venerdì 8 febbraio 2013
Quando nelle terre di San Marco arrivò il comunismo: un esodo dimenticato...
"Ora non sarà più consentito alla Storia di smarrire l’altra metà
della Memoria. I nostri deportati, infoibati, fucilati, annegati o
lasciati morire di stenti e malattie nei campi di concentramento
jugoslavi, non sono più morti di serie B." (Annamaria Muiesan - Testimonianza)
Centro
studi Giuseppe Federici - Per una nuova insorgenza
Comunicato n. 14/13 dell’8 febbraio 2013, San Giovanni da
Matha
Trencentomila italiani
traditi dal Pci: l’Istria e le foibe macchia nera della sinistra, di Giampaolo Pansa
(Libero del 12/2/2012)
Qualche giorno fa, una
radio mi ha chiesto: «Perché le sinistre italiane non amano ricordare gli
assassinati nelle foibe e l’esodo istriano, fiumano e dalmata?». Ho risposto
d’istinto: «Perché hanno la coscienza sporca». Il giornalista mi rimproverò:
«Dottor Pansa, lei vede comunisti dappertutto!». Gli replicai, sorridendo: «Non
dappertutto, per fortuna. Ma in quella vecchia storia c’erano, stia sicuro».
Nel Giorno del
Ricordo, l’altroieri, sono state rammentate soprattutto le vittime delle foibe
di Tito, quasi niente la tragedia dei trecentomila italiani costretti ad
andarsene dall’Istria, dal Quarnaro e dalla Dalmazia. Nel complesso, l’esodo
durò una decina d’anni. Ma ebbe un picco all’inizio del 1947, quando il
Trattato di pace, imposto all’Italia dai vincitori, stabilì che le terre
italiane sulla costa orientale dell’Adriatico dovevano passare alla Jugoslavia.
Perché tanta gente se
ne andò? Ridotti all’osso, i motivi erano tre. Il più importante fu il terrore
di morire nelle foibe com’era già accaduto a tanti altri italiani. Il secondo
fu il rifiuto del comunismo come ideologia totalitaria e sistema sociale. Il
terzo fu la paura speciale indotta dal nazional-comunismo di Tito e dalla
decisione di soffocare con la violenza qualunque altra identità nazionale.
La prima città a
svuotarsi fu Zara, isola italiana nel mare croato della Dalmazia. Era stata
occupata dai partigiani di Tito il 31 ottobre 1944, quando il presidio tedesco
aveva scelto di ritirarsi. La città era un cumulo di macerie. Ad averla ridotta
così erano stati più di cinquanta bombardamenti aerei anglo-americani. Le
incursioni le aveva sollecitate lo stato maggiore di Tito. Era riuscito a
convincere gli Alleati che da Zara partivano i rifornimenti a tutte le unità
tedesche dislocate nei Balcani. Non era vero. Ma le bombe caddero lo stesso.
Risultato? Duemila morti su una popolazione di 20.000 persone. Molti altri
zaratini vennero soppressi dai partigiani di Tito dopo l’ingresso in città.
Centosettanta assassinati. Oltre duecento condanne a morte. Eseguite con
fucilazioni continue, dentro il cimitero. Oppure con due sistemi barbari: la
scomparsa nelle foibe e l’annegamento in mare, i polsi legati e una grossa
pietra al collo.
Intere famiglie
sparirono. Accadde così ai Luxardo, ai Vucossa, ai Bailo, ai Mussapi. Gli
italiani di Zara iniziarono ad andarsene in quel tempo. Nel 1943 gli abitanti
della città erano fra i 21. 000 e il 24. 000. Alla fine della guerra si
ritrovarono in appena cinquemila. Poi fu la volta di Fiume, la capitale della
regione quarnerina o del Quarnaro, fra l’Istria e la Dalmazia. L’Armata
popolare di Tito la occupò il 3 maggio 1945, proclamando subito l’annessione
del territorio alla Jugoslavia. Da quel momento l’esistenza degli italiani di
Fiume risultò appesa a un filo che poteva essere reciso in qualsiasi momento dalle
autorità politiche e militari comuniste.
L’esodo da Fiume
conobbe due fasi. La prima iniziò subito, nella primavera 1945. Il motivo? Le
violenze della polizia politica titina, l’Ozna, dirette contro tutti: fascisti,
antifascisti, cattolici, liberali, compresi i fiumani che non avevano mai
voluto collaborare con i tedeschi. Bastava il sospetto di essere anticomunisti,
e quindi antijugoslavi, per subire l’arresto e sparire. All’arrivo dei
partigiani di Tito, gli italiani di Fiume erano fra i 30 e i 35. 000, gli slavi
poco meno di 10. 000. I nuovi poteri che imperavano in città erano il comando
militare dell’Armata popolare, un’autorità senza controlli, e il Tribunale del
popolo, affiancato dalle corti penali militari. Dalla fine del 1945 al 1948
vennero emesse duemila condanne ai lavori forzati per attività antipopolari.
Molti dei detenuti non ritornarono più a casa. Ma il potere più temuto era
quello poliziesco e segreto dell’Ozna, il Distaccamento per la difesa del
popolo. A Fiume la sede dell’Ozna stava in via Roma. Un detto croato ammoniva:
«Via Roma - nikad doma». Se ti portano in via Roma, non torni più a casa. In
due anni e mezzo, sino al 31 dicembre 1947, l’Ozna uccise non meno di
cinquecento italiani. Un altro centinaio scomparve per sempre.
