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mercoledì 15 settembre 2010

A proposito della conferenza tenuta da Mons. Pozzo a Wigratzbad il 2 luglio 2010


Qualche considerazione
Parte seconda



Parte prima
Parte terza

Testo della conferenza


Il testo completo di queste considerazioni,
insieme al testo della conferenza di Mons. Pozzo,
disponibile in formato pdf


Dopo aver preso in considerazione, nella prima parte, la “Premessa” della conferenza di Mons. Pozzo (Aspetti della ecclesiologia cattolica 
nella recezione del Concilio Vaticano II), in questa seconda parte considereremo il primo dei due punti esplicativi nei quali l’Autore sviluppa l’assunto della premessa: L’unità e l’unicità della Chiesa cattolica.
Il secondo punto: La Chiesa cattolica e le religioni in rapporto alla salvezza, insieme alla “Conclusione”, sarà oggetto della terza parte di queste nostre considerazioni.
Seguiremo il testo della conferenza un punto dopo l’altro, come li ha presentati Mons. Pozzo

di Giovanni Servodio


I. L’unità e l’unicità della Chiesa cattolica.

1. Per dare un esempio dei nuovi orientamenti espressi dal Concilio, è detto che questo trattò del rapporto con ortodossi e protestanti in maniera diversa da prima. Mentre prima, come nella Mortalium animos di Pio XI, la Chiesa si era preoccupata di “delimitare e distinguere nettamente la Chiesa cattolica dalle confessioni cristiane non cattoliche”, dopo, col Concilio, ha trattato la questione “come tema a sé stante e in modo formalmente positivo”.
Per quanto la spiegazione possa sembrare poco chiara, non è difficile dedurne che:
a) prima del Concilio la Chiesa delimitava e distingueva, in qualche modo faceva chiarezza… col Concilio, non distinguendo più, ha rinunciato a fare chiarezza;
b) il Concilio ha trattato in modo formalmente positivo il rapporto con i non cattolici… prima del Concilio la Chiesa, non trattandolo in modo formalmente positivo, lo trattava in modo negativo. Pare evidente che qui in pratica si voglia dire che prima del Concilio, la Chiesa guardasse criticamente ai non cattolici, in forza della loro eresia e del loro scisma, mentre il Concilio ha guardato benevolmente questi stessi non cattolici che continuano ad essere eretici e scismatici.
Il nostro è un semplice appunto, ma non riusciamo a comprendere quale continuità ci sia tra il prima del Concilio, il Concilio stesso e il postconcilio. Anche detto così, a noi sembra che si tratti di due orientamenti divergenti, per molti aspetti in contraddizione. E forse sembra così anche a Mons. Pozzo, poiché egli incomincia il punto 2 con “tuttavia”.

2. L’essenziale di questo punto non è l’affermazione dell’unità e dell’unicità della vera Chiesa, ma la chiarificazione che si dà del controverso “subsistit in” di Lumen gentium 8: “L’espressione subsistit in di Lumen gentium 8 significa che la Chiesa di Cristo non si è smarrita nelle vicende della storia, ma continua ad esistere come un unico e indiviso soggetto nella Chiesa cattolica. La Chiesa di Cristo sussiste, si ritrova e si riconosce nella Chiesa cattolica.
Ora, quando si dice che la Chiesa non si è smarrita, ma continua ad esistere, si afferma che il subsistit in è un’espressione linguistica che indica come la Chiesa non si sia persa, ma continua ad esistere: essa “sussiste”, cioè c’è ancora.  A onor del vero ci sembra ben poca cosa, quasi una tautologia. Chiunque capisce che la Chiesa c’è ancora, altrimenti di cosa stiamo parlando?
Ma quando si sostiene che “la Chiesa di Cristo sussiste, si ritrova e si riconosce nella Chiesa cattolica”, ecco che si tocca uno degli elementi che compongono il nocciolo del problema. Non si riesce a capire, infatti, perché questa Chiesa di Cristo debba sussistere, ritrovarsi e riconoscersi nella Chiesa cattolica. Se la Chiesa di Cristo fosse la Chiesa cattolica, come è stato da duemila anni e come sembra si vorrebbe qui sostenere, non avrebbe alcun bisogno di arrancare così dal sussistere al ritrovarsi e al riconoscersi. Il problema non si porrebbe neanche: la Chiesa di Cristo è la Chiesa cattolica, non ha quindi bisogno di arrampicarsi su pareti scoscese. In realtà, sussiste, si ritrova e si riconosce in qualcosa solo un’altra cosa diversa da questa. Una cosa che sta fuori l’altra e che sente il bisogno di riconoscersi in quest’altra.
In questo caso la Chiesa di Cristo rispetto alla Chiesa cattolica: due entità diverse.
Ci sia consentito dissentire, quindi, poiché in tutto questo non v’è continuità con la dottrina di sempre, v’è rottura e, ultimamente, il bisogno di ricucire lo strappo. Ma lo strappo lo si ricuce solo se lo si riconosce come tale. Se si continua a sostenere che lo strappo non c’è, che è solo un’impressione, l’unico risultato è la lacerazione totale. E non c’è bisogno di chissà quale profondità teologica per cogliere questa evidenza, basta chiedere ad una qualsiasi buona madre di famiglia che continua a rammendare le braghe dei figli.

