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domenica 23 ottobre 2011

Intervista a Monsignor Gherardini: "Non dico che la consacrazione delle specie eucaristiche venga con ciò resa impossibile; mi limito a dire che le due forme non concordano sull’essenziale e che questo non è a pari titolo incluso nell’una e nell’altra".

 


Intervento di Mons. Brunero Gherardini (1) – Canonico Vaticano
Su: “Quod et Tradidi Vobis”- La tradizione vita e giovinezza della Chiesa.
Sabato 20 novembre 2010
Presso: Aula Magna – Facoltà di Filosofia – Studio Domenicano – Piazza San Domenico 13 – Bologna
Incontro organizzato da: Centro Studi “Vera Lux” - Bologna-Ozzano

"Vetus Ordo Missae": la vera Messa Cattolica che i modernisti hanno cercato di cancellare con l'evento del rito, assolutamente non Cattolico, del "Novus Ordo Missae"... 

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Non illudetevi, signori. Le piaghe atroci che voi avete aperto nel corpo della Chiesa gridano vendetta al cospetto di Dio, giusto Vendicatore...

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Fonte. Chiesa e post concilio...
CATHOLICA – Sembra giusto distinguere tra l’opportunità di accentuare tale o tale aspetto della dottrina, anche cercare il vocabolario più adatto alla società a scopo di evitare ogni fraintendimento, secondo la diversità dei tempi, delle culture, ecc. Ci sono anche problemi nuovi, o ancora problemi scomparsi: penso alla condanna della balestra, che non ha più senso attuale. Non è vero?


BRUNERO GHERARDINI – La mia risposta sarà certamente più lunga di quella che forse, caro Direttore, aveva prevista. Necessariamente più lunga. La domanda mi viene rivolta dopo l’ipotesi di “due epoche radicalmente diverse nel corso della modernità”. Ma, su argomenti dottrinali come quelli che mi sono stati sottoposti, non posso rispondere in base ad una semplice ipotesi. Se infatti non si sa che cosa sia la modernità, sarà molto difficile stabilire i confini fra “due epoche radicalmente diverse”.
E il difficile sta proprio qui: che cos’è la modernità?

Charles Taylor, in una serie di scritti l’uno più interessante dell’altro, all’interno dei quali si dichiara contro Nietzsche, Foucault e Derrida,
  1. non identifica la modernità con la crisi della memoria e dell’immaginazione, con un pericolo per la Fede ed ancor meno con l’attuale linguaggio postmoderno, ma
  2. v’intravede in genere qualcosa di più profondo di pure e semplici opinioni sulla personalità, la coscienza, la società, la natura, il mondo, ed in particolare su ciò che cambiò la vita culturale politica ed ecclesiale nel 18° sec. e che caratterizza pure il presente.
Non che quella di Taylor sia l’unica idea di modernità, ma essa consente di leggere sul suo stesso sfondo la ben nota allocuzione papale del 22 dicembre 2005, alla quale lei si e mi richiama. E di leggerla non tanto limitatamente, come troppo spesso si fa, alla contrapposizione di due ermeneutiche antitetiche (continuità/discontinuità, riforma/rottura), quanto con riferimento all’apparente contrasto fra principi permanenti e situazioni mutevoli. Quel contrasto, lasciando inalterati i principi permanenti, pone in evidenza le situazioni storico-sociali e culturali d’una modernità che fu laicista ed antioscurantista (leggi antiecclesiale) fin al Vaticano II ed assunse connotazioni se non di coincidenza almeno di “compossibilità” col messaggio conciliare, soprattutto là dove l’accento cadeva sull’antropocentrismo e la laicità in funzione dichiarativa e difensiva della c.d. autonomia del creaturale.
A prima vista tutto ciò può sembrare legittimo, ma ignora il fatto che quel creaturale non è un assoluto, segnato com’è dalla contingenza che lo rapporta con un principio superiore estrinseco. Volendo insistere sulla sua legittima autonomia, si dovrà pertanto aggiungere “relativa”. Metafisicamente parlando, infatti, il creaturale è solo relativamente autonomo, in corrispondenza alla sua creaturalità e alle leggi che ne regolano comportamenti e sviluppo e che, in quanto tali, dipendono dalla volontà che pose in essere il creaturale stesso. Se “il senso” dell’autonomia lo caratterizza, non ne deriva, come si vede, che si tratti d’un’autonomia in assoluto.
Forse sta qui la distinzione tra moderno e postmoderno: nel primo l’autonomia è, sì, fortemente accentuata, ma non assolutizzata come nel secondo. L’Allocuzione del 2005 si snoda sulla scia del moderno, ma la maggior parte dei teologi postconciliari l’ascolta come eco del postmoderno e assunzione di esso. Non ci si rende conto che una tale autonomia, in quanto è il nucleo teoretico della modernità e soprattutto della postmodernità, ha origini kantiane, vale a dire “entro i limiti della sola ragione” e da tali origini pedissequamente ripete i diritti d’un mondo ormai maturo – “die Mündigkeit der Welt” – e la sua “liberazione dal sacro”. Lo riconobbe onestamente E. Bethge, il biografo di D. Bonhoeffer (Monaco 1967, p. 973) quando scrisse: “Aufklärung ist der Ausgang des Menschen aus seiner selbstverschuldeten Unmündigkeit. Unmündigkeit ist das Unvermögen, sich seines Verstandes ohne Leitung eines anderen zu bedienen“ (L'illuminismo è l'uscita dell'uomo da uno stato di minorità il quale è da imputare a lui stesso. Minorità è l'incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro - ndR). All’influsso kantiano va aggiunto quello feuerbachiano, sia nel suo esito di umanesimo ateo, sia in quello che coincide con la scomparsa (“Schwund”) della coscienza cristiana. L’attuale e superficiale affermazione: “questo non è più peccato” è una dimostrazione lapalissiana che modernità e postmodernità han raggiunto quei limiti.
A questo punto, non perché abbia premesso tutto quello che avrei da dire, ma perché di esso ho detto almeno l’essenziale, posso rispondere alla sua domanda. Sì, dobbiamo farci un dovere d’evitare ogni fraintendimento, cercando le parole esatte per non cadere in equivoci e per esser sicuri di venir capiti. Se non che l’ unico modo per raggiunger un tale scopo non è quello di piegarsi alla mentalità kantiana e feuerbachiana della modernità e della postmodernità: ciò sarebbe un tradimento. Ma quello della fedeltà assoluta alla propria identità cristiano-cattolica, opportunamente spiegata a chi non ne conosce più nemmeno il linguaggio, per fargli riscoprire la realtà del messaggio evangelico e la gioia d’aderire ad esso.

