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martedì 28 settembre 2010

Il “punctum dolens” di tutt’il contenzioso tra Fraternita' San Pio X e Vaticano si chiama Tradizione...Di Monsigor Brunero Gherardini .

 
 
Durante un amichevole incontro, alcuni amici m’han chiesto quale potrebb’esser il domani della Fraternità S. Pio X, a conclusione dei colloqui in atto fra la medesima e la Santa Sede. Ne abbiam parlato a lungo ed i pareri eran discordi. Per questo esprimo il mio anche per iscritto, nella speranza – se non è presunzione e Dio me ne guardi! - che possa giovare non solo agli amici, ma anche alle parti dialoganti.
Rilevo anzitutto che nessuno è profeta né figlio di profeti. Il futuro è nelle mani di Dio. Qualche volta è possibile preordinarlo, almeno in parte; in altre, ci sfugge del tutto. Bisogna inoltre dare atto alle due parti, finalmente all’opera per una soluzione dell’ormai annoso problema dei “lefebvriani”, che fin ad oggi han lodevolmente ed esemplarmente mantenuto il dovuto silenzio sui loro colloqui. Tale silenzio, però, non aiuta a preveder i possibili sviluppi.
Di “voci”, peraltro, se ne sentono; e non poche. Quale sia il loro fondamento è un indovinello. Prenderò dunque in esame qualcuno dei pareri espressi nell’occasione predetta e dirò poi articolatamente il mio.
  1. Ci fu chi giudicava positivo un recente invito ad “uscire dal bunker nel quale s’è asserragliata durante il postconcilio per difendere la Fede dagli attacchi del neomodernismo”. Fu facile rilevare la difficoltà d’un giudizio a tale riguardo. Che la Fraternità sia stata per alcuni decenni nel bunker è evidente; purtroppo c’è ancora. Non è invece evidente se vi sia entrata da sé, o se vi sia stata da qualcuno, o dagli avvenimenti sospinta. A me pare che, se proprio vogliamo parlare di bunker, sia stato Mons. Lefebvre ad imprigionarvi la sua Fraternità quel 30 giugno 1998, quando, dopo due richiami ufficiali ed una formale ammonizione perché recedesse dal progettato atto “scismatico”, ordinò vescovi quattro dei suoi sacerdoti. Fu, quello, il bunker non dello scisma formalmente inteso, perché pur essendo “rifiuto della sottomissione al Sommo Pontefice” (CJC 751/2), mancò il dolo e l’intenzione di crear un’anti-chiesa, fu anzi determinato dall’amore alla Chiesa e da una sorta di “necessità” incombente per la continuità della genuina Tradizione cattolica, seriamente compromessa dal neomodernismo postconciliare. Ma bunker fu: quello d’una disobbedienza ai limiti della sfida, del vicolo chiuso e senza prospettive d’un possibile sbocco. Non quello della salvaguardia di valori compromessi.

    E’ difficile capire in che senso, “per difendere la Fede dagli attacchi del neomodernismo”, fosse proprio necessario “asserragliarsi in un bunker”. Vale a dire: lasciar libero il passo all’irrompere dell’eresia modernista. E di fatto il passo fu ininterrottamente contrastato. Se pur in una posizione di condanna canonica, e quindi fuori dai ranghi dell’ufficialità ma con la consapevolezza di lavorare per Cristo e per la sua Chiesa, una santa cattolica apostolica e romana, la Fraternità attese anzitutto alla formazione del clero, questo essendo il suo compito specifico, fondò e diresse seminari, promosse e sostenne dibattiti teologici talvolta d’alto profilo, pubblicò libri di rilevante valore ecclesiologico, dette conto di sé mediante fogli d’informazione interna ed esterna: il tutto allo scoperto, dimostrando di quale forza – lasciata purtroppo ai margini - la Chiesa potrebbe avvalersi per la sua finalità d’universale evangelizzazione. Che gli effetti dell’attiva presenza lefebvriana possan esser giudicati modesti o che di fatto non sian molto appariscenti, può dipender da due ragioni:
    • dalla condizione canonicamente abnorme in cui opera,
    • e dalle sue dimensioni; si sa che la mosca tira il calcio che può.

    Ma io son profondamente convinto che proprio per questo si dovrebbe ringraziare la Fraternità la quale, in un contesto di secolarizzazione ormai ai margini d’un’era post-cristiana, ed anche di non dissimulata antipatia verso di essa, ha tenuto e tiene ben alta la fiaccola della Fede e della Tradizione.
  2. Nell’occasione richiamata all’inizio, qualcuno riferì d’una conferenza durante la quale la Fraternità fu invitata ad aver maggior fiducia nel mondo ecclesiale contemporaneo, ricorrendo se necessario a qualche compromesso, perché la “salus animarum” esige – l’avrebbe detto un lefefbvriano – che si corra anche questo rischio. Sì, ma non certamente il rischio di “compromettere” la propria e l’altrui eterna salvezza.

    E’ probabile che le parole tradiscan le intenzioni. O che non si conosca il valore delle parole. Se c’è una cosa che, in materia di Fede, è doveroso evitare, è il compromesso. E il richiamarsi della Fraternità – così come d’ogni autentico seguace di Cristo - al “Sì sì, no no” di Mt 5,37 (Giac 5,12) è l’unica risposta alla prospettiva del compromesso. Il testo citato continua dicendo: “tutto il resto vien dal maligno”: dunque anche e segnatamente il compromesso. Almeno nella sua accezione di rinunzia ai propri principi morali ed alle proprie ragioni di vita.