3. Ma non si può sottacere che corre voce che il subsistit in, in fondo, è una forma migliore dell’“est” per indicare la profonda identità tra la Chiesa di Cristo e la Chiesa cattolica. Basta intendersi di latino e di Scolastica, dove il verbo “sussistere” è usato per dire di Dio che “è sussistente in sé stesso” – dicono certi teologi. Così che il subsistit in sarebbe ancor più dell“est”, perché indicherebbe l’identità al massimo grado.
Non si può non farsi piccoli al cospetto dell’erudizione dei teologi, ma insieme non si può non stupirsi di questa insinuazione che vorrebbe farci credere che il Concilio e il post-concilio siano stati un’opera di esaltazione della Scolastica. E noi, da semplici fedeli ordinari, non solo ci stupiamo, ma ridiamo, perché non caschiamo nella trappola dotta.
Noi, che a stento comprendiamo l’italiano, leggiamo per esempio il documento della Congregazione per la Dottrina della Fede, del 29 giugno 2007 (Risposte a quesiti riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina sulla Chiesa), citato dallo stesso Mons. Pozzo, dove al terzo quesito risponde che l’uso del subsistit introva, tuttavia, la sua vera motivazione nel fatto che esprime più chiaramente come al di fuori della sua compagine si trovino ‘numerosi elementi di santificazione e di verità’, che in quanto doni propri della Chiesa di Cristo spingono all’unità cattolica”.
La Congregazione dice “vera motivazione”, rimbeccando quindi i dotti teologi e introducendo un elemento importante, richiamato anche da Mons. Pozzo, il quale aggiunge che, così facendo, il Concilio intese affrontare “il problema ecumenico in modo più diretto ed esplicito di quanto si era fatto in passato”. Ed in effetti qui si mette il dito sulla piaga: il subsistit in è stato voluto in sostituzione del vecchio e corretto “est” per esigenze ecumeniche. E dobbiamo dire che, senza bisogno di studi approfonditi, questo l’avevamo capito pure noi.
Il Concilio coltivò, a tutti i costi, la vecchia fisima ecumenica protestante, e in tutti i suoi documenti introdusse un numero incredibile di appigli atti a giustificare l’ecumenismo intercristiano, con i protestanti di tutte le scuole, e interreligioso, con le credenze di tutte le risme.
Tutte le precisazioni successive, comprese quelle della Congregazione per la Dottrina della Fede, devono essere lette alla luce di questa “vera motivazione”, che fa comprendere, come dice Mons. Pozzo, che “Il rapporto con la Chiesa cattolica da parte delle Chiese e Comunità ecclesiali cristiane non cattoliche non è tra il nulla e il tutto, ma è tra la parzialità della comunione e la pienezza della comunione”.
Se non ci sbagliamo, ci sembra di capire che se tutta la differenza tra i cattolici e i protestanti sta nella parzialità della comunione, questo grosso modo dovrebbe corrispondere al fatto che costoro sono più o meno d’accordo col Papa in tema di disciplina ecclesiastica e di gerarchia. Ora, a noi sembra che, fino a ieri, la differenza fosse di tipo dottrinale, così che i cattolici professassero la vera dottrina e i protestanti l’eresia. Leggendo adesso questo testo le cose non starebbero più così.
Si afferma poi che il Concilio ha avuto il merito di “aver riconosciuto che anche nelle confessioni cristiane non cattoliche esistono doni ed elementi che hanno carattere ecclesiale”.
Abbiamo l’impressione che il Concilio abbia detto qualcosa di più.
Al n° 4 del Decreto Unitatis redintegratio (UR) si legge: “… è necessario che i cattolici con gioia riconoscano e stimino i valori veramente cristiani, promananti dal comune patrimonio, che si trovano presso i fratelli separati”.
E questo testo è preceduto, al n° 3, da quest’altro: “Perciò le stesse Chiese e comunità separate, quantunque crediamo che abbiano delle carenze, nel mistero della salvezza non sono affatto spoglie di significato e di peso. Poiché lo Spirito di Cristo non ricusa di servirsi di esse come strumenti di salvezza, il cui valore deriva dalla stessa pienezza della grazia e della verità che è stata affidata alla Chiesa Cattolica”.
Non vogliamo mancare di rispetto a nessuno, sia chiaro, ma il richiamo di Mons. Pozzo ci appare lacunoso e strumentale. I testi citati dicono che: sia la Chiesa cattolica, che, si continua dire, è l’unica Chiesa di Cristo, sia le comunità protestanti, qui dette “separate”, sono “strumenti di salvezza” di cui lo stesso Spirito Santo “non ricusa di servirsi”. Cosa dobbiamo dedurne?
Semplice: cattolici o protestanti… ci salviamo ugualmente per mezzo dello Spirito Santo che si serve, come e quando vuole, ora della Chiesa cattolica, ora delle comunità dei “fratelli separati”, cioè degli eretici. Questo non è tanto indifferentismo religioso, così inviso, giustamente, all’attuale gerarchia cattolica, quanto equiparazione tra ortodossia e eterodossia, tra Verità ed errore.
Chiediamo scusa per l’impertinenza, ma in tempi non molto lontani si sarebbe incorsi nei legittimi rigori del Sant’Uffizio e, a meno di pubbliche ritrattazioni, nella conseguente scomunica.
Altri tempi, direbbe Mons. Pozzo, tempi in cui la Chiesa delimitava e distingueva, tempi, diciamo noi, in cui un cattolico riusciva a capire il significato dell’essere tale. Oggi invece è evidente che le cose non stanno più così.
E come stanno le cose oggi?
Ce lo spiega il seguente n° 4