In quale misura la distinzione tra principii permanenti e dottrine di validità temporanea (le cosidette “forme concrete”) potrebbe essere fondata nella tradizione teologica? Ci sono dei precedenti? E s’è il caso, come spiegarlo, e sopra tutto, con quale criterio? [Si evoca per es. la condanna del prestito a interesse, poi accettato]. Variante: è possibile cambiare ottica secondo l’opportunità (vedere le cose secondo un aspetto nell’ottocento, vedere altro aspetto — e classificare la prima ottica – dopo… ?


Mi pare che la Tradizione stessa coincida esattamente con il contenuto della domanda. Non tutt’i principi della dottrina cattolica son permanenti, né tutti legati ad un determinato momento storico e destinati a decadere con esso. Ci sono gli uni e ci sono gli altri: i primi in funzione fondativa della realtà cattolica e pertanto irrinunciabili e non negoziabili per nessun motivo; gli altri segnati dalla provvisorietà della loro incidenza sulla vita e le scelte della Chiesa. Poiché costituiscono il motivo formale dell’esser cattolici e del pensare da cattolici, non ci sarà mai, non potrà mai esserci una ragione debitamente proporzionata per dichiarar i principi permanenti decaduti dalla loro funzione fondativa; qualora ciò avvenisse, potrebbe verificarsi solo nell’ipotesi d’una Chiesa altra da quella cattolica.
La Tradizione è il coestendersi inalterato ed inalterabile di codesti principi, dalla morte dell’ultimo Apostolo alla parousìa del Signore Gesù, e su un tale coestendersi si gioca l’identità stessa della Chiesa. Non è infatti il soggetto-Chiesa che rende permanenti i detti principi, ma sono questi stessi principi che assicurano e confermano l’identità della Chiesa, la sua vita e la sua perenne giovinezza.
E’ vero, ci furono e potranno sempre esserci forme concrete d’insegnamenti legati al tempo e alle sue particolari problematiche. Gli esempi addotti – il prestito, la pena di morte, la guerra ed altro ancora – furon effettivamente oggetto d’interventi magisteriali che, in processo di tempo, vennero o modificati fin al loro contrario, o negati. Mi si chiede con quale criterio; la risposta mi sembra intuitiva: perché si tratta d’insegnamenti non dogmatici, che tali non potranno mai diventare in base al fatto che, fin dal IV sec. con san Cirillo Gerosolimitano e san Gregorio Nisseno, per dogma s’intende una verità di fede definita. Una di quelle, cioè, che la Chiesa dichiara contenute nel sacro deposito delle verità rivelate ed ininterrottamente presenti nella Tradizione ecclesiale e definisce perciò come verità della Fede cattolica, “di per sé irriformabili” e dogmaticamente obbligatorie per ogni cattolico.
Il criterio delle modifiche o addirittura dell’abbandono d’un precedente insegnamento ecclesiale riguarda non il dogma che, per natura sua non subisce immutazioni intrinseche e sostanziali, ma ogni intervento su materia e per motivi contingenti, passati i quali, o trasformatisi, vien meno la ragione formale dell’intervento stesso. Ciò, ovviamente, non è un cambiamento di prospettiva o di ottica della Fede, la qual cosa ne sarebbe anche la tomba, ma un cambiamento dell’impatto che la Fede stessa ha con i fenomeni del transeunte, la qual cosa fa parte del suo concreto innesto con la realtà del creato e con la sua storia.

