est» («Vide il mio giorno e si rallegrò»; Gv 8, 26). Ma se «i figli» dei lontani padri, su cui certamente grava la responsabilità dell’uccisione di Cristo, se i figli – dicevo – di fatto rimangono ostinati nel loro indurimento ed accecamento e nella loro costante opposizione ed ostilità contro Cristo e la Sua Chiesa, e se nonostante la prova più evidente di Cristo e la Sua Chiesa, e la prova più evidente di Cristo risorto e del nuovo popolo (i gentili) entrato a far parte del regno di Dio, dopo il colpevole ripudio ebraico di Gesù Messia, continuano l’opera e l’atteggiamento dei padri, e non si decidono ad entrare, come tanti hanno fatto, nel regno di Dio, è ovvio che cadano nello stesso abbandono in cui caddero i padri, i quali ripudiarono Cristo, Figlio di Dio. Quando, perciò, come fa l’articolista di Palestra del Clero, si dice che uno solo, secondo la teologia cattolica, è il peccato che si tramanda alla discendenza dei colpevoli, e questo peccato non l’hanno commesso gli Ebrei – è quello di Adamo ed Eva – si afferma senz’altro una verità indiscutibile, ma non perciò tale da infirmare ciò che noi abbiamo affermato e dimostrato. Poiché noi non diciamo che sui figli degli ebrei pesa il peccato del deicidio, sic et simpliciter, come se l’avessero commesso essi stessi; diciamo soltanto che, di fatto, come mostra la Storia, quei figli, come gruppo etnico, o popolo ebraico, rifiutano il Messia e continuano nel loro accecamento, e, peggio ancora, rifiutano e combattono Cristo e la Sua Chiesa, oggi (come ieri i loro padri), e perciò è giusto che abbiano con essi una comune sorte, ed una stessa pena. Quale meraviglia, in breve, che su di essi cada la maledizione invocata dai padri, e dai figli non spezzata o, per lo meno, non rifiutata, aderendo alla verità la quale anche a testimonianza di una ebrea convertita, (Edith Stein), non si trova che in Cristo? Se, cioè, i figli dei lontani giudei uccisori di Cristo, di fatto rimangono ostinati attraverso i secoli nel loro indurimento, già denunciato da San Paolo, e se continuano a combattere Cristo nei Suoi seguaci, si ricordino le parole che Cristo rivolse a San Paolo sulla via di Damasco: «Saule, Saule, quid me persequeris»? (At 9, 4-5); e se, nonostante la prova più evidente di Cristo risorto e del miracolo della Sua Chiesa sempre combattuta e mai vinta, essi permangono nella ribellione a tutto ciò che ha nome da Cristo, quale meraviglia – ripeto – che siano anch’essi coinvolti in quello stesso abbandono e in quelle stesse sventure che vennero sui loro padri deicidi, i quali, peraltro, le invocarono anche per i loro figli? Tutto considerato, perciò, non può non valere anche per questi, ciò che Cristo disse al termine della parabola dei vignaioli ribelli. Cristo parlò ai padri, ma se i figli non si sottraggono alla mentalità di essi, ed anzi sono solidali con essi, quelle parole non possono non applicarsi anche a loro: «Non avete mai letto nelle Scritture: «La pietra rigettata dai costruttori è quella che è divenuta la pietra angolare; dal Signore è stato fatto questo ed è cosa meravigliosa ai nostri occhi»? Perciò io vi dico che il regno di Dio vi sarà tolto e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare. E chi cadrà su questa pietra, sarà sfracellato, ed essa stritolerà colui sul quale cadrà. I principi dei sacerdoti e gli scribi udite le sue parole capirono che parlava di loro e volevano impadronirsi di lui; ma avevano paura del popolo che l’aveva in conto di profeta» (Mt 21, 41-45). Capirono, e tuttavia si ostinarono, e così perirono e furono ripudiati… e stritolati… C’è da pensare che, dopo tanti secoli di cristianesimo abbiano a capire meglio i figli, e così riescano a sottrarsi a quella maledizione, procurata ai medesimi dai padri, persecutori ed uccisori di Cristo.
CONCLUSIONE
Quantunque sia certo che il popolo ebraico di fatto, come «gruppo etnico», rimarrà nel suo accecamento, o stordimento – come dice San Paolo – sino all’entrata nel regno di Dio di tutte le genti, poiché soltanto allora Israele come popolo o «insieme etnico» si convertirà, ed entrerà nell’unico ovile, fuori del quale non c’è salvezza (Rm 11, 25 e ss.); tuttavia – come è stato detto – non fu mai affermato, né si potrà affermare che i singoli ebrei, le persone singolarmente prese, non possano convertirsi anche prima, corrispondendo alle sollecitazioni della grazia, come è sempre avvenuto durante i secoli della storia cristiana. Sono ebrei convertiti, infatti, gli Apostoli, ed è ebreo convertito lo stesso San Paolo, e furono con ogni certezza tutti ebrei prima i 3.000 e poi i 5.000 che si convertirono alla parola di San Pietro e degli Apostoli (At 2, 41; 4, 4). Altrettanto avvenne attraverso tutti i tempi, quanto più e quanto meno, sino ai nostri giorni. Di ebrei che accettarono la fede cristiana se ne ebbero in ogni epoca e in ogni luogo: e furono ebrei spesso illustri e profondi conoscitori delle divine scritture, sino al Prof. Eugenio Zolli. Tutto ciò indica chiaramente che l’atteggiamento del cristiano cattolico di fronte al problema ebraico, non può essere che atteggiamento di verità e di carità. Atteggiamento di verità, che illumina e libera dall’errore; atteggiamento di carità che conforta ed invita ad accettare la verità. Questo l’atteggiamento di Cristo, che non cessò mai di insegnare la verità per illuminare e liberare dall’errore i giudei del Suo tempo… Questo l’atteggiamento degli Apostoli, e specialmente di San Paolo, nelle sue Lettere ai Romani e agli stessi Ebrei. Questo l’atteggiamento degli altri grandi Apostoli del cristianesimo, tra i quali amiamo porre San Lorenzo da Brindisi, il novello Dottore della Chiesa universale, il quale tra le alte missioni affidategli dai Sommi Pontefici, ebbe anche quella di predicare agli ebrei, cosa che egli adempì con grande plauso e soddisfazione dei medesimi, i quali, specie per la perizia nella lingua ebraica che mostrava nei sermoni, lo reputavano quasi uno della loro gente. Portiamo dunque anche noi agli Ebrei verità e carità. Anzitutto, però, la verità, poiché senza di questa non si potrebbe avere che una carità soltanto apparente, o peggio, equivoca e ingannatrice, e perciò favorevole ad accrescere negli stessi ebrei quell’accecamento da cui, invece, bisogna ad ogni costo liberarli per farli entrare nella luce che viene soltanto da Cristo, «Via, Verità e Vita». Ho nominato il Prof. Eugenio Zolli. Questo il nome di cui si volle onorare dal giorno della sua conversione al cattolicesimo. Prima si chiamava Israel Zolli, ed era Rabbino Capo di Roma. Nel ricevere il battesimo, il 13 febbraio 1945, in omaggio a Pio XII (1876-1958) chiese di essere chiamato Eugenio. A quanti mi hanno letto o mi leggeranno, addito questa figura di eminente studioso della Sacra Bibbia. E vorrei che tutti fossero animati dagli stessi sentimenti di lui, che in Cristo finalmente trovò la luce e la vita. La trovò, come egli narra, attraverso la lettura e la meditazione del Vangelo. «Leggevo - egli scrive - spesso all’aperto in campagna da me stesso il Vangelo. Lo studiavo a casa con i dotti commenti di Padre Lagrange e qualche volta con altri commenti fatti per esso con intenti scientifici; ma d’estate, in qualche campagna solitaria, io lo leggevo per mio diletto e