4. Qui si dice che la “differenza tra unicità della Chiesa cattolica ed esistenza di elementi realmente ecclesiali al di fuori di questo unico soggetto” è “un paradosso”, ma un paradosso per modo di dire, poiché in questo paradosso “si riflette la contraddittorietà della divisione e del peccato”.
Non è facile capire il vero significato di questa affermazione, ma, considerato che non si tratterebbe di un vero e proprio paradosso, cioè di una palese contraddizione, pare di capire che si tratterebbe di una ineluttabilità. Quasi che nessuno ne avesse colpa. Una “dolorosa frattura”, che quindi è necessario ricucire. Come ricucirla? Non è detto.
Si dice solo cosa non bisogna fare: non bisogna considerare “la divisione fra i cristiani … come la manifestazione delle molteplici variazioni dottrinali di uno stesso tema” che “dovrebbero fra loro riconoscersi e accettarsi come differenze o divergenze”, perché, così facendo, si percorrerebbe la strada della “discontinuità o rottura con la Tradizione cattolica” e si opererebbe “una profonda falsificazione del Concilio”.
In effetti, Mons. Pozzo ha ragione, è inconcepibile questa concezione dell’ecumenismo che, lui dice, non è riconducibile al Concilio.
Ma qual è allora la corretta concezione? Quella della continuità con la Tradizione?
Dobbiamo presumere che sia la vecchia concezione del “ritorno” dei fratelli separati all’unica Chiesa di Cristo che è la Chiesa cattolica.
È questo che si vuol dire, ma non si dice?
A leggere i documenti del Concilio sembrerebbe di no, ma poi si ha la prova schiacciante che la risposta è no: dalla pratica ecumenica di questi 40 anni, pratica predicata e seguita dalla Santa Sede con i suoi Pontifici Consigli; i quali continuano, oggi più di ieri, a lavorare perché la Chiesa cattolica e le comunità separate riconoscano e accettino reciprocamente le molteplici variazioni dottrinali come giustificate.
La conclusione è che quel “paradosso” non è un modo di dire, ma una vera e propria contraddizione: non è possibile affermare che la Chiesa cattolica è l’unico soggetto portatore di elementi di salvezza e insieme sostenere che vi sono elementi di salvezza fuori da quest’unico soggetto. Delle due l’una: o ciò che sostiene il Concilio è insostenibile o è insostenibile ciò che sostiene Mons. Pozzo.
Non siamo di fronte ad una cattiva interpretazione del Concilio, ma ad una contraddizione espressa dal Concilio. Per risolvere questa contraddizione è indispensabile riconoscere innanzi tutto che esiste, poiché non è pensabile ad una interpretazione nella continuità che farebbe di una contraddizione una non-contraddizione. Salvo seguire la logica hegeliana della inesistenza delle contraddizioni, ritenute, allegramente, elementi di tesi e di anti-tesi che condurrebbero miracolosamente alla sin-tesi, e via così.