A proposito delle dottrine (dei principii) intrinsecamente associate a situazioni mutevoli: in che misura tale concezione sarebbe diversa del relativismo culturale introdotto in particolare nella filosofia da Dilthey, in teologia da Schelling e Schleiermacher, e oggi così di moda con l’ermeneutica di Gadamer o le teorie della “narrazione”, ecc. ? Dove la frontiera, se c’è?


La sua domanda è molto più complessa di quanto possa a prima vista apparire. E forse sarà bene non cedere alla tentazione d’una risposta globale. Procederò pertanto di problema in problema, dicendo a riguardo d’ognuno quanto a me sembra opportuno o doveroso dire, ma senza la pretesa dell’ultima parola, specie là dove la critica storica e storico-teologica non può esser apodittica.
Inizio dalle “dottrine o principi intrinsecamente associati a situazioni mutevoli”. A mio avviso, non esistono. Ciò che merita d’esser detto in senso univoco “dottrina cattolica” e “principio permanente” non potrà mai esser “intrinsecamente associato” al mutevole. Tutto infatti è mutevole, la storia stessa lo è; ma la dottrina cattolica non ne fa parte; è in essa, ma non organicamente ad essa associata: la trascende, appartiene ad una sfera qualitativamente diversa, con la quale non entra mai in vera e propria simbiosi.
Ben altro è il discorso relativo non alla “dottrina cattolica ed ai suoi principi”, l’una e gli altri irriformabili, bensì ad interventi magisteriali sulle mutevoli contingenze storiche – sociali culturali politiche -; in tal caso l’intervento ha la stessa connotazione di provvisorietà che ha pure il suo stesso oggetto: se questo si modifica o se vien meno, si modifica o s’interrompe l’istanza dell’intervento stesso. Proprio su questo punto l’allocuzione papale del 22 dicembre 2005 – sia detto con tutt’il dovuto rispetto – lascia alquanto perplessi. Manca infatti in essa la distinzione da me poco prima rilevata. La distinzione, intendo, tra ciò che, appartenendo alla Rivelazione recepita e trasmessa, è per sempre, e ciò che invece è soltanto in relazione alla provvisorietà di certi eventi e di certe situazioni. Ritorno all’esempio altre volte rilevato: tanto La Gaudium et spes quanto la Dignitatis humanæ non potran mai diventare il “contro Sillabo”, sia perché gli errori condannati dal Sillabo non erano un’emergenza del momento, tant’è che oggi son più radicati e più diffusi d’allora, sia perché non si trattò d’un intervento provvisorio, ma fu la proclamazione d’un magistero perenne.
Pertanto, se talvolta la Chiesa attenua il valore dei suoi interventi provvisori o addirittura li dichiara non più pertinenti alla contingenza storica che li aveva provocati, la ragione non è quella del relativismo culturale, chiunque ne sia il vero iniziatore ed il vero teorizzatore. E tanto meno attenuazione e cancellazione attengono al detto relativismo.
Si sa quanto sia non facile la determinazione concettuale del relativismo. Esso potrebbe forse collegarsi, secondo l’insegnamento che A. Levi diffuse fin dal 1906, con la celebre frase di Protagora: l’uomo è la misura di tutte le cose. Se la misura è l’insieme delle sue sensazioni, queste son l’effetto di due moti: quello della cosa percepita e quello dell’organo di senso che la percepisce. Ne deriva che la sensazione è sempre relativa al rinnovarsi di quei due moti, non è mai la stessa e non è mai vera se non nel momento del suo effettuarsi. Oggi si dà al termine un significato più generale