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martedì 13 luglio 2010

PER MEGLIO COMPRENDERE IL PERCHE' NELLA CHIESA CATTOLICA ESISTA IL FENOMENO ERETICO NEOCATECUMENALE, E' MOLTO UTILE LEGGERE UNO DEI PIU' GRANDI INTELLETUALI DEL NOSTRO TEMPO.
Documento tratto da www.messainlatino.it

Amerio, Gherardini e la rottura del Concilio

ROMA, 12 luglio 2010 – Da qualche giorno è nelle librerie italiane un nuovo volume di Romano Amerio, il terzo dell'"opera omnia" di questo autore, che le edizioni Lindau stanno pubblicando.

Amerio, morto nel 1997 a Lugano all'età di 92 anni, è stato uno dei più grandi intellettuali cristiani del Novecento.

Filologo e filosofo di prima grandezza, Amerio è divenuto noto in tutto il mondo per il suo saggio uscito per la prima volta nel 1985 e tradotto in più lingue dal titolo: "Iota unum. Studio delle variazioni della Chiesa cattolica nel secolo XX".

Ma questo stesso saggio, proprio per le tesi in esso sostenute, procurò ad Amerio l'ostracismo della quasi totalità del mondo cattolico. Un ostracismo che solo da poco tempo è caduto, anche grazie alla riedizione di "Iota unum".

Amerio dedicò mezzo secolo alla scrittura di "Iota unum". E anche questo terzo volume dell'"opera omnia" è stato scritto in un arco di tempo molto ampio, dal 1935 al 1996. Ha per titolo "Zibaldone" e – come l'omonima opera del poeta Giacomo Leopardi – raccoglie brevi pensieri, aforismi, racconti, citazioni di classici, dialoghi morali, commenti a fatti quotidiani.

Con i suoi oltre settecento pensieri, "Zibaldone" forma una specie di autobiografia intellettuale dell'autore. Nella quale le questioni sollevate in "Iota unum" sono naturalmente presenti.

Come, ad esempio, in questa paginetta datata 2 maggio 1995:
"La autodemolizione della Chiesa deprecata da Paolo VI nel famoso discorso al Seminario Lombardo dell’11 settembre 1974 diviene ogni giorno più palese. Già nel Concilio il cardinale Heenan (Primate d’Inghilterra) lamentava che i vescovi avessero cessato di esercitare l’officio del Magistero, ma si confortava osservando che tale ufficio si era conservato pienamente nel Pontificato Romano. L’osservazione era ed è falsa. Oggi il Magistero episcopale è cessato e quello papale anche. Oggi il Magistero è esercitato dai teologi che hanno ormai improntato tutte le opinioni del popolo cristiano e squalificato il dogma della fede. Ne ho avuto una dimostrazione impressionante ascoltando ieri sera il teologo di Radio Maria. Egli negava impavidamente e tranquillissimamente articoli di fede. Insegnava [...] che i Pagani, cui non è annunciato il Vangelo, se seguono il dettame della giustizia naturale e si studiano di cercare Dio con sincerità, vanno alla visione beatifica. Questa dottrina dei moderni è antichissima nella Chiesa ma fu sempre condannata come errore. Ma i teologi antichi, mentre tenevano fermo il dogma di fede, sentivano però tutta la difficoltà che il dogma incontra e si studiavano di vincerla con escogitazioni profonde. I teologi moderni invece non avvertono le difficoltà intrinseche del dogma, ma corrono diritti alla 'lectio facilior' mettendo in soffitta tutti i decreti dottrinali del Magistero. E non si accorgono di negare così il valore del battesimo e tutto l’ordine soprannaturale, cioè tutta la nostra religione. Anche in altri punti il rifiuto del Magistero è diffuso. L’inferno, l’immortalità dell’anima, la risurrezione dei corpi, l’immutabilità di Dio, la storicità di Cristo, la reità della sodomia, il carattere sacro e indissolubile del matrimonio, la legge naturale, il primato del divino sono altrettanti argomenti in cui il Magistero dei teologi ha eliminato il Magistero della Chiesa. Questa arroganza dei teologi è il fenomeno più manifesto dell’autodemolizione".

*

Da questa sua analisi fortemente critica, che egli applicava anche al Concilio Vaticano II, Amerio ricavava quello che Enrico Maria Radaelli, suo fedele discepolo e curatore della pubblicazione delle opere del maestro, chiama il "gran dilemma giacente al fondo della cristianità d'oggi".

Il dilemma è se tra il magistero della Chiesa prima e dopo il Vaticano II via sia continuità o rottura.

Nel caso di una rottura, se questa fosse tale da "perdere la verità" anche la Chiesa andrebbe perduta.