5. Ma ecco che Mons. Pozzo precisa e distingue, usando invero un metodo che, a suo dire, non è più in uno nella Chiesa cattolica grazie al Concilio. Ci si dice che le comunità dei “fratelli separati”, cioè i protestanti, hanno sì degli elementi di “santificazione e di verità”, ma hanno anche altro, che non è condiviso dalla Chiesa cattolica, quindi i fedeli protestanti si salvano (come dice UR 3) solo in forza dei primi, perché per l’altro che hanno, queste comunità protestanti, “non sono strumenti di salvezza”.
Anche qui, si tratta evidentemente di una interpretazione nella continuità di quanto abbiano riportato prima di UR 3. Solo che questa interpretazione non è tale: è ancora una ipotesi indimostrata.
Proviamo a capire. I fedeli protestanti, in quanto seguono gli elementi di santificazione e di verità contenuti nelle loro comunità, si salvano. E si salvano nonostante credano anche all’altro. Ma come faranno, ci chiediamo, questi fedeli a salvarsi seguendo questi elementi di “santificazione e di verità”? Scarteranno coscientemente gli elementi non santificanti e falsi, pur mantenendoli come elementi distintivi? E se davvero fossero capaci di tanto, non sarebbero decisamente degli eretici impenitenti? E se invece c’è solo coscienza invincibilmente erronea, come faranno a salvarsi se non hanno coscienza degli elementi di “santificazione e di verità”? Invero un gran bel pasticcio.
In queste condizioni, com’è possibile affermare che “gli elementi di «santificazione e di verità» che le altre Chiese e Comunità cristiane hanno in comune con la Chiesa cattolica, costituiscono insieme la base per la reciproca comunione ecclesiale e il fondamento che le caratterizza in modo vero, autentico e reale.”?
Qui sembra si voglia dire che queste comunità sono caratterizzate “in modo vero, autentico e reale” da questi famosi elementi di santificazione e di verità, ed in forza di questa caratterizzazione sono in reciproca comunione con la Chiesa cattolica, almeno potenzialmente.  E della parte cattiva che ne è stata? O che ne sarà?
Viene il sospetto che si vogliano condurre queste comunità ad emendarsi, ad abbandonare l’errore, perché diversamente si sarebbe costretti a pensare che è la Chiesa cattolica che vuole indurre se stessa a fare comunità con l’errore protestante. E ci stupiamo non poco, poiché siamo convinti che per redimere e convertire gli eretici bastava l’insegnamento cattolico in vigore fino al Vaticano II, e non v’era affatto bisogno del “subsistit in” che, a questo punto, o è uno specchietto per le allodole protestanti (supposte babbee) o è un grimaldello per aprire di nascosto i cancelli del depositum fidei e versarvi la velenosa pozione del protestantesimo.
Si comprende facilmente che, in un modo o nell’altro, per quanto ci si possa sforzare, non è possibile cogliere alcun elemento di continuità con la Tradizione cattolica, tanto è palese il distacco nel merito e nel metodo. Se non si volesse parlare di rottura, per mera comodità, di certo non si può parlare di continuità.