ammaestramento. E il sacro testo mi diveniva sempre più caro, sempre più l’amavo. Da anni e anni, prima di prendere sonno; medito qualche testo biblico, antico e neotestamentario. Negli ultimi tempi meditavo pacatamente sui dogmi. Non mi ero mai proposto di ingaggiare una lotta per risolvere un problema. Tutto si sviluppava e maturava lentamente. Non ho chiesto l’aiuto di nessuno, non già per orgoglio, perché non saprei di che cosa avrei potuto andare orgoglioso io, un poveretto qualunque, ma perché mi pareva di bastare a me stesso. Quando ho visto che la mia anima traboccava di cristianesimo, pur conservando molta, infinita carità per le sofferenze del mio popolo, mi sono convinto che sarebbe stato disonesto proseguire in una via che non era più la mia. Ho rinunciato a tutto, ho ringraziato tutti di tutto per poter poi adire la via che per me era ed è l’unica» 38. Ecco un uomo che ha saputo unire insieme la verità con la carità. Non ha tradito la prima per la seconda, come spesso suole avvenire in certi spiriti deboli e poco equilibrati. Ha abbracciato la prima, l’ha detto francamente; ha praticato la seconda, «conservando – come dice – molta, infinita carità», per il suo popolo. Ed ora, volendo porre termine a queste pagine con una parola che esprima tutto il mio pensiero e che sia in pari tempo voce di verità e di carità, non posso che raccogliere e riproporre alla meditazione degli ebrei dei nostri giorni, ciò che San Paolo Apostolo disse ai suoi connazionali nel discorso che tenne innanzi a loro in Antiochia di Pisidia. Dopo aver riassunto la storia del popolo d’Israele dalla sua dimora in Egitto, sino alla testimonianza che Dio rese a Re Davide, egli così parlò agli anziani e al popolo ebraico di quella città: «Dalla sua progenie (di Davide) Dio, secondo la sua promessa, ha suscitato il Salvatore per Israele: Gesù; avendo Giovanni, che andò avanti a Lui nella sua venuta, predicato il battesimo della penitenza a tutto il popolo di Israele; e presso a compiere la missione della sua vita, Giovanni diceva: «Chi credete che io sia? Non sono io quello; ma, ecco, viene dopo di me uno, del quale io non son degno di sciogliere dai piedi i calzari. Fratelli, figliuoli della stirpe di Abramo e quanti tra voi temono Dio, sappiate che la parola di questa salvezza è già venuta. Infatti, gli abitanti di Gerusalemme e i loro capi, non avendo cognizione di Lui né delle voci dei profeti, che si leggono ogni sabato, condannandolo, le adempirono; pur non trovando in Lui causa di morte, chiesero a Pilato che fosse ucciso; e dopo che ebbero finito di fare tutto quello ch’era stato scritto di Lui, depostolo dal legno, lo posero nel sepolcro. Ma Dio lo risuscitò da morte il terzo giorno, e fu visto per molti giorni da coloro che erano saliti con lui dalla Galilea a Gerusalemme, e che ora sono suoi testimoni presso il popolo. E noi pure vi rechiamo la buona novella, che la promessa fatta ai nostri padri, Dio l’ha adempita con i nostri figli risuscitando Gesù come sta scritto anche nel salmo secondo: «Mio Figlio sei tu; oggi io ti ho generato» (At 13, 15-33). Se qualcuno, almeno qualcuno, ebreo o non ebreo poco importa, rileggendo e meditando questa pagina paolina, sentisse il bisogno di essere annoverato tra le membra del nuovo popolo eletto, divenendo figlio di Dio e coerede di Cristo, nel suo regno, sarei ben felice del mio non lieve lavoro, nel presentare, nella carità, la sola verità intorno alla morte di Cristo, divenuto pietra di scandalo per i negatori della Sua divinità; mentre, per coloro che credono in Lui, e Lo invocano, diveniva salvezza temporale ed eterna.
APPENDICE I Voci di SS. Padri e di illustri esegeti
l Testo evangelico
«Pilato, visto che non approdava a nulla e che anzi il tumulto si faceva maggiore, prese un catino e si lavò le mani innanzi ai popolo, dicendo: «Io sono innocente del sangue di questo giusto; pensateci voi». E tutto il popolo replicò: «Il suo sangue ricada su noi e sui nostri figli»! Allora rilasciò loro Barabba e dopo aver fatto flagellare Gesù, lo diede nelle loro mani per essere crocifisso» (Mt 27, 24-26).
l Commento di Giovanni da Sylveira
n Pilato cerca in cinque modi di liberare Gesù
«Pilato, visto che non approdava a nulla…», considerando, cioè, che niente gli giovava ossia, nulla gli era propizio a placare la sommossa popolare, né la dichiarazione dell’innocenza di Gesù («Io non trovo nulla in Lui che lo renda meritevole di condanna»), né di averlo mandato ad Erode, né la promessa di castigarlo per indi rilasciarlo libero, né la proposta di liberarlo in occasione della Pasqua invece di Barabba, mentre vede che aumenta sempre più il furore popolare dopo aver dichiarato innocente Cristo più volte con le parole, ora dichiara la stessa innocenza di Lui, lavandosi le mani. Presa dell’acqua si lava le mani innanzi al popolo, servendosi – scrive a questo proposito Origene (Hom. 35) di uso giudaico, volendo placare il popolo, non soltanto con le parole, ma ancora con un fatto si lava le mani. Era costume infatti tra i giudei che trovandosi qualcuno ucciso, venivano gli Anziani al luogo in cui giaceva il cadavere, e si lavavano le mani a testimonianza della loro innocenza come era prescritto nel Deuteromio (Dt 21, 1-6). Perciò Pilato, quantunque romano e gentile si servì dell‘uso giudaico, e di esso si servì anche forse, perché la sua voce, che andava affermando l’innocenza di Gesù, difficilmente poteva udirsi in mezzo al grande tumulto del popolo (l’altoparlante doveva attender ancora molti secoli, per apparire sulle piazze!). E perciò, alla voce volle aggiungere un segno simbolico, affinché anche quelli più distanti potessero capire che egli rigettava tutta la responsabilità di quella condanna sopra i giudei. «Voi – dunque voleva dire il Preside - esaminate più esattamente questo delitto dell’uccisione di questo Giusto e considerate seriamente ciò che state per fare».
n La stoltezza di Pilato
Giustamente tutti i SS. Padri, in tal caso, disapprovano la condotta di Pilato. Egli infatti si lavò le mani, ma con questo atto non riuscì a lavarsi la coscienza che macchiò anzi enormemente condannando a morte il Giusto e il Santo; mostrandosi così stolto, timido, cieco e vile, non sapendo resistere e piuttosto assecondando l’ingiustizia. «Non cercare di divenire giudice se non hai forza di sradicare le ingiustizie», è detto nell’Ecclesiastico (7, 6), poiché è dovere del giudice comprimere e calmare il popolo sedizioso, servendosi se è necessario, anche delle forze armate come, d‘altra parte egli fece in circostanze analoghe come afferma Giuseppe Flavio (37 ca-103; Ant., lib. XVIII, cap. 4). E perché anche ora non si comporta allo stesso modo, ed invece condanna alla morte Gesù a causa del popolo sedizioso? San Pascasio (sec. V; Lib. XII in Mt) scrive: «Lava le sue mani, ma non lava la sua coscienza dalla colpa, poiché il giudice non deve cedere al timore, né ad altri impulsi degli avversari condannando il sangue innocente, dinanzi dichiarato giusto». La stessa cosa affermano Sant’Agostino (354-430; Serm. 118 De Tempore), San Leone Magno (m. 461; Serm. De Passione) San Giovanni Crisostomo (345 ca.-407; in cap. 23 Lc, n. 20) da cui il Bostrense ed altri prendono occasione per chiamare Pilato debole, vile e privo di animo virile.