Amerio non arrivò mai a sostenere tale esito. Fu sempre figlio obbediente della Chiesa. Non solo. Sapeva per fede che, nonostante tutto, la Chiesa non può perdere la verità e quindi se stessa, perché assistita indefettibilmente "dai due grandi giuramenti di nostro Signore: 'Le porte dell'inferno non prevarranno contro di lei' (Matteo 16, 18) e 'Sarò con voi tutti i giorni fino alla fine dei secoli' (Matteo 28, 20)".

Ma era convinzione di Amerio – e Radaelli lo spiega bene nella sua ampia postfazione a "Zibaldone" – che tale riparo assicurato da Cristo alla sua Chiesa vale solo per le definizioni dogmatiche "ex cathedra" del magistero, non per gli insegnamenti incerti, sfuggenti, opinabili, "pastorali" del Concilio Vaticano II e dei decenni successivi.

Proprio questa, infatti, a giudizio di Amerio e Radaelli, è la causa della crisi della Chiesa conciliare e postconciliare, una crisi che l'ha portata vicinissima alla sua "impossibile ma anche quasi avvenuta" perdizione: l'aver voluto rinunciare a un magistero imperativo, a definizioni dogmatiche "inequivoche nel linguaggio, certe nel contenuto, obbliganti nella forma, come ci si aspetta siano almeno gli insegnamenti di un Concilio".

La conseguenza, secondo Amerio e Radaelli, è che il Concilio Vaticano II è pieno di asserzioni vaghe, equivoche, interpretabili in modi difformi, alcune delle quali, anzi, in sicuro contrasto col precedente magistero della Chiesa.

E questo ambiguo linguaggio pastorale avrebbe aperto la strada a una Chiesa oggi "percorsa da mille dottrine e centomila nefandi costumi". Anche nell'arte, nella musica, nella liturgia.

Che fare per porre rimedio a questo dissesto? La proposta che fa Radaelli va oltre quella fatta di recente – a partire da giudizi critici altrettanto duri – da un altro stimato cultore della tradizione cattolica, il teologo tomista Brunero Gherardini, 85 anni, canonico della basilica di San Pietro, professore emerito della Pontificia Università Lateranense e direttore della rivista "Divinitas".

*

Monsignor Gherardini ha avanzato la sua proposta in un libro uscito a Roma lo scorso anno dal titolo: "Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare".

Il libro si conclude con una "Supplica al Santo Padre". Al quale viene chiesto di sottoporre a riesame i documenti del Concilio, per chiarire una volta per tutte "se, in che senso e fino a che punto" il Vaticano II sia o no in continuità con il precedente magistero della Chiesa.

Il libro di Gherardini è introdotto da due prefazioni: una di Albert Malcolm Ranjith, arcivescovo di Colombo ed ex segretario della congregazione vaticana per il culto divino, e l'altra di Mario Olivieri, vescovo di Savona. Quest'ultimo scrive di unirsi "toto corde" alla supplica al Santo Padre.

Ebbene, nella sua postfazione a "Zibaldone" di Romano Amerio, il professor Radaelli accoglie la proposta di monsignor Gherardini, ma "solo come un utile primo gradino per ripulire l'aia da molti, da troppi fraintendimenti".

Chiarire il senso dei documenti conciliari, infatti, a giudizio di Radaelli non basta, se tale chiarimento viene poi anch'esso offerto alla Chiesa con il medesimo, inefficace stile d'insegnamento "pastorale" entrato in uso con il Concilio, propositivo invece che impositivo.

Se l'abbandono del principio di autorità e il "discussionismo" sono la malattia della Chiesa conciliare e postconciliare, per uscire da lì – scrive Radaelli – è necessario agire all'opposto. La somma gerarchia della Chiesa deve chiudere la discussione con un pronunciamento dogmatico "ex cathedra", infallibile e obbligante. Deve colpire con l'anatema chi non obbedisce e benedire chi obbedisce.

E Radaelli cosa si aspetta che decreti la suprema cattedra della Chiesa? Alla pari di Amerio, egli è convinto che in almeno tre casi vi sia stata "un'abissale rottura di continuità" tra il Vaticano II e il precedente magistero: là dove il Concilio afferma che la Chiesa di Cristo "sussiste nella" Chiesa cattolica invece di dire che "è" la Chiesa cattolica; là dove asserisce che "i cristiani adorano lo stesso Dio adorato da ebrei ed islamici"; e nella dichiarazione "Dignitatis humanæ" sulla libertà religiosa.

*

In Benedetto XVI, sia Gherardini che Amerio-Radaelli riconoscono un papa amico. Ma che egli esaudisca i loro voti è da escludersi.

