Le Chardonnet , aprile 2010
(pubblicata sul sito italiano della Fraternità San Pio X)
(i neretti sono nostri)
Don Régis, quale dev’essere la reazione dei fedeli cattolici dopo questi ultimi cinque anni di pontificato? Si deve sempre parlare di uno stato di crisi in seno alla Chiesa?
Ne sono testimonianza tutti i suoi discorsi regolarmente pubblicati ne L’Osservatore romano e nei quali si riafferma continuamente il triplice principio della libertà religiosa (tratto dalla dichiarazione Dignitatis humanae), della laicità degli Stati (tratto dalla costituzione Gaudium et spes) e dell’ecumenismo (tratto dal decreto Unitatis redintegratio), principi che sono in contraddizione formale con l’insegnamento costante e unanime del magistero pontificio anteriore al Vaticano II. Sono questi principi che costituiscono la radice di tutte le conseguenze attuali e – Dio ce ne scampi – forse anche delle future. Fin tanto che il Papa e i vescovi rimarranno attaccati a questi principi lo stato di crisi persisterà nella Chiesa.
Sembra che Lei giudichi molto severamente il Rapporto sulla fede del cardinale Ratzinger. All’indomani delle consacrazioni di Ecône, in un discorso indirizzato alla Conferenza Episcopale Cilena, nel luglio del 1988, non ha egli reagito quanto meno con forza contro la contestazione progressista? Questo discorso, che presentava tutte le caratteristiche di una vera arringa a favore di una certa continuità nella Tradizione, non preannunciava già il discorso del 22 dicembre 2005, che condanna l’ermeneutica della rottura?
Nel 1988, all’indomani delle consacrazioni, la differenza tra il cardinale Ratzinger e Mons. Lefebvre stava nel fatto che, per il secondo, all’origine dei cambiamenti osservabili nei fatti vi sono gli stessi testi del Vaticano II, mentre per il primo vi sono solo «numerose presentazioni che danno l’impressione che col Vaticano II sia cambiato tutto». Vent’anni più tardi, il discorso del 22 dicembre 2005 non ha smentito quanto rivolto alla Conferenza Episcopale Cilena: scartando l’ermeneutica della rottura («numerose presentazioni che danno l’impressione che col Vaticano II sia cambiato tutto»), occorre ritornare ad una ermeneutica della continuità (la lettera del Concilio buono, fuori da ogni abuso). Occorre cioè ritornare ai testi, compreso quello sulla libertà religiosa, poiché questi testi sono ritenuti conformi alla Tradizione.
Questi due discorsi, del 1988 e del 2005, alimentano l’illusione che si possa rimediare alla crisi della Chiesa ritornando alla lettera avvelenata del Concilio. Illusione persistente e funesta.
Ma, Don Régis, anche se la giovinezza teologica di Joseph Ratzinger ha potuto essere influenzata dalla nuova teologia, oggi tutti parlano di un papa agostiniano. Con Benedetto XVI si può parlare apertamente degli abusi che si commettono nella Chiesa a livello dottrinale e liturgico. Benedetto XVI vuole indubbiamente prendere le distanze da Giovanni Paolo II, non crede che bisognerebbe concedergli un po’ di tempo? Parigi non s’è fatta in un giorno, e tantomeno Roma!
Si può ricordare che Benedetto XVI non ha atteso cinque anni per dissipare certe illusioni che la sua reputazione di teologo conservatore avrebbe potuto suscitare. Quando si valuta il cammino percorso in così poco tempo, si può dire che egli non sta certo dietro a Giovanni Paolo II. Il Papa bavarese si è già recato tre volte in una sinagoga, in Germania nel 2005, negli Stati Uniti nel 2008 e infine a Roma, ultimamente, lo scorso gennaio. La visita ufficiale alla sinagoga di Colonia è stata peraltro uno dei primi gesti del nuovo Papa, ad appena quattro mesi dalla sua elezione. In quella occasione, Benedetto XVI ha chiaramente lasciato intendere che l’opposizione tra Nuovo e Vecchio Testamento deriva da questioni teologiche ancora discusse [3], come se per i Giudei il rifiuto del principio stesso della salvezza, il rifiuto di riconoscere in Gesù Cristo la Persona divina del Verbo Incarnato, costituisse una opzione in fondo legittima.