e metafisico, quello d’ogni dottrina che risolve la realtà in relazioni più o meno costanti fra i vari fenomeni, portando in tal modo il relativismo ai bordi dell’attualismo, del fenomenismo, della relatività gnoseologica. Più recentemente ancora relativismo è diventato sinonimo d’adogmaticità, anche dei principi religiosi o morali, tutti ugualmente - e quindi tutti relativamente – validi, con la conseguenza che la conoscenza dell’assoluto sarebbe un’assurda pretesa. E la dogmatizzazione di tale pretesa, una violenza. Le conseguenze sulla sfera del bene e del male son sotto gli occhi di tutti.
Non saprei dire se alla base di codesto slittamento antidogmatico ci sia l’uno o l’altro degli Autori da lei ricordati: p. es., perché dimenticare Kant e la sua negazione della conoscenza della cosa in sé? Dai suoi studi su Schleiermacher, cui dedicò soprattutto gli anni 1867-1870, risulta che W. Dilthey teorizzò la realtà storico-sociale come un gioco di relazioni, la qual cosa non coincide col relativismo. La sua Erlebnis (esperienza) e la sua Weltanschauung (visione del mondo) parlano della condizione umana rivissuta attraverso la connessione di vita, espressione e intendimento, ma non d’un vero e proprio relativismo.
Quanto a Schelling, pur ricordando che l’essere stesso è da lui concentrato nell’Io come atto eterno e non concepito nel tempo, non si può dimenticare che nella sua seconda maniera l’essere non è più atto ma natura, è Dio in quanto Signore dell’essere, ch’egli limita e condiziona perché lo possiede originariamente, e limitandolo pone al di fuori di sé una serie necessaria di correlati di Dio. Ma la correlazione non è relativismo.
Ho studiato direttamente Schleiermacher dop’averlo indirettamente appreso dalla critica barthiana; di lui posso dire e riconoscere che fu l’iniziatore della Liberaltheologie e sottolineò fortemente l’imparentarsi dell’insegnamento ecclesiale con la geltende Lehre (insegnamento attuale) del momento; ma nemmeno questo è vero relativismo. Non conosco direttamente Gadamer; so tuttavia ch’egli oppone alla pretesa d’universalità ed assolutezza delle scienze naturali una pre-interpretazione filosofica della verità, che sfugge a qualunque processo puramente scientifico. Ma anche se costoro ed altri pure fossero gli assertori del moderno relativismo, una cosa dovrebb’esser a tutti chiara: in nessun modo ed in nessun senso s’evidenziano segni di relativismo nella dottrina della Chiesa: non in quella dogmatica, per la sua assolutezza ed universalità; non in quella provvisoria, che ha il suo perché nella provvisorietà stessa dell’intervento. Che poi il relativismo sia spesso scambiato con l’indifferentismo, con il modernismo, con l’apertura al mondo, con lo stesso dialogo, è facile. E che proprio questo s’avverta in non poche decisioni conciliari e postconciliari non sarò io a metterlo in dubbio.
Concretamente, che ne è della dottrina della regalità sociale di Cristo? Se facciamo la distinzione tra dottrina permanente e dottrine intrinsecamente legate a situazioni storiche particolari ed eterogenee, possiamo reinterpretare questa dottrina in termini sia individuali (“Re dei cuori”, dunque Re… privato) sia escatologici (il trionfo finale di Cristo); in questo caso, il discorso di Pio XI nella Quas Primas sarebbe il punto ultimo e finale della dottrina particolare alla fase moderna-laicista, e la dichiarazione DH, il punto iniziale di una formulazione dal tutto nuova.