Anzi, sia nell'insieme che su alcuni punti controversi papa Joseph Ratzinger ha già fatto capire di non condividere affatto le loro posizioni.

Ad esempio, sulla continuità di significato tra le formule "è" e "sussiste nella" si è espressa la congregazione per la dottrina della fede nell'estate del 2007 [LINK], affermando che "il Concilio Ecumenico Vaticano II né ha voluto cambiare né di fatto ha cambiato la precedente dottrina sulla Chiesa, ma ha voluto solo svilupparla, approfondirla ed esporla più ampiamente".

Quanto alla dichiarazione "Dignitatis humanæ" sulla libertà religiosa, Benedetto XVI in persona ha spiegato che se essa si è distaccata da precedenti indicazioni "contingenti" del magistero, lo ha fatto proprio per "riprendere nuovamente il patrimonio più profondo della Chiesa".

Il discorso nel quale Benedetto XVI ha difeso l'ortodossia della "Dignitatis humanæ" è quello da lui rivolto alla curia vaticana alla vigilia del primo Natale del suo pontificato, il 22 dicembre 2005, proprio per sostenere che tra il Concilio Vaticano II e il precedente magistero della Chiesa non c'è rottura ma "riforma nella continuità".

Papa Ratzinger non ha finora convinto i lefebvriani, che proprio su questo punto cruciale si mantengono in stato di scisma.

Ma non ha convinto – a quanto scrivono Radaelli e Gherardini – nemmeno alcuni suoi figli "obbedientissimi in Cristo".

****


Non saremmo così categorici circa il futuro rifiuto di Benedetto XVI di accogliere la domanda di chiarimenti avanzata da mons. Gherardini e, ora, da Radaelli. Anzi: i colloqui dottrinali con i lefebvriani potrebbero esserne l'occasione. Certamente, il Papa deve preparare gradualmente gli spiriti (come ha cominciato del resto a fare con la Dominus Iesus, contro cui si scatenò quasi tutta la Chiesa), né può ovviamente sconfessare apertamente i testi conciliari, pena non solo un'opposizione invincibile, ma ancor più una contraddizione magisteriale ancor più grave, forse, di quella tra i documenti del Concilio e il magistero precedente. Di qui la sua esigenza di tenere insieme tutti i pezzi del puzzle. Ma la dichiarazione del Sant'Uffizio sul 'subsistit' è già un passo estremamente importante, anche se certo deve essere rafforzato sotto il profilo della cogenza magisteriale, nonché mediante l'abbandono di certe residue ambiguità di discorso che sono, come nota Radaelli, la cifra espressiva caratteristica degli ultimi 40 anni.

Circa la libertà religiosa, il Papa, nell'importantissima allocuzione del 22 dicembre 2005, distinse tra i princìpi, rimasti immutati, e la loro applicazione concreta che ha portato nell'Ottocento al Sillabo, e nel Novecento alla
Dignitatis Humanae (che lo stesso giovane Ratzinger definì l'antisillabo). Benedetto XVI si accorge che il filo del suo discorso, volto a tenere insieme quanto appare inconciliabile, è arduo da seguire - per non dire tenue! - e lo ammette scrivendo: "È chiaro che in tutti questi settori, che nel loro insieme formano un unico problema, poteva emergere una qualche forma di discontinuità e che, in un certo senso, si era manifestata di fatto una discontinuità, nella quale tuttavia, fatte le diverse distinzioni tra le concrete situazioni storiche e le loro esigenze, risultava non abbandonata la continuità nei principi – fatto questo che facilmente sfugge alla prima percezione". Vogliamo però aggiungere che il tentativo di compromesso (compromesso, si ripete, inevitabile, non potendosi purtroppo considerare il Concilio tamquam non esset) ci sembra avere una sua plausibilità, oltre che un'indubbia necessità. Scendendo da un piano astratto ad uno molto concreto, che ci è più congeniale, ci permettiamo inoltre di aggiungere una considerazione, anche per stimolare la discussione e, perché no, la correzione da parte dei lettori. Eccola: se il Sillabo si inseriva in un contesto storico nel quale vi erano ancora Stati almeno formalmente confessionali, che si potevano quindi richiamare al dovere di difendere la Fede, ha senso controvertere oggi sulla questione se lo Stato debba restringere la libertà dei culti acattolici, quando la realtà evolve sempre più verso un laicismo apertamente anticristiano, o peggio ancora verso la conquista islamica, sicché teorizzare divieti e censure statali in favore della vera religione è completamente velleitario, mentre invocare libertà religiosa per tutti appare come una forma di garanzia per i cattolici perseguitati di oggi e di domani?

Enrico

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