6. Ci siamo soffermati un po’ di più sul punto 5 perché ci serviva per comprendere meglio quanto detto in questo punto 6.
Qui viene ripresa la precisazione apportata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede circa l’uso del termine “chiesa” (cf. Dominus Iesus, 16 e 17). E si precisa che il termine “chiesa” non può essere legittimamente riferito “alle Comunità nate dalla Riforma, poiché in queste ultime l’assenza della successione apostolica, la perdita della maggior parte dei sacramenti, e specialmente dell’eucaristia, feriscono e indeboliscono una parte sostanziale della loro ecclesialità”.
Ci si permetta benevolmente di rimanere allibiti. Dopo tutto il panegirico sul bisogno del “subsistit in”, sul merito della scoperta degli elementi di santificazione, sulla radiosa prospettiva della ritrovata comunione mossa dalla irresistibile spinta all’unità, ecco che ci si dice che queste comunità in definitiva non hanno proprio un bel niente che possa equipararsi (e noi diciamo: anche solo lontanamente assomigliare), alla Chiesa cattolica. Esse infatti non discendono dagli Apostoli, ed è vero, perché sono nate dal parto della mente di un monaco apostata e adultero; non hanno i sacramenti, ed è vero, anche perché sono impossibilitate ad averli visto la loro origine; non hanno l’eucarestia, figuriamoci poi l’eucarestia! Cos’è, allora, che hanno di santificante e di vero?
Sembra quasi che stiamo solo perdendo del tempo.
E invece no. Il chiarimento di Mons. Pozzo è molto utile.
Egli sostiene che la mancanza di tutto l’essenziale, in queste comunità, ferisce e indebolisce “una parte sostanziale della loro ecclesialità”. Noi saremmo un tantino più severi: mancando dell’essenziale, queste comunità sono solo niente, nient’altro che delle semplici associazioni di privati cittadini dedite alla filantropia. Altro che ecclesialità ferita.
Ma allora, su che cosa si potrebbe fondare quella comunione imperfetta che vi ha scorto il Concilio? L’unica cosa che rimane, a parte il battesimo ricordato da Mons. Pozzo e che è ancora da dimostrare che sia valido vista la mancanza dell’intenzione di fare ciò che fa la Chiesa, l’unica cosa è la lettura della Bibbia.
È facile capire che si tratta di ben poca cosa, se non altro perché la Bibbia la legge chiunque e non sembra che la Chiesa cattolica scopra la comunione imperfetta in chiunque. Piuttosto qui viene in mente l’idolatrico attaccamento vissuto dai protestanti per il Libro, attaccamento che ricorda uno dei frutti del Concilio: quella curiosa invenzione della cosiddetta “liturgia della parola”, che ha subito, per sua stessa natura, una degenerazione tale che si è arrivati a parlare perfino di “adorazione” della parola. Non è questo il momento per ricordare che l’adorazione è dovuta solo a Dio, ci limitiamo quindi a considerare che neanche la “vera motivazione” addotta dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, il 29 giugno 2007, ha un serio fondamento, così che il subsistit in si rivela una sorta di marchingegno linguistico atto ad “aprire” ai protestanti. Lo abbiamo detto prima: un grimaldello per aprire di nascosto i cancelli del depositum fidei e versarvi la velenosa pozione del protestantesimo. Ecco perché l’“est” della Mystici Corporis di Pio XII non andava più bene.