Caro Direttore, sta mettendo il dito sulla piaga. Non che le precedenti domande ne fossero troppo distanti, ma ora ho l’impressione che la sua mano sia già tutta dentro. Non che me ne dispiaccia, ci vedo anzi un invito a prender il toro per le corna. Ed ovviamente non mi tiro indietro. Mi pare, inoltre, che nella sua domanda si colga una non velata amarezza per il venir meno della dovuta attenzione ad un merito tutto francese: l’istituzione della festa liturgica di Cristo Re. E’ indiscutibilmente certo che non avremmo avuto la “Quas primum” (11 dic. 1925) di Pio XI se non ci fosse stato l’intenso lavoro di sensibilizzazione e di preparazione della oggi ingiustamente dimenticata Marthe de Noaillat. Onore al merito!
Come modesto cultore di teologia, credo di poter dire che la dottrina sulla regalità sociale di Cristo non fa parte per nessun motivo di quella provvisorietà sulla quale mi son prima soffermato: la “Quas primum” la sancisce ponendola in relazione non a questa o quell’emergenza storica, ma alla persona stessa di Cristo nella sua integrità umano-divina. Non esclude che Cristo regni, in senso metaforico, nella mente, nella volontà e nel cuore degli uomini (AAS 18, 1925, 595); ma sottolinea il senso proprio del suo regno in relazione sia a Cristo uomo, che dal Padre ebbe “potestatem et honorem et regnum”, sia al Verbo che tutto ha in comune con la Triade sacrosanta (Ibid. 596). C’è dunque una regalità di Cristo non solamente celeste, per la “circuminsessione” delle tre divine Persone, ma anche sociale, che compete a Cristo per diritto originario (come Creatore) e per diritto acquisito (come Redentore).
Su questa regalità è sceso il silenzio, conseguente ad alcune premesse, prime fra tutte quelle dell’antropocentrismo conciliare che sostituì l’uomo a Dio e al Signore Gesù, e dell’irenismo che ispirò i documenti del Vaticano II e fece del pluralismo religioso il nuovo “dogma” nel quale ogni religione può trovare la sua giustificazione.
Chi ritenesse eccessiva una tale considerazione del Vaticano II dovrebbe leggere, sganciandosi dall’esaltazione acritica fin ad oggi imperante, tutti i suoi sedici documenti e le allocuzioni papali di Giovanni XXIII e di Paolo VI che l’accompagnarono. I temi di fondo, contrassegno ed espressione dello “spirito” del Concilio, son l’uomo e il pluralismo: la dichiarazione “Dignitatis humanæ” dà ad ogni religione lo stesso diritto ad un riconoscimento sociale che inevitabilmente si risolve in uno scacco a Cristo.
Per convincersene ancora di più, si dovrebbe spostare l’attenzione dai documenti conciliari a colui che ne fu il massimo e più fedele interprete, come anche di recente è stato autorevolmente dichiarato: il beato Giovanni Paolo II. L’unico valore unificatore del suo pontificato fu il Vaticano II e, con riferimento al suo contenuto, l’uomo: “ogni uomo, lo sappia o no”. La sua unica preoccupazione, il valore trascendente della persona umana. La ragione secondo lui fondamentale della Chiesa e della società civile, l’uomo. La ragion d’essere d’ogni attività pubblica, religiosa e civile, l’uomo. Per l’uomo ed i suoi diritti scrisse il suo ben noto decalogo per la pace. Perfino il Natale divenne per lui “la festa dell’uomo”.
E in funzione dell’uomo considerò ogni religione, fondandone un incoercibile diritto alla libertà, privata e pubblica, sulla dignità e i diritti dell’uomo. Scrisse e pronunciò ditirambi non sulla signoria sociale di Cristo – che ovviamente sarebbe risuonata come una stonatura – ma sulla convivenza pluralistica delle religioni, le cui “differenze culturali ed etnico-religiose” sarebbero “un dono da tutelare” in conformità “al divino progetto dell’unità nella diversità”.
C’è un’eco, in tutto ciò, di quel che Schleiermacher dichiarò, stando alla critica barthiana sul rovesciamento antropocentrico della signoria di Cristo: “…in dem Gegenüber von Gott und Mensch eine Dunkelheit Platz gegriffen hat, in der alle erkennbaren Zeichen daraufhin deuten, daß hier der Mensch insofern allein auf dem Platz geblieben ist, als er allein hier Subiekt, Christus aber sein Prädikat geworden ist” (Nel faccia a faccia di Dio e uomo è calata un'oscurità dove tutti i segni riconoscibili significano che qui l'uomo è rimasto solo sul posto, nella misura in cui qui è solo lui soggetto; Cristo invece è divenuto il suo predicato - ndR). (BARTH K, Die protestantische Theologie im 19. Jahrhundert, Zollikon-Zurigo 19522, p. 424). Che in un siffatto contesto il riconoscimento di Cristo re e del suo regno sociale si sia prima affievolito e poi spento nel cuore stesso dei fedeli, è più che naturale. Verrebbe proprio da ripetere: “Ils l’ont decouronné”
A proposito di DH, sembra che sia stato preso in considerazione – forse nel quadro dei “segni del tempo” – lo Zeitgeist: l’attenzione generale alla coscienza (supposta morale) che sarebbe stata generalizzata, alla differenza del passato. Questo sarebbe un elemento decisivo di “cambio di situazione”? In qualità di teologo particorlarmente attento alla nozione di Tradizione, come Lei valuta questo metodo (la sensibilità del mondo essendo distinta della pacifica ed universale credenza dei fedeli, allorche qui sarebbe piuttosto la concezione dominante degli eterodossi: cfr. “… riconoscendo e facendo suo con il Decreto sulla libertà religiosa un principio essenziale dello Stato moderno…”)?