n Il vero senso
E rispondendo tutto il popolo giudaico, il quale era ivi presente in gran numero, disse: «Il suo sangue cada su di noi». La frase è ebraica, e si trova spesso nella Sacra Scrittura. Nel Levitico (20, 9) si legge: «Il sangue suo sopra di lui»; in Giosuè (2, 19): «Il sangue di esso sia sopra il suo capo», e nel 2º libro di Samuele (3, 29): «Il sangue di Abner venga sopra il capo di Gioab». E similmente in altri luoghi. Il senso dunque di questa frase è: «Il suo sangue – cioè la colpa e la vendetta che s’incorre spargendo questo sangue e uccidendo questo uomo – venga imputata a noi, sia richiesta da noi. Prendiamo su noi stessi quella colpa, a noi venga imputata la sua morte e a noi e ai nostri figli venga imposta la pena che a tal delitto conviene».
n Imprecazione inumana e crudele
I giudei, gridando «Il suo sangue cada su di noi e sopra i nostri figli», affermano: «Se in questo affare vi è qualche colpa e se da essa dovrà seguire qualche vendetta che tu, o Pilato, temi, essa sia trasferita da Dio su di noi e sui nostri figli e noi e i nostri figli la sconteremo». Questa somma empietà dei giudei, pose in rilievo San Massimo (580 ca-662; Hom. III de Passione). «Empietà crudele ed inumana è quella dei giudei - dice il Santo – con la quale essi uccidono, non soltanto i figli presenti, ma anche quelli che dovranno ancora nascere! Quanto crudele ed inumana quella mano che lancia il sangue di Cristo contro gli stessi figli non nati, cosicché siano prima condannati che nati! Tale pena i giudei lasciarono in eredità ai loro figli». San Girolamo (347 ca-420) così commenta: «Questa imprecazione continua sino ad oggi sopra i giudei, e il sangue del Signore non cesserà di pesare su di loro, poiché, come predisse il profeta Daniele (9, 27): «Cesserà l‘offerta e il sacrificio, e nel Tempio vi sarà l’abominazione della desolazione, e fino alla consumazione, e al termine perdurerà la desolazione»! E, come soggiungono ancora San Girolamo e San Pascasio: «Tale eredità i giudei lasciarono ai loro figli; cioè il portare sulle loro spalle per tante generazioni, il peso del delitto dello spargimento del sangue del Signore». Quale nemico avrebbe mai potuto colpire gli ebrei con sciagura così enorme che peserà su di essi per serie così lunga di generazioni? «Purtroppo, quella sciagura che non seppero inventare i più fieri nemici – nota Arnoldo Carnot (Tract. I de verbis Domini) – seppero invece crearsi da se stessi i giudei. Osserva – scrive il citato autore – per quale errore, per quale sventura e perfidia dei principi sia stato ingannato il popolo, e quanta ruggine gli sia stata attaccata dall’autorità sacerdotale! Non temono di essere tacciati di omicidio in perpetuo, anzi hanno accusato su di sé e rovesciano sui propri figli il peso di così grande delitto, sottoscrivendo ben volentieri il decreto della propria condanna».
n Peccato che il tempo non distrugge
Di così grave peccato di effusione del sangue di Cristo – peccato che dopo mille anni appare ancora recente – San Giovanni Crisostomo (Hom. IV de Passione) scrive: «Senz’altro, enorme la gravità di un delitto, che non si cancella, né si dimentica, né, per trascorrere dei secoli, scompare.
Tale il delitto dello spargimento del sangue di Cristo, che macchia ancora i colpevoli [...]. Quale spada, quale scure non arrugginisce, né si consuma col passare del tempo? Soltanto la scure del peccato non cede al tempo, né teme di essere consumata dal medesimo».
n Dio mitigò la sentenza
In secondo luogo, si deve notare che, quantunque tale pena fu imprecata dagli ebrei sopra sè stessi, e sopra i propri figli, tuttavia il misericordiosissimo Dio mitigò quella sentenza applicandola soltanto agli increduli, e risparmiando i fedeli, come ebbe a notare San Giovanni Crisostomo (Hom. 87 in Mt): «Il misericordiosissimo Gesù – dice il santo Dottore – nonostante che i giudei impazzissero, sia contro sè stessi, che contro i loro figlioli, tuttavia Egli non volle condannare tutti, secondo la loro sentenza. E così, sia tra loro, che tra i loro figlioli scelse molti, i quali si pentirono, ed ebbero da Lui favori e doni copiosi. Fu infatti, dei loro Paolo e quelle molte migliaia che a Gerusalemme accolsero la fede, dei quali parlano gli Atti Apostolici (21, 29). In essi, infatti, San Giacomo dice a Paolo: «Fratello, tu vedi quante migliaia di giudei si sono convertiti alla fede». La stessa cosa insegna il medesimo Dottore in un’altra omelia (Hom. de Cruce ac latrone), confermando la sua tesi con l’esempio della fornace di Babilonia (Dn 3, 4). Dice dunque egli: «Il sangue di Cristo non è meno efficace del fuoco della fornace di Babilonia. Ora, quel fuoco seppe onorare e salvare i corpi dei santi, e bruciare i corpi de caldei. Dunque, il sangue preziosissimo di Cristo saprà ben salvare i credenti, e bruciare gli increduli. In terzo luogo va notato che il grido dei giudei ferì profondamente il Cuore di Cristo, come molte anime pie ebbero il privilegio di contemplare. Vide, cioè, Gesù, con grande dolore, come il Suo popolo, così gridando, sottometteva sè stesso e i propri figli a dure e gravi pene; mentre Egli veniva giudicato degno di morte dal Suo popolo, il quale invocava su sè stesso e sopra i suoi figli la pena e il castigo dello spargimento del suo sangue divino» (cfr. P.R.F. J. De Sylveira, Commentariorum in testum Evangelicum, Tom. V, Venezia 1728, pagg. 389-390, n. 36-46).
n Testo evangelico
«Il suo sangue ricada sopra di noi e sopra i nostri figli» (Mt 27, 25).
n Commento di Padre Agostino Calmet o.s.b. (1672-1757)
«Gli ebrei sentono ancora la forza di questa formidabile imprecazione pronunciata contro sè stessi, e la sentiranno sino alla consumazione dei secoli, come afferma San Girolamo. Il loro delitto è certamente più grave di quello di Pilato» (cfr. Padre A. Calmet os.b., Commentarius litteralis in omnes libros Veteris et Novi Testamenti, vol. VII, Augustæ Vindelicorum, 1760, pag 254. col. II).
