Con i migliori Auguri di un Santo Natale e felice Anno Nuovo a tutti i lettori.
don Curzio Nitoglia...
FLAVIO GIUSEPPE & LA DISTRUZIONE
DEL TEMPIO DI GERUSALEMME
Il Tempio di Erode
Il Tempio di Erode, costruito sulle rovine del più antico Tempio di Salomone, inglobava il Santo dei Santi,
il Tabernacolo ove era realmente presente Dio. Questo Tabernacolo
nell’Antico Testamento era unico: esso era il cuore della Religione
mosaica, la prova della sua verità (cfr. G. RICCIOTTI, Storia d’Israele, Torino, SEI, 1° vol., 1932, pp. 354-364; 2° vol., 1933, pp. 108-120).
La presenza reale di Dio nel “Santo dei Santi” garantiva
l’indistruttibilità del Tempio e della città di Gerusalemme che
l’ospitava. Se il popolo d’Israele avesse rispettato i patti, nessuna
potenza umana lo avrebbe travolto. Ma tale protezione, tale patto tra
Dio ed il suo popolo era condizionato alla sua fedeltà alla Volontà di
Dio. E tale patto fu rotto non da Dio, ma dal popolo ebraico (“Deus non deserit nisi prius deseratur”).
Tuttavia “lo sciagurato governo degli ultimi Maccabei, a partire da
Giuda Aristobulo I (106 a. C.), aveva fatto aumentare la corruzione che
si era infiltrata tra i Giudei negli ultimi due secoli per la signoria
dei Re stranieri e pagani, in particolare dei Seleucidi, inducendoli a
tutte le empietà e le ribellioni contro il Signore. Essi, riconoscevano
ancora un solo Dio, ma quasi soltanto con le labbra, mentre la loro condotta era divenuta talmente corrotta che Gerusalemme era divenuta peggiore di Sodoma” (cfr. FLAVIO GIUSEPPE, La Guerra Giudaica, lib., V, par. 13, n. 6)[1], soprattutto grazie all’influsso nefasto dei partiti dei Farisei e dei Sadducei (cfr. FLAVIO GIUSEPPE, Le Antichità Giudaiche, lib., XIII, par. 5, n. 9).
Il Tempio rappresentava l’intero popolo d’Israele (cfr. V. MESSORI, Patì sotto Ponzio Pilato,
SEI, Torino, 1992). La sua rovina significò la rovina della Nazione, il
passaggio dall’Ebraismo mosaico al Giudaismo talmudico, la scomparsa
della classe sacerdotale e del Sacrificio. Infatti lì, nel Tempio, nella
Sancta Sanctorum, dove solo il Sommo Sacerdote poteva entrare
una volta l’anno, era lo sgabello di Jahvè, il trono ove abitava la sua
Presenza gloriosa o “shekinah”.
Gesù amava talmente il Tempio (Tabernacolo del Dio vivente) che
l’Evangelista Giovanni, narrando la cacciata dei mercanti, gli
applicherà il Salmo 68: “Zelus Domus tuae comedit me” (cfr. Gv., II, 16).
San Luca ci tramanda questa predizione di Gesù: “Gerusalemme sarà calpestata dai pagani, finché i tempi dei pagani non siano compiuti” (Lc., XXI, 24).
I tempi dei pagani sono questi nostri, sono il periodo che va dalla
morte di Nostro Signore sino al Suo ritorno, quando vi sarà, come
insegna S. Paolo, l’ingresso nella Chiesa del popolo ebraico ( Rm., XI, 25).
Calpestare Gerusalemme, secondo il testo di Luca, significa
calpestare il suolo del Tempio; ed è singolare come, fino ad ora, per
più di millenovecento anni, la profezia appaia esattamente compiuta.
«I Giudei non avevano conosciuto il giorno della loro visitazione e,
ripudiando il vero Messia, avevano cessato di essere il popolo di Dio.
[…]. Da quel momento la storia del popolo ebraico è una catena
ininterrotta di oppressioni sempre crescenti da parte dei governatori
romani, e di unilateralità, di grettezza sempre più grande nelle cose di
religione. […]. La credulità dei Giudei, che non avevano voluto
riconoscere il vero Messia era giunta a tal punto che essi si
abbandonavano a qualsiasi ciarlatano, a qualunque ‘falso Messia’ e
‘falso Profeta’. Il Paese formicolò di questa ciurma che attirava il
popolo nel deserto, gli faceva balenare segni di liberazione e miracoli,
e poi lo abbandonava inerme alle sanguinose repressioni dei Romani.
Bande di assassini scorrazzavano pel Paese saccheggiando e bruciando
sotto pretesto di essere Zeloti della Fede. Intere frotte di Sicari
uccidevano un’infinità di persone. […]. Così in fine scoppiò nel 66 dopo
Cristo la Guerra Giudaica che, dopo quattro anni di lotte sanguinosissime finì con la distruzione di Gerusalemme» (I. SCHUSTER – G. B. HOLZAMMER, Manuale di Storia Biblica. Il Nuovo Testamento, vol. 2°, parte II, Torino, SEI, II ed., 1952, pp. 909-910).