E questa prima iniziativa del 2005 fu seguita dalla visita alla chiesa scismatica di San Giorgio al Fanar, a Istanbul, il 29 novembre 2006, dalla preghiera nella Moschea blu di Istanbul, il 30 novembre 2006, dalla riunione ecumenica di preghiera a Napoli, il 21 ottobre 2007 [4]. Nel corso di quest’ultima riunione, il Papa esordì dicendo: «L’odierno incontro ci riporta idealmente al 1986, quando il venerato mio Predecessore Giovanni Paolo II invitò sul colle di San Francesco alti Rappresentanti religiosi a pregare per la pace, sottolineando in tale circostanza il legame intrinseco che unisce un autentico atteggiamento religioso con la viva sensibilità per questo fondamentale bene dell’umanità». E aggiunse: «Nel rispetto delle differenze delle varie religioni, tutti siamo chiamati a lavorare per la pace».
Tutto questo non ha niente di sorprendente se si guarda alle dichiarazioni rilasciate dal Papa nell’intervista alla televisione polacca, il 16 ottobre 2005: « Io considero proprio una mia missione essenziale e personale di non emanare tanti nuovi documenti, ma di fare in modo che questi documenti [di Giovanni Paolo II] siano assimilati, perché sono un tesoro ricchissimo, sono l’autentica interpretazione del Vaticano II. Sappiamo che il Papa era l’uomo del Concilio, che aveva assimilato interiormente lo spirito e la lettera del Concilio e con questi testi ci fa capire veramente cosa voleva e cosa non voleva il Concilio» [5].
Una cosa dunque è certa: Benedetto XVI non è prossimo a prendere le distanze da Giovanni Paolo II, quanto meno per quel che riguarda l’essenziale di ciò che provoca la crisi della Chiesa. Per il tramite dei suoi predecessori, è l’eredità di tutto il Concilio che gli s’impone.
Vi è stato, quanto meno, un elemento largamente positivo nel corso di questi primi cinque anni di pontificato: il Motu Proprio Summorum Pontificum del 7 luglio 2007.
È un po’ la stessa cosa con questa politica liturgica di Benedetto XVI.
D’altronde, è lo stesso Papa che lo dice, egli non si nasconde: questo Motu Proprio mira solo a stabilire un certo regime di tolleranza liturgica. «questo Motu Proprio è semplicemente un atto di tolleranza, ai fini pastorali, per persone che sono state formate in quella liturgia, la amano, la conoscono, e vogliono vivere con quella liturgia. È un gruppo ridotto poiché presuppone una formazione in latino, una formazione in una cultura certa. Ma per queste persone avere l'amore e la tolleranza di permettere di vivere con questa liturgia, sembra un’esigenza normale della fede e della pastorale di un vescovo della nostra Chiesa. Non c'è alcuna opposizione tra la liturgia rinnovata del Concilio Vaticano II e questa liturgia» [6].
Ed è qui che sta propriamente l’errore: contrariamente a ciò che afferma Benedetto XVI, vi è proprio un’opposizione, e un’opposizione radicale, tra la liturgia del Papa San Pio V e quella di Paolo VI.
I cardinali Ottaviani e Bacci lo hanno detto con forza nella lettera di presentazione del Breve esame critico presentato al Papa Paolo VI nel 1969: la liturgia rinnovata in seguito al Concilio Vaticano II «rappresenta, sia nel suo insieme come nei particolari, un impressionante allontanamento dalla teologia cattolica della Santa Messa, quale fu formulata nella Sessione XXII del Concilio Tridentino».
Nel testo stesso del Motu Proprio si legge, all’articolo 1: «Il Messale Romano promulgato da Paolo VI è la espressione ordinaria della “lex orandi” (“legge della preghiera”) della Chiesa cattolica di rito latino. Tuttavia il Messale Romano promulgato da San Pio V e nuovamente edito dal B. Giovanni XXIII deve essere considerato come espressione straordinaria della stessa “lex orandi” e deve essere tenuto nel debito onore per il suo uso venerabile e antico».
Ci si dice che per la stessa «lex orandi» vi sono due espressioni, di cui una straordinaria rispetto all’altra. Nell’intenzione del Papa è la liturgia di Paolo VI che ha valore di riferimento.
Ora, noi sappiamo che la fede del popolo cristiano è regolata dall’espressione della liturgia.
È il Messale che condiziona la professione di fede dei fedeli. A cattivo Messale, cattivo credo.