n Commento di Padre Cornelio A Lapide s.j. (1567-1637)
«Tanto la colpa, come la vendetta del sangue di Gesù, che tu temi, o Pilato, da te sia trasferita su di noi e sui nostri figlioli, affinché se vi è colpa la scontiamo noi e i nostri posteri, nel giudizio di Dio vindice. Non riconosciamo colpa alcuna, noi, in questo affare, né perciò temiamo alcuna vendetta, e senza alcun timore l’assumiamo su noi stessi». Così essi divenuti ciechi e furiosi, posero sè stessi e i propri figli sotto l’impero della vendetta divina. Vendetta che ha pesato su di essi sino ad oggi, per 1600 anni. Cosicché, dopo la distruzione del popolo e della città di Gerusalemme, essi vanno ra minghi per il mondo, senza città, senza Tempio, senza sacrificio, senza sacerdozio, senza Re, servi ovunque dei principi e di ogni gente. Per cui l’imperatore Tito, a castigo della crocifissione di Cristo, nell’assedio di Gerusalemme, mentre i giudei uscivano a torme in cerca di cibo, comandò che fossero crocifissi ogni giorno in numero di cinquecento, al punto di non esservi né spazio sufficiente per le croci, né croci sufficienti, per appendervi i corpi, come scrive Giuseppe Flavio (6, Belli c. 12). Continua – dice San Girolamo – questa imprecazione sui giudei sino ai nostri giorni, e il sangue del Signore non sarà tolto ai medesimi, perché, come predisse il profeta Daniele (9, 27), la desolazione durerà fino alla consumazione» (cfr. P. C. A Lapide s.j., Commentaria in quattuor Evangelia, Venezia 1661, pag. 372, col. 1).
APPENDICE II DOCUMENTI ECCLESIASTICI
n A) Condanna della società «Gli amici d’Israele»
«Gli Acta Apostolicæ Sedis, del 2 aprile 1928 pubblicavano il seguente decreto che reca la data del 25 marzo: «Essendo stato sottoposta al giudizio di questa Suprema Sacra Congregazione del Santo Ufficio la natura e il fine della società detta «Gli Amici d’Israele» e il libro intitolato Pax super Israel, pubblicato e largamente diffuso dai capi della società, appunto perché ne fosse pubblicamente conosciuta l’indole e il metodo, gli E.mi Padri preposti alla tutela della fede e dei costumi, in sulle prime riconobbero in essa il lodevole intento di esortare i fedeli a pregare Dio e a lavorare per la conversione degli israeliti al regno di Cristo. Non è dunque meraviglia se, badando unicamente a questo fine, da principio, non solo molti fedeli e sacerdoti, ma anche non pochi Vescovi e Cardinali aderirono a tale società. Infatti, la Chiesa cattolica fu sempre solita pregare per il popolo giudaico depositario, fino alla venuta di Gesù Cristo, delle divine promesse, nonostante il susseguente suo accecamento, anzi appunto per questo spirito di carità la Sede Apostolica protesse il medesimo popolo contro le ingiuste vessazioni e, come riprova tutti gli odii e le animosità tra i popoli, così massimamente condanna l’odio contro un popolo già eletto da Dio, quell’odio cioè che oggi volgarmente suole designarsi col nome di «antisemitismo». Tuttavia, avvertendo e considerando che col tempo la società «Gli Amici d’Israele» aveva adottato un modo di operare e di parlare alieno dal senso della Chiesa, dalla mente dei SS. Padri e dalla stessa sacra Liturgia, gli E.mi Padri, udito il voto dei Consultori, nella Congregazione plenaria tenuta il mercoledì 21 marzo 1928, decretarono l’abolizione della società «Gli Amici d’Israele» e la dichiararono abolita di fatto, e ordinarono che nessuno in avvenire scriva o pubblichi libri od opuscoli che in qualsivoglia maniera favoriscano queste erronee iniziative. E nel giovedì seguente, 22 dello stesso mese ed anno, il SS.mo Signor Nostro Pio XI, nella solita udienza concessa all’Assessore del Santo Ufficio, udita la relazione della deliberazione presa, l’approvò la confermò e ordino di pubblicarla» (cfr. La Civiltà Cattolica, anno 79 [1928], vol. II, pagg. 171-172).
A proposito del citato decreto del Santo Ufficio, La Civiltà Cattolica nota, in un suo articolo, anzitutto che «[...] il testo del documento è tanto chiaro [...] e così precisamente determinato e circoscritto il senso della condanna, che non occorrono davvero commenti. Tuttavia, poiché [...] alcuni vi cercano cavilli per una parte o per altra, è bene siano fatte alcune osservazioni. Le quali possono ridursi alle seguenti: 1) la società «Amici d’Israele» all’inizio nacque sotto ottimi auspici ed ebbe sinceri intenti di apostolato: conversione dei giudei, particolarmente per mezzo della preghiera. 2) Perciò aderirono a quella società non soltanto ottimi fedeli, ma anche Vescovi e Cardinali fra i più eminenti. 3) Ben presto, però, si ebbero esagerazioni e deviazioni apparse sopra tutto in un opuscolo o piuttosto serie di opuscoli dal titolo Pax super Israel. 4) Da ciò, prima le disapprovazioni, ed infine l’autorevole condanna del Santo Ufficio. 5) Il quale, però, condannando la società «Amici d’Israele», non intese tuttavia condannare lo spirito di carità e di apostolato da cui ebbe origine; poiché la Sede Apostolica protesse il medesimo popolo giudaico contro le ingiuste vessazioni, e, come riprova tutti gli odii e le animosità tra i popoli, così, massimamente condanna l’odio contro un popolo già eletto da Dio, quell’odio cioè che oggi volgarmente suole designarsi col nome di «antisemitismo». La Chiesa cattolica, infatti, fu sempre solita pregare per il popola giudaico, depositario sino alla venuta di Gesù Cristo delle divine promesse, nonostante il susseguente suo accecamento, anzi per questo, e cioè per liberarlo dal medesimo. Dalla stessa condanna, quindi, emergono due punti ben certi: a) L’esempio della Chiesa che prega per i giudei, e la raccomandazione ai fedeli di fare altrettanto per i medesimi come più bisognosi di essere aiutati per uscire dal loro accecamento. b) La condanna speciale dell’odio contro il popolo giudaico, in particolare; non perché innocente, o più meritevole di altri del pari lontani dal cristianesimo, ma perché più degli altri popoli esposto all’odio per le sue malefatte. Così, è condannato nominatamente l’«antisemitismo», ma è condannato, come ben s’intende nella sua forma e nello spirito anticristiano. Senonché, una tale benignità della Chiesa e la doppia sua raccomandazione, sopra accennata contro l’«antisemitismo», non deve farci dimenticare o chiudere gli occhi a quella che è la triste realtà, come parve succedere ad alcuni fra i principali dirigenti e propagatori della società degli «Amici d’Israele». Ora, su questo particolare per l`appunto, insiste richiamandovi l’attenzione dei fedeli il decreto citato. E denuncia tutto l’inconveniente che ne deriva: quel modo di operare e di parlare alieno dal senso della Chiesa, dalla mente dei SS. Padri e dalla stessa sacra Liturgia che induce a decretare l’abolizione della società «Gli Amici d’Israele» e ad ordinare che nessuno in avvenire pubblichi libri od opuscoli che in qualsivoglia maniera favoriscano queste erronee inziative». Infine, la stessa Civiltà Cattolica rileva come, in realtà tornando al punto, a cui ci richiama il documento, al pericolo giudaico, esso minaccia il mondo intero per le sue perniciose infiltrazioni o ingerenze nefaste, particolarmente nei popoli cristiani, e più specialmente ancora nei cattolici e nei latini, dove la cecità del vecchio liberalismo ha maggiormente favorito gli ebrei, mentre perseguitava i cattolici e religiosi soprattutto. Resta il pericolo incalzante ogni giorno più, e se ne hanno «buone prove di ragione e di fatti, la frequente e innegabile alleanza con la Massoneria la Carboneria o altre sétte e congreghe, camuffate in apparenza di patriottiche, ma in verità fluttuanti o intese di proposito al sovvertimento, quantunque non mai confessato, della società contemporanea, religiosa e civile» (cfr. La Civiltà Cattolica, anno 79 [1928], vol. II, pagg. 335 e ss.).