7. Perché non si creino equivoci, come quelli appena ventilati da noi, ci si spiega in cosa consista quest’esigenza ecumenica.
A dire il vero, questo n° 7 richiederebbe una disamina molto lunga e articolata, che non possiamo fare qui. Ci soffermeremo perciò su due punti solamente.
La Chiesa cattolica ha in sé tutta la verità, poiché è il Corpo e la Sposa di Cristo. Tuttavia non la comprende tutta pienamente.” Cioè, ci sembra di capire, comprende solo parzialmente tutta la verità: un concetto di una logica un po’ troppo ardita, in verità!
Perciò lo Spirito (supponiamo si tratti dello Spirito Santo) la guida «alla verità tutta intera», cioè alla comprensione di tutta la verità che la Chiesa ha già in sé (!?). Questo si chiamerebbe “crescere nella comprensione della verità”.
Ora, ammesso e non concesso che sia davvero così, tanto per proseguire il ragionamento: dovremmo allora fermarci alla guida dello Spirito (Santo), di per sé più che sufficiente.
No, ci si dice, v’è “l’utilità e la necessità e del dialogo ecumenico”.
Perché? Perché, diciamo noi, se non fosse così tutto il discorso fatto fin qui, tutto il Concilio, tutta l’interpretazione nella continuità, andrebbero a farsi benedire.
Il punto dolente è sempre lo stesso: posta la necessità del dialogo ecumenico, in maniera del tutto gratuita e improvvisata, non solo si fa un Concilio, ma lo si rimesta, lo si rigira, lo si manipola, lo si usa in tutti i modi per amore di questo dialogo inventato.
Un tempo, un po’ buio in verità, si insegnava che la legge suprema della Chiesa fosse la salvezza delle anime. Oggi, alla luce del Concilio, l’imperativo categorico è il dialogo ecumenico.
Perfino lo Spirito (Santo) è reputato insufficiente perché la Chiesa giunga «alla verità tutta intera», ciò che è utile e necessario è il dialogo ecumenico: “In questo contesto si capisce l'utilità e la necessità del dialogo ecumenico, per recuperare ciò che eventualmente sia stato emarginato o trascurato in determinate epoche storiche e integrare nella sintesi dell'esistenza cristiana nozioni in parte dimenticate.
Saremmo maligni se dicessimo che queste parole ci sorprendono, perché ce le aspettavamo.
Traduciamo.
La Chiesa cattolica, in certi momenti, ha emarginato o trascurato delle cose, quindi, interpella i protestanti per farsi spiegare di cosa si tratta.
E i protestanti, che sono eretici: Avete trascurato ed emarginato noi e la nostra eresia.
E la Chiesa: Ma va’! Davvero! Suvvia, venite che ne parliamo… e rimediamo.
La Chiesa cattolica ha dimenticato certe nozioni, quindi interpella i protestanti per farsele ricordare. E i protestanti, che sono eretici: Avete dimenticato che Dio è in terra e non in cielo!
E la Chiesa: Ma va’! Davvero! Suvvia, venite che ne parliamo… e integriamo questa dimenticanza nel poco che c’è rimasto, e insieme ne trarremo una bella sintesi.
Scherziamo, naturalmente, … ma ci sembra che, battute a parte, in parole povere di questo si tratti. E per far questo era necessario scomodare perfino lo Spirito Santo?
Ma… è possibile che si dica che lo Spirito  Santo sia insufficiente? Siamo i primi a riconoscere che Mons. Pozzo non affermerebbe mai una sciocchezza del genere.
Perché allora tanto girarci intorno?
Molto semplicemente per suggerire, tra le righe, che il dialogo ecumenico è voluto dallo Spirito Santo proprio per guidare la Chiesa «alla verità tutta intera». Sbalorditivo!? Solo per chi non ha avuto la fortuna di conoscere il Concilio!
A partire dal Concilio, e secondo la più genuina delle interpretazioni nella continuità, lo Spirito Santo non guida più la Chiesa a dichiarare la verità e a condannare l’errore, ma si serve dell’errore per guidare la Chiesa «alla verità tutta intera».
Se questa è l’ermeneutica della continuità, confessiamo che, non solo non riusciamo a seguirla e a comprenderla, ma non ci interessa affatto… anzi la temiamo fortemente per la salvezza delle nostre anime.
La vera Messa Cattolica

1 commento:

  1. Non un eroico difensore della Tradizione della Chiesa, ma un interprete disobbediente, superbo ed arrogante della Tradizione della Chiesa che non conosce bene, così come non ricorda la storia apostolica dalla Risurrezione del Cristo in poi. Mi dispiace dover dire ciò, ma il Vs. sito ha una superbia arrogante simile a quella dei nostri progenitori. gaetano briganti

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