E allora, se della «lex orandi» vi sono due espressioni, una buona e l’altra cattiva, si avranno parallelamente due credi: uno buono e l’altro cattivo. E se il cattivo Messale ha valore di riferimento, se costituisce l’espressione ordinaria del credo dei fedeli, questo significa che nell’intenzione del Papa il credo cattivo resta la norma è deve prevalere sul credo buono.
Indubbiamente si riserva un posto alla Messa cattolica, il che non è poco. È finito il regime di persecuzione aperta. E tuttavia questo non è il ritorno alla Tradizione. Nello spirito di Benedetto XVI, se la Messa cattolica è tollerata, lo è a condizione che accetti di coabitare con il Novus Ordo Missae, che resta l’espressione ordinaria della legge liturgica.
Con Mons. Lefebvre, noi persistiamo nel credere che la Messa cattolica meriti molto di più che un piccolo posto a fianco della Messa riformata di Paolo VI, la «Messa di Lutero».
Per ristabilire il buon credo nella sua totalità, non basta riprendere il Messale buono a fianco di quello cattivo; è necessario riprendere il Messale tradizionale del 1962 come espressione ordinaria della legge della preghiera, con l’esclusione del Messale di Paolo VI.
Nonostante certi vantaggi immediati, non è dunque assolutamente certo che, preso in se stesso, il Motu Proprio di Benedetto XVI sia così ampiamente positivo. Ci troviamo certamente di fronte ad un regime di tolleranza di cui i cattolici potranno di fatto approfittare, per respirare un po’ più agevolmente, e grazie al quale certe anime di buona volontà potranno riscoprire in gran parte il tesoro della tradizione liturgica della Chiesa.
Ma bisogna riconoscere che questa situazione non ci può soddisfare pienamente e noi non potremmo approvare, per il presupposto falso che contiene, il principio del liberalismo liturgico.
D’altronde, il Motu Proprio stabilisce, all’articolo 2, che «Nelle Messe celebrate senza il popolo, ogni sacerdote cattolico di rito latino, sia secolare sia religioso, può usare o il Messale Romano edito dal beato Papa Giovanni XXIII nel 1962, oppure il Messale Romano promulgato dal Papa Paolo VI nel 1970, e ciò in qualsiasi giorno, eccettuato il Triduo Sacro. Per tale celebrazione secondo l’uno o l’altro Messale il sacerdote non ha bisogno di alcun permesso, né della Sede Apostolica, né del suo Ordinario».
Così ogni sacerdote di passaggio può celebrare la nuova Messa in qualsiasi casa dell’una o dell’altra comunità Ecclesia Dei senza che i superiori possano opporvisi.
E questa celebrazione della nuova Messa nelle comunità Ecclesia Dei non si limiterà ad essere privata, senza l’assistenza dei fedeli, poiché l’articolo 4 del Motu Proprio prevede anche che «Alle celebrazioni della Santa Messa di cui sopra all’art. 2, possono essere ammessi - osservate le norme del diritto - anche i fedeli che lo chiedessero di loro spontanea volontà».
Ecco perché la Fraternità San Pio X non potrebbe accettare una soluzione puramente canonica prima che Roma si decida a rimettere in questione il principio stesso della nuova Messa di Paolo VI.
Tutti questi fatti sono indubbiamente innegabili, ma allora perché i media danno di Benedetto XVI questa immagine illusoria di un papa conservatore?
Detto questo, è vero che, nei particolari del suo governo, Benedetto XVI si sforza di restaurare un minimo di disciplina. Non si può negare che la fine del pontificato di Giovanni Paolo II abbia dato luogo a numerosi abusi. Il nuovo Papa è un uomo d’ordine ed ha voluto riprendere le redini del potere. Vi è in lui uno stile di governo che va incontestabilmente a favore di un certo rigore, in particolare nel dominio morale. E questo dispiace profondamente ai poteri di questo mondo, che vogliono spingere fino in fondo la rivoluzione. Si cerca di offuscare l’immagine di una Chiesa il cui capo visibile manifesta malgrado tutto una certa resistenza di fronte alla corruzione del mondo moderno.
Ma sul piano della dottrina (che peraltro deve ispirare tutta la morale) i falsi principi che ispirano questo governo rimangono disgraziatamente gli stessi.