n B) Monitum Sancti Ufficii
«Biblicarum disciplinarum studio laudabiliter fervente, in variis regionibus sententiæ et opiniones circumferuntur, quæ in discrirnen adducunt germanam veritatem historicam et obiectivam Scripturae Sacrae non modo Veteris Testamenti (sicut Summus Pontifex Pius XII in Litteris Encyclicis Humani generis iam deploraverat, cfr. A.A.S., XLII, 576), verum et Novi, etiam quoad dicta et facta Christi Iesu. Cum autem huiusmodi sententiæ et opiniones anxios faciant et Pastores et christifideles. Em.mi Patres fidei morumque doctrinæ tutandæ præpositi, omnes qui de Sacris Libris sive scripto slve verbo agunt, monendos censuerunt ut semper debita cum prudentia ac reverentia tantum argumentum pertractent, et præ oculis semper habeant SS. Patrum doctrinam atque Ecclesiæ sensum ac Magisterium, ne fidelium conscientæ perturbentur neve fidei veritates lædantur. (N. B.: Hoc Monitum editur consentientibus etiam Em.mis Patribus Pontificiæ Cornmissionis Biblicæ. Daturn Romæ, ex Aedibus S. Officii, die 20 iunii 1961. Sebastianus Masala, Notarius» (cfr. Osservatore Romano, del 22 giugno 1961, pag. 1).
n Traduzione
«Con il lodevole rifiorire dello studio delle discipline bibliche, in varie regioni circolano, però, sentenze ed opinioni che mettono in dubbio l’autentica verità storica e obiettiva della Sacra Scrittura, non solo del Vecchio Testamento (come il sommo Pontefice Pio XII già aveva deplorato nelle lettere dell’enciclica Humani generis; cfr. A.A.S. XLII 576), ma anche del Nuovo Testamento, perfino quanto riguarda i detti e i fatti di Nostro Signore Gesù Cristo. Poiché simili sentenze ed opinioni turbano Pastori e fedeli, gli Eminentissimi Padri preposti alla difesa della fede e dei costumi, ritennero di ammonire tutti coloro che si occupano, per iscritto o a voce, di libri sacri, affinché trattino un sì importante argomento con la debita prudenza e riverenza, ed abbiano sempre davanti agli occhi la dottrina dei Santi Padri, il pensiero e il Magistero della Chiesa, affinché le coscienze dei fedeli non siano turbate, né lese le verità della fede». (N.B.: Questo monito è stato emesso col consenso anche degli Eminentissimi Padri della Pontificia Commissione Biblica. Dato a Roma, dalla Sede del Sant’Uffizio, il 20 giugno 1961. Sebastiano Masala, Notaio.
Parodia del Vangelo o presa in giro di certi esegeti (!?!) moderni? A proposito di articoli di riviste, dobbiamo notare, non senza meraviglia e sorpresa, ciò che fu scritto su Luce e amore, organo del movimento apostolico ciechi (anno XI, nº 1, gennaio 1961, Lodi Milano). Pur riferendo, infatti, il brano evangelico di San Matteo (27, 21-26), con un candore che pare sfiori l’idiozia, l’autore dell’articolo – che si onora del titolo «La colonna di P. Marzano» – deplora, anzitutto, che la frase «criminale» dei capi, o guide spirituali (come scrive il Ricciotti) e del popolo ebraico «il suo sangue ricada su noi e sui nostri figli» sia stata cotanto incriminata dalla tradizione cristiana e perciò da uomini come San Girolamo, San Giovanni Crisostomo ed altri della stessa misura… Si passa, quindi, con pari passo e… candore all’affermazione che «tutto il popolo» di cui parla San Matteo, non può indicare che qualche «centinaio di persone, più o meno anonime, facili all’entusiasmo, e perciò talmente scusabili» che non tocca a noi giudicarle… Non vi pare che si tratti anche qui di un saggio esegetico intoccabile e cioè non giudicabile da noi, miseri mortali? Senonché, a noi pare che non si tratta di un nostro giudizio, bensì di quello che ne fece Cristo stesso, il quale ebbe ad affermare – se non erriamo – che il rifiuto di Lui sarebbe stato pagato con l’abbandono da parte di Dio e con la distruzione della città deicida: «Gerusalemme Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi coloro che ti sono mandati, quante volte volli adunare i tuoi figliuoli come la gallina raduna i suoi pulcini sotto le ali, e non hai voluto! Ecco, la vostra casa vi sarà lasciata deserta, poiché io vi dico che non mi vedrete d’ora in poi finché non diciate: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore» (Mt 23, 37-39; Lc 13, 34-35). «Quando fu vicino alla città la guardò e pianse su di lei dicendo: «Oh! Se avessi riconosciuto anche tu in questo giorno, quel che giova alla tua pace! Ma ormai è rimasto nascosto ai tuoi occhi»! (Lc 19, 41-42). Che farà Dio di coloro che hanno ucciso il suo Figlio? «Egli colpirà senza pietà quei malfattori e affiderà la vigna ad altri vignaioli che gli renderanno frutto a suo tempo» (Mt 21, 2l-40 e ss). «Perciò io vi dico – è Gesù che continua a parlare – che il regno di Dio vi sarà tolto e sarà dato ad un popolo che lo farà fruttificare. E chi cadrà su questa pietra si sfracellerà, ed essa stritolerà colui sul quale cadrà» (Mt 21, 43-44). Poco prima, infatti, citando la Sacra Scrittura (Sl 118, 22 e ss; Is 28, 16) Gesù ha applicato a sé: «La pietra che hanno scartato i costruttori, questa è diventata capo d’angolo; questa è la opera del Signore ed è meravigliosa ai nostri occhi» (Mt 21, 42; At. 4, 11; 1 Pt 2, 4). «I principi dei sacerdoti e gli scribi, udite le sue parabole, capirono che parlava di loro e volevano impadronirsi di lui; ma avevano paura del popolo che l’aveva in conto di profeta» (Mt 21, 45-46). Capirono «gli scribi», di allora… Non capiscono o fingono di non capire «gli scribi» di oggi… Eppure, oggi, attraverso la Storia – che non ha mai smentito, ma ha piuttosto confermato il Vangelo – il Vangelo si dovrebbe capire più facilmente, che non capissero gli scribi e farisei del tempo di Gesù… Il colmo poi di certi scrittori moderni è che si cita il Vangelo, magari con esattezza, e poi se ne dà un’interpretazione tutta opposta a quella che ne diedero i Padri e Dottori e gli esegeti più insigni. Ma anche Lutero e i protestanti di ogni tempo hanno fatto e fanno metodicamente così. Ci vuole veramente del coraggio a scrivere in tal modo… I romani si domanderebbero se mai tali scrittori vadano per «micchi», e se per trovarli più facilmente abbiano scelto proprio l’ombra della «Colonna di P. Mariano», levata alta sulle pagine di Luce ed amore. Altre affermazioni soltanto fantastiche, e senza alcun fondamento storico e teologico, si fanno all’ombra della stessa «Colonna». Ma noi, poiché tutto ciò che ivi viene ripetuto lo abbiamo già largamente confutato attraverso le pagine del nostro opuscolo, ci asteniamo dal procedere oltre nell’enumerare le svariate inesattezze ivi asserite e soltanto ci domandiamo: si tratta forse, di parodiare il Vangelo, in codesta esegesi di nuovissimo conio, oppure si tratta di prendere in giro gli autori di certe peregrine novità, dal gusto molto discutibile? Se fosse vero, infatti, ciò che è stato scritto in questi ultimi tempi in un certo opuscolo dal titolo Il Sangue di Lui e ciò che ripetono, senza darsi cura di un minimo controllo critico, alcune riviste e giornaletti, come Palestra del Clero, Digest-religioso e Luce e amore per i ciechi, bisognerebbe riformare tutti i testi di religione, da quelli più elementari a quelli universitari; tutti i trattati di Storia, sacra e profana, che parlano della morte di Cristo, e dei giudei, autori della medesima. Bisognerebbe infine correggere la Divina Commedia di Dante Alighieri, il quale (povero ingenuo anche lui) nel Purgatorio (21, 82-84), e nell’Inferno (23, 109-123) ritiene i giudei responsabili della morte di Cristo, e perciò bolla di santa ragione Caifa, loro capo e ispiratore, nel chiederne la crocifissione.