    A dir il vero, anche a me, da quando i colloqui tra Santa Sede e Fraternità ebbero inizio, era arrivata la voce d’un possibile compromesso. Cioè d’un comportamento indegno, dal quale la stessa Santa Sede immagino che rifugga per prima. Un compromesso su quanto non impegna la confessione dell’autentica Fede, è possibile e talvolta plausibile; non lo è mai ai danni dei valori non negoziabili. Sarebbe oltretutto una contraddizione in termini, perché anche il compromesso è un “negotium”. Ed un negozio a rischio: il naufragio della Fede. Mi ripugna, pertanto, il solo pensare che la Santa Sede lo proponga o l’accetti: otterrebbe molto meno d’un piatto di lenticchie e s’addosserebbe la responsabilità d’un illecito gravissimo. Mi ripugna del pari il pensiero d’una Fraternità che, dop’aver fatto della Fede senza sconti la bandiera della sua stessa esistenza, scivoli sulla buccia di banana del rifiuto della sua stessa ragion d’essere.

    Aggiungo che, a giudicare da qualche indizio forse non del tutto infondato, la metodologia messa bilateralmente in atto non sembra aprire grandi prospettive. E’ la metodologia del punto contro punto: Vaticano II sì, Vaticano II no, o sì se. Cioè a condizione che dall’una o dall’altra parte, o da ambedue, s’abbassi la guardia. Una resa a discrezione? Per la Fraternità il mettersi nelle mani della Chiesa sarebbe l’unico comportamento veramente cristiano, se non ci fosse la ragione per cui nacque e per cui dette vita al suo Aventino. Cioè quel Vaticano II che, specie con alcuni dei suoi documenti sta letteralmente all’opposto di ciò in cui essa crede e per cui opera. Con tale metodologia, non s’intravede una via di mezzo: o la capitolazione, o il compromesso.

    Un esito così esiziale potrebb’esser evitato seguendo una metodologia diversa. Il “punctum dolens” di tutt’il contenzioso si chiama Tradizione. Ad essa è costante il richiamo dell’una e dell’altra parte, che peraltro hanno, della Tradizione, un concetto nettamente alternativo. Papa Wojtyla dichiarò ufficialmente “incompleta e contraddittoria” la Tradizione difesa dalla Fraternità. Si dovrebbe pertanto dimostrar il perché dell’incompletezza e della contraddittorietà, ma ancor più impellente è la necessità che le parti addivengano ad un concetto comune, ossia bilateralmente condiviso. Un tale concetto diventa allora il famoso pettine al quale arrivan tutt’i problemi. Non c’è problema teologico e di vita ecclesiale che non abbia nel detto concetto la sua soluzione. Se, dunque, si continua a dialogare mantenendo, l’una e l’altra parte, il proprio punto di partenza, o si darà vita ad un dialogo fra sordi, o, per dimostrare che non si è dialogato invano, si darà libero accesso al compromesso. Soprattutto se accettasse la tesi dei “contrasti apparenti” perché determinati non da dissensi di carattere dogmatico, ma dalle sempre nuove interpretazioni dei fatti storici, la Fraternità dichiarerebbe la sua fine, miseramente sostituendo la sua Tradizione, ch’è quella apostolica, con la vaporosa ed inconsistente e disomogenea Tradizione vivente dei neomodernisti.
  3. Un’ultima questione trattammo nel nostro amichevole incontro, esprimendo più speranze che previsioni concretamente fondate: il futuro della Fraternità. In argomento è sceso pure, recentemente, il sito “cordialiter blogstop.com”con un’idilliaca anticipazione del roseo domani che già arriderebbe alla Fraternità: un nuovo – nuovo? per ora, non ne ha mai avuto uno – “status” canonico, inizio della fine del modernismo, priorati presi d’assalto dai fedeli, Fraternità trasformata in “superdiocesi autonoma”. Anch’io mi riprometto molto dalla sperata composizione per la quale si sta lavorando, ma con i piedi un po’ più per terra. Tento d’acuire lo sguardo e di vedere che cosa potrebbe domani accadere. Lo specifico della Fraternità, l’ho già ricordato, è la preparazione al sacerdozio e la cura delle vocazioni sacerdotali. Non dovrebbe aprirsi per essa un campo diverso da quello dei Seminari, questo essendo il suo vero campo di battaglia: propri e non propri, nei Seminari assai più che altrove o più che altrimenti potrebbero esprimersi la natura e le finalità della Fraternità.

    Sotto quale profilo canonico? Non è facile prevederlo. Mi pare, comunque, che l’esser una Fraternità sacerdotale dovrebbe suggerirne l’assetto canonico in una forma di “Società Sacerdotale”, sotto il supremo governo della Congregazione “per gl’Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica”. Inoltre, l’aver essa già quattro Vescovi potrebbe suggerire, come soluzione, una “Praelatura” di cui la Santa Sede, al momento opportuno, potrà precisare l’esatta configurazione giuridica. Non mi sembra questo, tuttavia, il problema principale. Più importante è, senza dubbio, sia la composizione all’interno della Chiesa d’un contenzioso poco comprensibile nel tempo del dialogo con tutti, sia la liberalizzazione d’una forza compatta attorno all’idea e all’ideale della Tradizione, perché possa operare non dal bunker ma alla luce del sole e com’espressione viva ed autentica della Chiesa.
27 sett. 2010
Brunero Gherardini 
 

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