Ora il dito non è più soltanto dentro, ma è andato fin in fondo alla piaga. Che ci sia un modo theologically correct di guardare ai “segni dei tempi” lo insegna, lamentandone la mancanza, anche Mt 16,4: “Voi siete in grado d’interpretare l’aspetto del cielo, ma non siete capaci di giudicare i segni dei tempi”. Gesù rimprovera ai suoi interlocutori di non avere per i tempi messianici – per la presenza e l’opera dell’Inviato del Padre – la stessa capacità interpretativa dimostrata nel congetturare, dagl’indizi metereologici, se ci sarà buono o cattivo tempo. E’ un’analogia.
Anche la presenza attuosa del Verbo incarnato, che si prolunga nella Chiesa e nella sua molteplice sacramentalità, ha i suoi indizi e non mancano i criteri per una loro esatta interpretazione. Certo è che tali indizi non s’identificano affatto con lo Zeitgeist (spirito del tempo), quell’ispirazione di fondo, quella coscienza comune del bene e del male, che non raramente, ed oggi anche di più in piena atmosfera di globalizzazione sociale e politica, culturale e morale, ignora l’uno ( il bene) e favorisce l’altro (il male), quando addirittura non dice che il male stesso è bene. Che una tale coscienza si presenti oggi differentemente dal passato è di solare evidenza; in una situazione di pluralismo religioso e culturale, qual è quello odierno, la pretesa d’uno Zeitgeist che dica oggettivamente “pane al pane e ladro al ladro” è quasi utopistica. Ma nel superamento di codest’utopia sta la correttezza dell’indagine teologica.
Occorre davvero che ci si chieda quale sia – o quale sia stata – la vera ragione della modernità nella quale l’occidente per un verso, e la nostra vecchia Europa per un altro, si son trovati invischiati. Le analisi, a dir il vero, non mancano e quasi tutte mettono l’accento sulla discrasia tra fede e vita, tra Chiesa e società, determinatasi a seguito dell’illuminismo di varia estrazione, ma sempre e comunque causa dell’insorgente modernità. Ultimamente, la modernità che diventa per questo post-moderna, è emersa da un’interpretazione nuova del cristianesimo, quell’interpretazione secolarizzata che accoglie, sì, tutta la verità cristiana, ma solo attraverso il filtro della sua fondazione razionale.
Io pure, in ultima analisi, anche se il mio giudizio non conta nulla, non mi son discostato da una tale linea critica, con riferimento tanto alla Liberaltheologie e alle sue ripercussioni sul modernismo e neo-modernismo, quanto al peso che il modernismo d’ieri e d’oggi, questo forse più pericoloso di quello, esercitò nella detta scollatura del sacro dal profano. Religione e progresso si son dati la mano per raggiungere insieme, e prendervi un ruolo di preminenza, gli avanposti della modernità. In tal modo, lo spirito del mondo, assorbito e burbanzosamente diffuso non dalla solo cultura laicista, ma anche da quella cristiano-cattolica e perfino teologica, ha tolto il respiro spirituale e soprattutto soprannaturale all’anima umana “naturaliter christiana”, alla società civile, alla sua cultura, oltre che, di conseguenza, a larghi strati della compagine ecclesiale. Che poi su tutto ciò gravi anche l’influsso di “Dignitatis Humanæ”, e non solamente quello delle sue interpretazioni a ruota libera, mi sembra fuori discussione.
Il fatto, infine, che codesta Dichiarazione faccia proprio un principio di pertinenza preminentemente statale determina uno sbandamento del Magistero in ambiti non direttamente propri. E’ difficile sostenere un tale sbandamento come una nuova efflorescenza dal vecchio ceppo della Tradizione. Il fatto che la continuità tra ieri ed oggi venga proposta e sostenuta con argomenti d’autorità e non analiticamente dimostrata, mette a dura prova l’obbedienza cristiana, ma non risponde affatto all’esigenza logica d’una continuità evolutiva, basata sull’omogeneo espandersi ed arricchirsi del ceppo originario.