APPENDICE III DOCUMENTO STORICO APOLOGETICO
n Profezie di Gesù circa la catastrofe dell’anno 70
Al principio dell’ultima settimana, gli Apostoli contemplano ammirati la facciata esterna del Tempio. «Maestro, guarda che pietre, che fabbrica»!, dice uno di essi. Ma Cristo risponde: «Vedi tu questi grandi edifici? Non rimarrà pietra su pietra che non sia diroccata» (Mc 13, 1-2; Mt 24, 1-2). I dodici, stupiti, chiedono spiegazione: «Dicci, quando avverranno queste cose»? E Gesù allora enumera i segni precursori della grande catastrofe. Sorgeranno falsi Cristi e sedurrano molti (Mt 24, 5; Mc 13, 6; Lc 21, 9). La Palestina e le regioni circostanti saranno desolate dalla guerra e vi saranno terremoti, pestilenze e carestie (Mt 34, 7; Mc 13, 8; Lc 21.10-11). I seguaci di Gesù subiranno persecuzioni da parte della Sinagoga, ancora ricordata accanto ai tribunali dei gentili (Mt 24, 9-10; Mc 13, 9-13; Lc 21, 12). E vi saranno fenomeni spaventevoli e grandi segni nel cielo (Lc 21, 11). Poi, alla fine della «tribolazione» di quei giorni, Gerusalemme sarà circondata da eserciti, gli ebrei in gran parte passati a fil di spada, mentre gli altri, fatti prigionieri andranno a rifornire i mercati di schiavi. Gerusalemme sarà calpestata dai gentili finché i tempi dei gentili non siano compiuti, e poi si vedrà ciò che assomma e sorpassa tutti gli obbrobri: l’abominazione della desolazione predetta dal Profeta Daniele, ossia il culto idolatrico impiantato nel luogo santo (Mt 24, 15; Mc 13, 14; Lc 21-20-24; 19,43-44). E c’è anche la determinazione del tempo: «In verità vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga» (Mt 24, 34; Mc 13, 30; Lc 21, 32). La profezia si è avverata alla lettera nei quarant’anni che seguirono la predizione di Gesù. Quali segni precursori della catastrofe finale, Cristo aveva predetto carestie, pestilenze e terremoti, persecuzioni, guerre. Tutto questo è attestato dal libro dello storico ebreo Flavio Giuseppe, La Guerra giudaica, e dai vari autori pagani. La carestia imperversò in Gerusalemme nel 44 (At 11, 27-30); in Roma nel 51 (Tacito, Annali, XII, 43); in Italia, nel 69, in seguito alle guerre civili. Vi furono terremoti in Italia nel 51 (ivi XII, 93), in Laodicea nel 60 (ivi, XIV 27), in Pompei nel 63 (ivi, XV, 22). Nel 65, malattie contagiose devastano la Campania. Nella sola città di Roma, in pochi mesi si hanno 30.000 morti (ivi. XVI, 13). Le persecuzioni sono note. Prima del 70, quasi tutti gli Apostoli avevano subito il martirio; da Roma le violenze ordinate da Nerone si erano estese a tutto l’impero. Contemporaneamente, nella Palestina e nell’impero romano scoppiano torbidi e guerre in gran numero (Flavio Giuseppe, Guerra giudaica, II, 17, 10; 18, 1-8). Secondo le profezie dovevano sorgere falsi Messia. Flavio Giuseppe afferma che parecchi impostori vennero successivamente ad ingannare il popolo; tra gli altri, cita Teuda nel 40, sotto Claudio, e un certo Egiziano che radunò circa 30.000 uomini sul monte Oliveto. Gesù aveva predetto dei prodigi (Lc 21, 11). Lo stesso storico ne cita alcuni, che taluni interpretavano come segni di disgrazie, altri come promessa di salvezza. Una cometa che aveva forma di spada è ricordata da Flavio Giuseppe e fu visibile a Gerusalemme un anno intero. E nella notte fonda per una mezz’ora un gran chiarore simile al giorno apparve attorno all’altare e al Tempio. E la porta del Santuario, che appena venti uomini avrebbero potuto muovere, si aprì da sé. E nell’aria furono veduti carri pieni di soldati, che irrompevano attraverso le nubi e si accingevano a circondare la città. In una notte di Pentecoste, i sacrificatori udirono uno strano rumore e poi più volte una voce ripetere: «Uscite di qui! Uscite di qui»! Durante sette anni, un rozzo campagnolo chiamato Gesù non lasciava di percorrere le strade ripetendo: «Voce da Oriente, voce da Occidente, voci su Gerusalemme e sul Tempio», sino al giorno in cui la città fu assediata; allora egli aggiunse alle maledizioni abituali un «Guai anche a me»! E, colpito da una pietra, spirò. (Flavio Giuseppe, Guerra giudaica, VI, 7, 3). Tutto questo prima del grande sconvolgimento. Nel 66 scoppia una rivolta, provocata, dice Giuseppe, dal Procuratore Floro. Cestio Gallo, Proconsole di Siria, marcia contro la città ribelle e penetra tra le sue mura; ma presto è costretto ad una ritirata disastrosa. Roma non poteva restare sotto questa onta; quindi, doveva seguire una guerra micidiale. Allora i cristiani si ricordano dei consigli di Gesù (Mt 24, 15-20; Mc 13,1 14-16; Lc 21, 20-21), ripetuti da un veggente, e in fretta si rifugiano al di là del Giordano, a Pella (Eusebio, Hist. eccl., 1. III, c. 5). Infatti, nell’aprile del 70 le armate di Roma, comandate da Tito, ricompaiono davanti a Gerusalemme e comincia il terribile assedio. In breve la città è ridotta agli estremi e la fame vi impera così orribilmente che si vedono madri sgozzare e divorare i loro bambini. Finalmente avviene l’ultimo assalto. Se si crede a Flavio Giuseppe, nella sola città di Gerusalemme perirono 1.100.000 uomini e in tutta la Giudea 1.300.000 sono sottoposti ai più spietati supplizi o venduti schiavi. Nel giro di circa tre giorni la città è rasa ai suolo. Nonostante l’ordine contrario di Tito, anche il Tempio è incendiato. Un soldato romano, «spinto da forza divina», scrive Flavio Giuseppe, prese un tizzone ardente e lo scagliò nel Tempio dall’apertura di una finestra. Ben presto l’incendio divampo furioso e si propagò in modo incredibile, nonostante gli sforzi più disperati per domarlo; e in breve del Tempio non rimasero che ceneri e macerie. E proprio là dove stava il Santo dei Santi, i legionari piantarono le loro aquile e offrirono ai numi tutelari delle legioni i loro abominevoli sacrifici (Flavio Giuseppe, Guerra giudaica, V. 3, VI, 34; VI, 9-3; Tacito, Ann., II, 17). «è la fine tanto della vita nazionale quanto della vita religiosa di Israele; il sacrificio è cessato per sempre. Gerusalemme come città del Gran Re non esiste più, e molti secoli passeranno sulla tomba dell’antico popolo di Dio» (Lepin, Jésus Messie et Fils de Dieu, pag. 383). Nel 362, Giuliano L’Apostata volle dare una smentita alle profezie di Cristo e ordinò di riedificare il Tempio. La demolizione delle antiche fondamenta era quasi ultimata e si stava per passare alla posa della prima pietra del nuovo edificio, quando, secondo la testimonianza di Ammiano Marcellino, storico pagano e ufficiale dell’esercito imperiale, «spaventevoli globi di fuoco improvvisamente lampeggiarono a più riprese in mezzo agli operai e ne uccisero un gran numero e resero il luogo inaccessibile. Poiché tutti gli elementi parevano sfavorevoli, si dovette abbandonare l’impresa» (Ammiano Marcellino, Rerum gest., 1 23, c. 1). E ciò confessa l’imperatore stesso in una lettera che ci è pervenuta (Pinard, Il taumaturgo e il profeta, pag. 172, nota nº 19). Così la profezia riguardante il Tempio ricevette un’ulteriore e solenne conferma. Il castigo perdura tuttora ed è pur sempre vera la parola di Gesù: «Gerusalemme sarà calpestata dai gentili, finché i tempi dei gentili non siano compiuti» (Lc 21, 24).