Flavio Giuseppe e la Guerra Giudaica
Verso la metà del maggio del 66 la Torre Antonia presso il Tempio
venne assalita dagli Zeloti e dal popolo giudaico, che passarono a fil
di spada la guarnigione romana ivi stanziata. Il generale Vespasiano
nell’ottobre del medesimo anno prese il comando della guerra contro i
Giudei, ma il 1° luglio del 69 fu nominato Imperatore e lasciò il posto
di comando in Gerusalemme a suo figlio Tito (cfr. FLAVIO GIUSEPPE, La Guerra Giudaica,
lib., IV, par. 3, n. 8). Sempre nel 66 gli Zeloti-Sicari si
impadronirono della fortezza di Masada, uccidendo la guarnigione romana
lì presente. Nel 69 Simone Bar-Ghiora era divenuto potentissimo in
Masada, con quarantamila uomini armati. Il Fariseismo era degenerato in
Zelotismo e questo si era organizzato nel banditismo dei Sicari (cfr.
FLAVIO GIUSEPPE, La Guerra Giudaica, lib. IV, par. 9, n. 10).
Tito arrivò nella primavera del 70 davanti a Gerusalemme e diede
l’ordine di costruire dei terrapieni e cominciò l’assalto contro il
terzo o il più esterno muro della città di Gerusalemme, che cadde dopo
cinquanta giorni di pugne feroci. Quindi fu la volta del secondo muro
che cadde dopo cinque giorni, di modo che i Romani penetrarono nella
città bassa, ma dopo quattro giorni i Romani dovettero ritirarsi
assaliti dai Giudei. Allora Tito fece costruire un ‘muro’ e scavare un
‘fosso’ tutt’attorno alla città (come aveva predetto Gesù, cfr. Lc., XIX, 43), che misuravano circa 6 km. I soldati Romani impiegarono solo 3 giorni per tale costruzione (cfr. FLAVIO GIUSEPPE, La Guerra Giudaica, lib., V, par. 12, n. 1 ss.).
Molti Giudei disertano rifugiandosi presso i Romani (Guerra Giudaica, V, 10, 420). La fame tra il popolo causa molti orrori e atti di cannibalismo (Guerra Giudaica, lib. V, par. 10, n. 427). Addirittura “cosa miserevolissima, le madri strappavano il cibo dalle bocche dei figlioli” (Guerra Giudaica, lib. V, par. 10, n. 430). I Giudei che non si sono arresi e vengono fatti prigionieri sono crocifissi dai Romani (Guerra Giudaica, lib. V, par. 11, n. 446). Molti invece sono rinviati con le mani mozzate a Gerusalemme ad ammonire i rivoltosi (Guerra Giudaica, lib. V, par. 11, n. 455).
Era tale lo scrupolo del superstizioso Tito, che, secondo la
testimonianza di Flavio Giuseppe, “per risparmiare un Tempio straniero
causava il danno e la strage dei suoi uomini” (FLAVIO GIUSEPPE, La Guerra Giudaica,
lib. VI, par. 4, n. 228-235, tr. it. a cura di G. RICCIOTTI, Torino,
SEI, II ed. 1949, vol. 3°, pp. 258-259). Infatti si ostinava a non dare
l’ordine di incendiare il Santuario, nel quale si erano arroccati i
soldati ebrei, e faceva invece lavorare le macchine d’assedio su
elementi secondari, per causare all’edificio il minor danno possibile.
Quando poi si decise ad ordinare di incendiare le porte esterne dei
cortili, non era ancora che un attacco ad una parte esterna del Tempio.
Tito stesso comandò quasi subito ai suoi di spegnere quell’incendio (Ibidem, lib. VI, par. 4, n. 250-270, pp. 262-266).
I Cristiani sin dal principio del 66, sotto la guida del vescovo di Gerusalemme Simeone e memori delle profezie di Gesù (Mt., XXIV,
15), lasciarono Gerusalemme e si rifugiarono in Pella al di là del
Giordano e distante 100 km da Gerusalemme (I. SCHUSTER – G. B.
HOLZAMMER, Manuale di Storia Biblica. Il Nuovo Testamento, vol. 2, parte II, Torino, SEI, II ed., 1952, p. 911).
Ma, come scrive Flavio Giuseppe, “le fiamme all’interno del Tempio,
ebbero inizio e furono causate ad opera dei giudei. Infatti, ritiratosi
Tito, i ribelli [...] si scagliarono di nuovo contro i romani e infuriò
uno scontro fra i difensori del Santuario e i soldati intenti a spegnere
il fuoco” come era stato loro ordinato da Tito. Ed ecco il momento
fatale. “I legionari romani, volti in fuga i giudei, li inseguirono fino
al Tempio e fu allora che un soldato [...] spinto da una forza soprannaturale,
afferrò un tizzone ardente e […] lo scagliò dentro, attraverso una
finestra [...] che dava sulle stanze adiacenti al Santuario” (Ibidem, lib. VI, par. 5, n. 271-280, pp. 267-268). Era il 15 agosto del 70.