E’ possibile stabilire una relazione tra il metodo seguito a proposito di DH, e altri aspetti dei tempi conciliari e postconciliari (penso alla dottrina delle relazioni tra Cristianesimo e Giudaismo, specialmente sulla questione della conversione; o anche al metodo ecumenico che implicherebbe, per trovare più facilmente una intesa, considerare come zoccolo permanente, o nucleo stabile soltanto il primo millenio)?


La relazione da lei posta sotto il punto interrogativo, quella cioè di “Dignitatis Humanæ” (ma anche d’ “Unitatis redintegratio”, “Nostra Ætate”, “Gaudium et spes”, “Ad Gentes” ed un po’ di tutti i documenti conciliari) è sotto gli occhi di tutti. E’ la relazione che, con i documenti conciliari e con la loro spregiudicata applicazione, mise in evidenza una modalità di rapporti mai prima conosciuta: la modalità dell’irenismo, che da allora si continua a porre in primissimo piano – e forse sarebbe più pertinente dire su un piano esclusivo.
Oggi si è in pace con tutti. La pace è insieme l’idolo da adorare e il criterio da seguire. Non importa né quale pace, né a quali condizioni. Fossero anche quelle in irriducibile antitesi con il Cristianesimo, non importa. Se il Corano dichiara guerra ai cristiani e promette fantasiose ricompense nei cieli a chi li uccide; e se la sua dottrina non ha nulla in comune con la rivelazione cristiana, non importa: “embrasson-nous”, siamo tutti fratelli, tutti figli d’uno stesso Padre.
E se il giudaismo persiste nella sua negazione di Cristo, della Trinità, della redenzione e, in sintesi, della Nuova Alleanza, bazzecole: anche i giudei, come i cristiani e come gl’islamici, son figli di quel medesimo Padre che ci fa tutti fratelli. Via, perciò, il proselitismo, via le conversioni, via la preghiera per le conversioni. Su questa strada dovremmo aggiungere: via la missione, anche se Chiesa e missione coincidono. In effetti, perché mai uno dovrebbe convertirsi, a chi o a che cosa, se tutte le religioni conducono allo stesso fine? In fondo, c’è della logica in tali aberrazioni. Si prenda ad esempio proprio il giudaismo. La questione storica e quella esegetica sono d’una chiarezza cristallina: il giudaismo è il popolo dell’Antica Alleanza, che l’Epistola agli Ebrei considera conclusa con Cristo, col quale s’apre ai giudei e ad ogni altro popolo l’Alleanza Nuova. Se conclusa, non può esser ancor operante, come pervicacemente si continua a sostenere. Se conclusa, significa che solo nella Nuova persiste la volontà salvifica di Dio, i cui disegni e le cui decisioni, grazie appunto alla Nuova, non cambiano. E allora perché, come qualche tempo fa dichiarò il card. Bagnasco, affermare che “la Chiesa non ha alcuna intenzione di pregare per la conversione dei giudei”? Misteri di terzo grado!
Quanto al primo millennio, se lo si guarda non con gli occhi interessati ma poco illuminati degli ecumenisti contemporanei, bensì con gli occhi dei più grandi storici della Chiesa d’ieri e di oggi, esso appare nel segno d’una significativa risposta a Mt 28,20: un’evangelizzazione del mondo intero, un “matheteusate” che faccia d’ogni popolo e d’ogni suo membro altrettanti discepoli della Chiesa, con il preciso scopo della loro conversione, del loro battesimo, della loro eterna salvezza. Ogni altro scopo, perciò, essendo fuori della portata evangelica, potrà esser suggerito da contingenze speciali e provvisorie, ma non giustificato in base alla Rivelazione, né quella scritta né quella oralmente (magisterialmente) trasmessa.



Se facciamo il paragone con l’affermazione che il Novus Ordo missae di Paolo VI e il rito precedente non sono due riti diversi, ma due forme dello stesso rito, siamo di fronte allo stesso metodo inclusivo o no?