n Profezie circa la riprovazione della sinagoga e la dispersione degli ebrei
A causa della loro ostinazione nel male, gli ebrei saranno esclusi dal regno spirituale fondato dal Messia, e il loro posto preso dai gentili. Ciò è così chiaramente indicato nelle parabole dei vignaioli perfidi (Mt e Lc 14, 1-25), che gli interessati capirono al volo. E i principi dei Sacerdoti e dei Farisei compresero che parlava di loro (Mt 21, 45). Dice loro Gesù: «Non avete ma letto nelle Scritture: la pietra che gli edificatori hanno riprovata è divenuta pietra angolare? Ciò è stato fatto dal Signore ed è meraviglioso ai nostri occhi (Sl 117). Per questo vi dico: vi sarà tolto il regno di Dio e dato a gente che ne produca i frutti» (Mt 21, 42-43). Gli ebrei non soltanto non faranno parte della Chiesa di Cristo, ma cesseranno anche di esistere come popolo, secondo l’affermazione delle profezie sulla rovina di Gerusalemme e sulla distruzione del Tempio già esaminate. «Gerusalemme sarà calpestata dai gentili, finché i tempi dei gentili non siano compiuti» (Lc 21, 24). L’avveramento di questa profezia è di evidenza solare. Tutta la storia della Chiesa è lì ad attestarlo. Gli ebrei attendono ancora il Messia, rimanendo così esclusi dalla salvezza evangelica.
n La dispersione degli ebrei è attestata dalla storia profana
Quelli che scamparono dalla rovina della città, in parte furono disseminati nelle province dell’impero, in parte lasciati nella Giudea. Questi ultimi tentarono di sollevarsi sotto Adriano, che per farla finita una volta per sempre ne fece uccidere 6.000 e dispersi i rimanenti. Gli ebrei, però, benché come popolo siano cancellati dalla carta della terra, continuano a sussistere come razza, in eccezione alle leggi che reggono l’esistenza dei popoli, costituendo così una testimonianza perenne del compimento delle profezie e della maledizione che grava sul deicidio (cfr. Joseph Falcon, Manuale di Apologetica, 3ª ed., ed. Paoline, Alba 1954, pagg. 261-264). L’avveramento della profezia della catastrofe del 70 e della riprovazione della Sinagoga e la dispersione degli ebrei suggerisce al medesimo autore questa riflessione: «Si può dire anzi che (le predizioni del Salvatore) sono un argomento più forte di quello dei miracoli evangelici, perché alcune perdurano tuttora e noi possiamo constatarne l’adempimento coi nostri propri occhi» (ibid., pag. 267). Ma se la dispersione degli ebrei non fosse un castigo, meritato dai medesimi, per l’uccisione di Cristo, e gridando «il suo sangue cada su di noi e sui nostri figli» – come ritiene qualcuno – quale valore avrebbero le parole riferite dello scrittore da noi citato? Vi pensino seriamente coloro che si associano agli scrittori ebrei nello scusare i medesimi dal delitto del deicidio…
APPENDICE IV CONFERMA TEOLOGICA
Era già in corso di stampa questo modesto lavoro quando mi è capitata sotto lo sguardo una pagina del celebre teologo tedesco Michael Schmaus dal suo libro intitolato Le ultime realtà (ed. Paoline, 1960, pag. 152). Poiché mi è sembrato che riassuma egregiamente quanto ho scritto nel presente opuscolo, non ho saputo resistere alla tentazione di trascriverla. Chissà che non faccia un po’ di bene a quanti si oppongono al mio pensiero sulla responsabilità ebraica nella morte di Cristo: «Per il popolo ebraico è stata pronunciata una profezia affatto singolare» 39. L‘esistenza di questo popolo, i cui membri vivono dispersi fra tutti gli altri popoli, ai quali tuttavia non si assimilano, ma conservano la loro fisionomia particolare, rimane un enigma, finché si misura col metro che si applica alla Storia ordinaria. L’enigma si può sciogliere solo se si vede nella storia di questo popolo una speciale disposizione divina. Quando Federico II (1194-1250) domandò al suo medico personale svizzero Zimmerman se fosse in grado di dargli una prova convincente dell’esistenza di Dio, quello rispose: «Ma certo: il popolo ebraico». Il senso che la sopravvivenza del popolo ebraico ha nei consigli divini viene chiarito nella lettera dell’Apostolo Paolo ai Romani. Paolo sofferse in modo acutissimo per il destino del suo popolo. Esso era il popolo eletto da Dio, aveva la figliolanza, la gloria, l’alleanza, la legge e le promesse. Da esso discendeva la natura umana di Cristo (Rm 9, 1-5). Purtroppo, i suoi politici e i suoi teologi disconobbero le promesse e consegnarono alla morte Colui che aveva avuto dal Padre il compito di adempierle. Perciò, secondo San Marco, l’ultima parola che Gesù rivolse pubblicamente al popolo ebraico è una parala di giudizio (Mc 12, 40). La massa, in antitesi con le sfere dirigenti, ostili fin da principio, tributò a Cristo per molto tempo affezione e onore, pur non intendendo il senso più profondo della Sua opera. L’opinione pubblica gli era in così alta misura favorevole, che i sommi sacerdoti non ardivano di arrestarlo e giustiziarlo in pubblico, per timore di una sollevazione popolare (Mc 11 18-32; 14, 11; Lc 22, 1; Mt 26, 5). Essi vedevano il pericolo che sotto l’influsso dei suoi prodigi tutti credessero in Lui, si piegassero alle Sue pretese messianiche e si sottraessero alle loro guide tradizionali. Quindi Egli doveva morire (Gv 11, 46-50). Ma prima di poterlo giustiziare bisognò cambiare l’opinione pubblica. Dopo molti falliti tentativi di comprometterlo clamorosamente, riuscì ai capi di sollevare la passione della massa contro Cristo, allorché Pilato in mancanza d’altre risorse, nel suo desiderio di liberarlo propose di scegliere tra la libertà dell’assassino politico Barabba, che evidentemente era una figura popolare, e quella di Cristo. Così, tutto il popolo partecipò al delitto dei capi e fu coinvolto nella medesima responsabilità. Al momento decisivo coscientemente prese su di sé la colpa, con tutte e le sue conseguenze (Mt 27, 25). Nell’esecuzione di Cristo l’intero popolo sigillò il ripudio del messaggio divino che doveva portargli il compimento delle divine promesse e si pose così sotto il giudizio che sovrasta a chiunque per incredulità rigetti Cristo (Gv 3, 18 e ss.). Gerusalemme mancò la sua ora (Lc 13, 25-30; 14, 24; 19, 39-48; Gv 12, 37; Mt 12, 9-14; 1 Ts 2, 14-16; 2 Cor 11, 22). Il giudizio incominciò con la rovina di Gerusalemme e proseguì lungo la Storia