Il primo esodo da
Fiume cominciò subito, nel maggio 1945. Per ottenere il permesso di trasferirsi
in Italia bisognava sottostare a condizioni pesanti. Il sequestro di tutte le
proprietà immobiliari. La confisca dei conti correnti bancari. Chi partiva
poteva portare con sé ben poca valuta: 20 mila lire per il capofamiglia,
cinquemila per ogni famigliare. E non più di cinquanta chili di effetti
personali ciascuno. Il secondo esodo ci fu dopo il febbraio 1947, quando Fiume
cambiò nome in Rijeka e divenne una città jugoslava. Ma erano le autorità di
Tito a decidere chi poteva optare per l’Italia. Furono molti i casi di famiglie
divise. Nei due esodi se ne andarono in 10. 000. E gli espatri continuarono.
Nel 1950 risultò che più di 25. 000 fiumani si erano rifugiati in Italia. Per
il 45 per cento erano operai, un altro 23 per cento erano casalinghe, anziani e
inabili. Ma per il Pci di allora erano tutti borghesi, fascisti, capitalisti e
plutocrati carichi di soldi. Provocando le reazioni maligne che tra un istante
ricorderò.
La terza città a
svuotarsi fu Pola, il capoluogo dell’Istria, divenuta in serbocroato Pula. A
metà del 1946 la città contava 34. 000 abitanti. Di questi, ben 28. 000
chiesero di poter partire. Gli esodi si moltiplicarono nel gennaio 1947 e
subito dopo la firma del Trattato di pace. L’anno si era aperto sotto una forte
nevicata. Le fotografie scattate allora mostrano tanti profughi che arrancano
nel gelo, trascinando i poveri bagagli verso la nave che li attende. In poco
tempo Pola divenne una città morta. Le abitazioni, i bar, le osterie, i negozi
avevano le porte sigillate con travetti di legno. Su molte finestre chiuse
erano state fissate bandiere tricolori. Fu l’esodo più massiccio. Dei 34. 000
abitanti se ne andarono 30. 000. Dopo Pola, fu la volta dei centri istriani
minori, come Parenzo, Rovigno e Albona. Le autorità titine cercarono di frenare
le partenze con soprusi e minacce. Ma non ci riuscirono. Da Pirano, un centro
di settemila abitanti, il più vicino a Capodistria e a Trieste, partirono quasi
tutti.
Sfuggiti al comunismo
jugoslavo, gli esuli ne incontrarono un altro, non meno ostile. I militanti del
Pci accolsero i profughi non come fratelli da aiutare, bensì come avversari da
combattere. A Venezia, i portuali si rifiutarono di scaricare i bagagli dei
“fascisti” fuggiti dal paradiso proletario del compagno Tito. Sputi e insulti
per tutti, persino per chi aveva combattuto nella Resistenza jugoslava con il
Battaglione “Budicin”. Il grido di benvenuto era uno solo: «Fascisti, via di
qui!». Pure ad Ancona i profughi ebbero una pessima accoglienza. L’ingresso in
porto del piroscafo “Toscana”, carico di settecento polesani, avvenne in un
inferno di bandiere rosse. Gli esuli sbarcarono protetti dalla polizia, tra
fischi, urla e insulti. La loro tradotta, diretta verso l’Italia del nord,
doveva fare una sosta a Bologna per ricevere un pasto caldo preparato dalla
Pontificia opera d’assistenza. Era il martedì 18 febbraio 1947, un altro giorno
di freddo e di neve. Ma il sindacato dei ferrovieri annunciò che se il treno
dei fascisti si fosse fermato in stazione, sarebbe stato proclamato lo sciopero
generale. Il convoglio fu costretto a proseguire. E il latte caldo destinato ai
bambini venne versato sui binari.
A La Spezia, gli esuli
furono concentrati nella caserma “Ugo Botti”, ormai in disuso. Ancora un anno
dopo, l’ostilità delle sinistre era rimasta fortissima. In un comizio per le
elezioni del 18 aprile 1948, un dirigente della Cgil urlò dal palco: «In
Sicilia hanno il bandito Giuliano, noi qui abbiamo i banditi giuliani».
Rimase isolato il caso
del sindaco di Tortona, Mario Silla, uno dei protagonisti della Resistenza in
quell’area. Quando lo intervistai per la mia tesi di laurea, mi spiegò: «Io non
sono mai stato un sindaco comunista, ma un comunista sindaco». I suoi compagni
non volevano ospitare i mille profughi destinati alla caserma “Passalacqua”. Ma
Silla s’impose: «È una bestialità sostenere che sono fascisti! Sono italiani
come noi. Dunque non voglio sentire opposizioni!».
La diaspora dei
trecentomila esuli raggiunse molte città italiane. I campi profughi furono
centoventi. Anno dopo anno, le donne e gli uomini dell’esodo ritrovarono la
patria, con il lavoro, l’ingegno, le capacità professionali, l’onestà.
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Ricordare e far ricordare i fatti e le verità nascoste da politicanti e da gerarchie ecclesiastiche che considerano disdicevole riportare alla memoria fatti "che potrebbero dividere ancora"
RispondiEliminaEd allora il tacere ed offuscare è diventato il decalogo.
Come tacere dei fatti che precedettero ed accompagnarono il concilio Vat2- detto conciliabolo-.
Così la mancanza di conoscenza e la non memoria possono creare l'uomo nuovo senza passato e senza memoria che può accogliere meglio ogni novità.
Ma c'è chi non ci sta e vuole conoscere e ricordare e c'è chi aiuta a conoscere e ,quindi, poter ricordare, come questo blog !
Avanti, c'è posto per tutti coloro che hanno voglia di sapere e conoscere gli olocausti di cui nessuno vuol parlare.