Se portiamo la conversazione sulla sponda del metodo e delle sue specificazioni è possibile correre il rischio di smarrirsi. E tuttavia il metodo è necessario, perché presenta la strada che porta al traguardo, a meno che non si tratti di procedimenti elementari non strutturabili metodicamente, e neppure d’azioni casualmente compiute. Il metodo è, di per sé, l’applicazione coerente d’un determinato modo di procedere per raggiungere con morale certezza il fine desiderato. Per stabilire codesto modo di procedere occorre tener presenti alcuni punti di vista: p. es., le regole della logica formale, la qualità dell’oggetto, il suo ambito nei singoli casi d’applicazione metodica, la sua finalizzazione.
Nascono così dei modelli fondamentali di procedimenti metodici: quello assiomatico, per la deduzione di teoremi validi logicamente; quello ipotetico-deduttivo, proprio delle scienze empiriche, che ordina sistematicamente i fenomeni e ne ricerca la spiegazione; quello estensivo con riferimento ai problemi sui quali s’indaga e alle regole con cui l’indagine è condotta; quello inclusivo, il più difficile da concettualizzare, che potrebbe consistere in un vor-Verständnis o precomprensione che collega l’inizio stesso dell’operazione metodica ad una consapevolezza previa dei suoi contenuti in ordine allo scopo da raggiungere.
Io non so se la domanda affidi a questa previa consapevolezza la soluzione del problema se la santa Messa, quella di Paolo VI e quella c. d. - se pur impropriamente - tridentina, sian due forme d’un unico e medesimo rito. Certo, se si sta al valore delle parole con cui Paolo VI presentò la nuova forma senza, almeno formalmente parlando, abolire l’altra, si dovrebbe arrivare a questa conclusione: il rito è unico e due son le sue forme. Egli parlò infatti d’un “ordinamento nuovo” (Novus ordo) rispetto all’ordinamento precedente (o vetus): quindi, sull’asse permanente dell’unico ed identico rito introdusse la specificazione di due distinti ordinamenti.
E Benedetto XVI, rilegittimando l’uso dell’antico ordinamento, ha confermato l’unicità del rito, specificandone le forme in quella ordinaria e quella straordinaria. Sia ben chiaro, è un po’ difficile considerare straordinaria la forma classica, nella quale per secoli e secoli la Chiesa espresse il suo culto pubblico; ma ciò non infirma la dottrina sull’unicità del rito e la duplicità delle forme. Sott’un tale profilo, pertanto, le due forme sarebbero incluse nel rito, ugualmente valide anche se specificate diversamente. Chi tuttavia s’impegnasse in un’analisi rigorosamente critica delle due forme, non avrebbe molta difficoltà a dimostrare che quella presuntamente straordinaria si distacca sostanzialmente, almeno in alcuni passaggi, da quella c. d. ordinaria.
Troppo lungo sarebbe lo scendere alla dimostrazione esauriente dell’asserto; ma anche un solo esempio può confermarlo. Si sa che l’ offerta è parte integrante del sacrificio; ci sono anzi autori che riconoscono il sacrificio già nell’offerta. In tale ottica s’esprimeva l’Offertorio della santa Messa nel Messale riveduto da san Pio V. Vi si raccolsero, infatti, partire dal XIII sec., le varie preghiere offertoriali che costituivano la tradizione liturgica della Chiesa cattolica: la Curia romana le aveva inserite nel proprio Messale e Pio V le estese alla Chiesa universale. Eppure, con il pretesto oltretutto indimostrato e storicamente infondato che si trattasse di formule recenti, nuove, individualistiche e liturgicamente aberranti, la Messa c.d. di Paolo VI abolì l’Offertorio. [vedi, nel blog] Se non che la scienza liturgica ha sempre sostenuto e dimostrato il contrario. Si dispone di manoscritti che comprovano la falsità dell’assunto: il “Suscipe, sancte Pater”, il “Deus, qui humanæ substantiæ”, l’ “Offerimus, tibi Domine”, il testo “In spiritu humilitatis”, il “Veni Sanctificator”, il “Suscipe, sancta Trinitas” son preghiere attestate da manoscritti del sec. IX.
Non c’è bisogno di dilungarsi, dunque, per dimostrare che col nuovo ordinamento venne meno qualche cosa d’intimamente legato all’essenziale ed innestato sulla sua tradizione. Non dico che la consacrazione delle specie eucaristiche venga con ciò resa impossibile; mi limito a dire che le due forme non concordano sull’essenziale e che questo non è a pari titolo incluso nell’una e nell’altra.

Intervista a cura di Bernard Dumont

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