dell’umanità. Il popolo che sta sotto la maledizione di Dio non può vivere e non deve morire. Così vede San Paolo la posizione del suo popolo che egli ama e la cui sorte rappresenta per lui un grave dolore. I primi otto capitoli della Lettera ai Romani culminano nell’inno di vittoria degli eletti (8, 37 e ss.). Segue un silenzio, il grosso iato della lettera. San Paolo rimane in ascolto intorno a sé come un naufrago che si è salvato con pochi altri su una piccola imbarcazione, mentre in giro la notte è riempita dalle grida strazianti di aiuto di coloro che annegano. Dopo avere ascoltato a lungo, silenziosamente, l’Apostolo prosegue con la confessione di fedeltà a Israele: «Io porto nel cuore un grande dolore e un incessante lamento» (Rm 9, 2; Ez 9, 4; Mt 5, 4). Quindi, si leva la speranza sicura della vittoria: non sarà sempre così. «Gli atti di Dio relativi alla storia d’Israele non sono ancora chiusi» 40. La parola divina della promessa non è diventata inefficace per la ribellione del popolo eletto (Rm 9, 6). Giacché infine non tutto il popolo è indurito e rigettato, una parte, un «resto» si è rivolto con fede al Signore. Questa parte non è respinta. Perciò si può dire: «Dio non ha rigettato il popolo che ha prescelto» (12, 2; 9, 6-27; cfr. l’intero passo 11, 1-6). Le promesse si sono adempiute nei pochi che hanno creduto a Cristo. Questi sono divenuti il nucleo fondamentale della comunità di coloro che arrivano alla fede dal paganesimo. Così si è conservato il nesso storico tra l’antico e il nuovo apparso in Cristo. La salvezza, è vero, non è più legata ad Israele (Mt 3, 9; Lc 3, 8). Il nuovo popolo di Dio non viene radunato dalla cerchia dell’antico popolo eletto, ma dai popoli gentili. Gerusalemme, la città di Dio, non è più il punto centrale dominante del nuovo ordine; tuttavia, essa rimane il suo punto di partenza (Rm 11, 16-24; 2 Cor 8, 14; Gv 4, 22). Il resto d’Israele salvato è divenuto la radice dell’albero in cui gli uccelli del cielo trovano il loro rifugio. Sull’albero cresciuto dalla radice del Vecchio Testamento sono stati innestati i nuovi rami, i popoli gentili. Dio stesso ha piantato la radice. Egli non interrompe l’opera che ha incominciato, ma conduce al suo fine attraverso tutti gli umani ricalcitramenti (Rm 11, 11-24). Questo è il primo motivo di speranza per l’Apostolo. Il secondo è il seguente: se anche la maledizione accompagna lungo la storia il popolo che, ad eccezione di un resto, ha apostatato e chiama su di lui giudizio sopra giudizio, un giorno essa avrà fine. La maledizione ha una scadenza, perché anche l’indurimento ha una scadenza. Un giorno, il popolo ebraico troverà e seguirà la via verso Cristo. Se nonostante la sua disperazione tra cento altri popoli esso è da Dio conservato per la maledizione, come un segno del divino giudizio, esso è contemporaneamente conservato come segno della benedizione divina, che alla fine supererà la maledizione. Allora si compiranno in esso tutte le promesse fatte sin da principio, le quali non si sono potute realizzare per la sua resistenza. Allora si rivelerà l’amore di Dio per tutto il popolo convertito, non solo per un resto. «Perché i doni di grazia e la chiamata di Dio sono irrevocabili» (Rm 11, 29). La sordità e la cecità avranno fine allorché la pienezza dei gentili sarà entrata nel regno di Cristo (Rm 10, 8; 11, 25). Allora cesserà quello stato che la ragazza ebrea in Le Père humilié di Claudel descrive come suo proprio: «Molta acqua ci vuole per battezzare un giudeo! Non si depone così facilmente l‘abitudine vecchia di tanti secoli. Mi sembra di trascinare con me tutti i secoli dalla creazione del mondo. L’abitudine dell’infelicità, la laida familiarità col proprio ripudio. Era stata così lunga l’attesa, che non ci riuscì di trovare un altro atteggiamento; così grande la fede nella promessa non ancora adempiuta che non potemmo credere quando ci si disse che era quello».
La conversione e la salvezza del popolo eletto è legata al compimento del numero dei gentili. Allorché questo sarà raggiunto, verrà tolta la benda ora stesa sugli ciechi del suo cuore, per cui il popolo non riconosce Cristo (2 Cor 3, 15). Allora gli ebrei arriveranno ultimi là ove avrebbero potuto essere i primi (Mt 19, 30; 20, 16; Mc 10, 31; Lc 13, 30). Come i gentili devono sentirsi dire: «La salvezza viene dai giudei» (Gv 4, 22), così alla fine i giudei dovranno sentirsi dire che la salvezza definitiva è legata alla salvezza dei gentili. E cosi l’intero Israele verrà salvato (Rm 11, 26). Alla fine, con questo atto salvifico, Dio, il quale è il Dio dei padri, rivelerà la sua fedeltà rimasta vittoriosa attraverso la storia dell’infedeltà umana. Cristo non apparirà per la seconda volta, finché questo evento non sia realizzato. Allorché esso sarà intervenuto, sì adempierà ciò che Dio promise per mezzo di Isaia: «Da Sion verrà il Salvatore (Is 59, 20). Allora avranno fine i mali che Cristo minacciò e si avvererà la sua promessa: «Gerusalemme Gerusalemme, che uccidi profeti e lapidi coloro che sono a te inviati, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figlioli come la gallina raccoglie i suoi pulcini sotto le ali, ma voi non avete voluto! Ecco si lascia a voi la vostra casa deserta. Poiché io vi dico: d’ora innanzi più non mi vedrete finché diciate: «Benedetto chi viene nel nome del Signore»! (Mt 23, 37-39; Lc 13, 33-35; Sl 118; Sl 119, 26). Ogni qualvolta nella celebrazione eucaristica si pronuncia questa parola si anticipa quell’ora in cui il popolo d’Israele acclamerà al Signore, al Suo nuovo ingresso nel mondo. Una volta, allorché Egli entrò in Gerusalemme per la passione, acclamò a Lui una piccola parte del popolo (Mc 11, 10; Mt 21, 9), e nemmeno questa parte tenne fermo nei suoi sentimenti. Alla fine, al Suo ingresso pubblico nel mondo, il popolo intero acclamerà al suo trionfo.
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Nihil obstat quominus imprimatur
__________
Romæ, die 29 decembris 1960
(Fr. Ioannes Baptista A. Farnese)
Minister Provincialis O. F. M. Cap.
Imprimatur
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Verulis, die 20 novembris 1961
+ Carolus Livraghi
Ep.us Verulan – Frusinaten
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