Questa dualità che fa muovere la politica di Benedetto XVI tra una fedeltà indefettibile ai principi rivoluzionari del Vaticano II e un ritorno all’ordine sul piano disciplinare, non deve stupirci, poiché si tratta di una costante del modernismo. Pensiamo a ciò che diceva San Pio X nella Pascendi: i modernisti non sono tutti conseguenti allo stesso grado. Certi ammettono i principi, ma vogliono mettere un freno alle conseguenze che ne derivano. Questo sillogismo è paradossalmente logico… nella logica modernista. Questo, diceva San Pio X, «è come il risultato di due forze che si combattono, delle quali una è progressiva, l’altra conservatrice»; la forza che spinge alla conservazione è l’autorità che reprime gli abusi; la forza che spinge al progresso sono gli imperativi del Concilio.
Coloro che ragionano con dei «se» o dei «ma» sono gli esitanti o i complici, tutti quelli le cui false inquietudini diminuiscono le forze invece di aumentarle. Noi dobbiamo essere forti, forti nella nostra fede.
È San Pietro che lo dice: bisogna che resistiamo al diavolo rimanendo «fortes in fide».
Se amiamo veramente la verità, se siamo pronti a difendere la nostra fede, non possiamo non denunciare gli errori, e denunciarli pubblicamente, come San Paolo, nel momento opportuno ed anche inopportuno.
San Paolo non ha temuto di contristare i Corinti, ma lo fece per condurli alla penitenza di cui avevano bisogno. «Contristavi vos ad penitentiam».
Non dimentichiamo che la Chiesa vive con il ritmo dell’eternità. Mons. Fellay ce lo ha ricordato molto opportunamente: «Ci si dice: “Voi lo sapete, oggi il Papa vi vuole bene, ma chi verrà dopo di lui? Non si sa! Dunque il momento per accettare è adesso o mai più”. Io ho risposto al cardinale che mi faceva questo discorso: “Eminenza, io credo nello Spirito Santo. Se lo Spirito Santo è capace di illuminare il Papa, potrà illuminare anche i successori” E se lui ci vuol bene, forse il prossimo Papa ci vorrà ancora più bene. Ancora una volta, non si può discutere sulla fede, non si ha il diritto di manipolare la fede» [7].
La durata della crisi può sembrarci lunga, ma la perseveranza non implica giustamente una certa lunghezza di tempi?
Nostro Signore ce l’ha detto: è con l’esercizio della pazienza che salverete le vostre anime (Lc 21, 19). E San Paolo aggiunge che è attraverso la pazienza che deve provarsi la nostra speranza (Rm 5, 4).
Nell'intervista Mons de Cacqueray afferma: "si vide il Papa raccogliersi da pellegrino sulla tomba di Lutero (1983)". Potreste fornire ulteriori informazioni su questa circostanza davvero sconcertante?
RispondiEliminaGrazie!
Penso che questo possa bastare...
RispondiEliminaLa visita di Benedetto XVI ai protestanti di Roma per ricordare il precedente di Giovanni Paolo II.
Benedetto XVI parteciperà a un culto nella Christuskirche, il tempio della “chiesa” evangelica luterana di Roma
(...) La comunità luterana di Roma aveva invitato il Papa nel 2008 per la celebrazione dei 25 anni della visita di Giovanni Paolo II (11 dicembre 1983). Con la sua visita ... aveva commemorato insieme alla comunità luterana di Roma i 500 anni dalla nascita di Martin Lutero. Alla celebrazione del 14 marzo, che avrà luogo alle 17.30, parteciperà anche il Cardinale Walter Kasper, presidente del Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani. (...) (Benedetto XVI visiterà una chiesa luterana a Roma |
Ratzinger sulle orme di Wojtyla, Wojtyla sulle orme di Lutero
"Ricordo in questo momento che nel 1510-1511 Martin Lutero venne a Roma come pellegrino alle tombe dei principi degli apostoli, ma anche come uno che cercava la risposta ad alcuni suoi interrogativi. Oggi vengo io a voi, all’eredità spirituale di Martin Lutero; vengo da pellegrino, per fare di questo incontro in un mondo mutato un segno di unione nel mistero centrale della nostra fede" (Giovanni Paolo II, discorso al consiglio della "chiesa" evangelica, Magonza 17 /11/1980)
Tutto risulta molto chiaro.
RispondiEliminaL'affermazione di Mons de Cacqueray: "si vide il Papa raccogliersi da pellegrino sulla tomba di Lutero (1983)" non era da intendersi alla lettera.
Lutero è sepolto nella Chiesa del Castello di Wittenberg e Giovanni Paolo II non vi si è mai recato.
Grazie per l'attenzione.